Senza totalità, allo scienziato rimane da indagare fatti slegati, ossia accettare lo status quo.
Un importante articolo sul tema più sostanziale di ogni epoca: quello della verità e del suo albergare o meno, e in che misura, nella realtà sociale come nella vita soggettiva, sempre che di quest' ultima ne esista una.---
Introduzione
La filosofia della scienza si è a lungo interrogata sulla diversa
natura delle singole discipline e sull’unicità o meno dei metodi della
scienza che ne poteva derivare. Fino al XIX secolo, la specializzazione
scientifica non era tale da originare controversie. Gli scienziati erano
anche filosofi e spesso studiosi della società e storici
[1]
. Gli intellettuali avevano una conoscenza almeno basilare di tutte le
scienze principali e della filosofia e nessuna scienza godeva di uno
status superiore poiché ancora nessuna scienza aveva contribuito a un
incremento sensibile delle forze produttive.
Il fenomenale sviluppo della scienza degli ultimi secoli ha elevato
lo status delle scienze naturali, relegando le discipline sociali a
chiacchiericcio. Il sentire comune è che la fisica sia “la” scienza
assieme a ciò che le si avvicina per rigore nella sperimentazione e
nella teorizzazione. Il contributo della fisica allo sviluppo umano
appare ovvio e incontrovertibile, quello delle scienze sociali quanto
meno dubbio. Le riflessioni epistemologiche moderne sono tentativi di
generalizzare i metodi della fisica per consentire a tutte le branche
del sapere di arrivare allo stesso livello di sviluppo: “le scienze
dell’uomo e della società si sforzano di emulare il modello delle
scienze naturali che hanno tanto successo”[2],
così che tra le influenze dominanti per le scienze sociali vi è quella
dei “modelli forniti dalle scienze della natura” (Piaget, cit., p. 29).
Al massimo, allora, alla filosofia non rimane che il ruolo di
commentatrice e generalizzatrice, poiché “resta la tendenza fondamentale
dello sviluppo filosofico: riconoscere come necessari e come dati i
risultati ed i metodi delle scienze particolari, attribuendo alla
filosofia il compito di portare alla luce e di giustificare il
fondamento di validità di queste costruzioni concettuali”[3] .
L’epistemologia moderna, in quasi tutte le sue componenti, riflette
il trionfo delle scienze naturali. Nell’ottocento, molti scienziati
guardavano ottimisticamente alle scienze nel loro complesso,
evidenziando una loro natura unitaria in quanto parti del progresso
dell’industria e della società (Helmholtz per tutti). Nel ventesimo
secolo, la scuola epistemologica più di successo e duratura, il
neopositivismo, considera una parte fondamentale del suo programma la
battaglia per l’unificazione delle scienze, ovviamente sotto le bandiere
della fisica. Pur da prospettive diverse, gli epistemologi successivi
hanno sostanzialmente accettato questa posizione monista. Ciò vale anche
per diversi pensatori marxisti, che hanno subordinato le scienze
sociali a quelle naturali[4].
D’altro canto, le correnti che hanno proposto interazioni tra scienza e
società (in particolare la sociologia della conoscenza), hanno rilevato
il carattere sociale di tutte le scienze, in un quadro metodologico, di nuovo, sostanzialmente monista.
In queste concezioni ha poco senso distinguere tra scienze sociali e
naturali. Esse avranno gli stessi obiettivi, gli stessi metodi, spesso
gli stessi strumenti analitici e si distingueranno, al massimo, per un
diverso grado di sviluppo e formalizzazione. Le scienze più sviluppate
forniranno il modello per tutte le altre, che non dovranno far altro che
seguirne le orme.
In questo scritto cercheremo di dimostrare che esiste invece una
differenza strutturale, ontologica, tra le scienze che non coincide
strettamente con la distinzione tra scienze naturali e sociali e che
tale distinzione deriva dalla loro funzione sociale, da cui anche deriva
il rapporto con i criteri di verità della scienza. Ciò che distingue le
scienze, proveremo a spiegare, non è il metodo o l’oggetto di studio,
ma il rapporto con le forze produttive e i rapporti di produzione.