A proposito dell' affinamento della forma valore operato nella produzione agricola e poi consegnato all' industria. Il lungo abbrivio della lenta ma inesorabile crescita della produttività accumulata nei secoli del basso medioevo doveva strutturarsi in un nuovo corpo con abito altrettanto nuovo, senza potersi mai più riconoscere. L' articolo sembra sintetizzare negli "imperativi del mercato" ciò che io, appoggiandomi indegnamente su altri, chiamo rapporto sociale capitalistico. ---
Update: questo innocuo post ha sortito una polemica con un certo Plinio che ha pensato di cogliermi in fallo poichè qui propongo questa breve indagine sul primo esempio di centralizzazione dei mezzi di produzione avvenuto nell'Inghilterra del XVII sec in campo agricolo. Al contrario spesso mi esprimo in favore di uno slancio e di una attenzione particolari verso ciò che già oggi tratteggia la necessità di una nuovissima combinazione storico-sociale. C'è contraddizione logica? In realtà per me, nella mia testa, -luogo esclusivo, mi rendo conto- questo post continuava un commento lasciato pochi giorni prima nel blog Diciottobrumaio in cui accennavo ad alcune questioni inerenti a questo tema. Ora che la gratuita polemica del mio interlocutore si dovrebbe essere quietata ne posso dare spiegazione.
Update: questo innocuo post ha sortito una polemica con un certo Plinio che ha pensato di cogliermi in fallo poichè qui propongo questa breve indagine sul primo esempio di centralizzazione dei mezzi di produzione avvenuto nell'Inghilterra del XVII sec in campo agricolo. Al contrario spesso mi esprimo in favore di uno slancio e di una attenzione particolari verso ciò che già oggi tratteggia la necessità di una nuovissima combinazione storico-sociale. C'è contraddizione logica? In realtà per me, nella mia testa, -luogo esclusivo, mi rendo conto- questo post continuava un commento lasciato pochi giorni prima nel blog Diciottobrumaio in cui accennavo ad alcune questioni inerenti a questo tema. Ora che la gratuita polemica del mio interlocutore si dovrebbe essere quietata ne posso dare spiegazione.
Una delle più consolidate convenzioni
della cultura occidentale è l’associazione del capitalismo con la città.
É invalsa la supposizione che esso sia nato e cresciuto nelle città.
Non solo, tutto ciò implica che qualsiasi città – con le sue
caratteristiche attività di traffico e commercio – sia per natura, e sin
dagli inizi, potenzialmente capitalista, e come solo ostacoli esterni
abbiano impedito a ogni civiltà urbana di dare i natali al capitalismo.
Solo la religione sbagliata, la forma di stato sbagliata, o ogni altro
genere di catene ideologiche, politiche e culturali che abbiano frenato
le classi urbane, hanno impedito al capitalismo di sorgere ovunque e
comunque, sin da tempi immemorabili – o perlomeno da quando la
tecnologia ha permesso un’adeguata produzione di eccedenze.
Ciò che spiega lo sviluppo del
capitalismo in occidente, secondo questo punto di vista, è l’autonomia
delle sue città e della loro classe per eccellenza: la borghesia. In
altre parole, il capitalismo è emerso in occidente non tanto a causa di
ciò che era presente bensì a causa di ciò che era assente:
i vincoli alle pratiche economiche urbane. In tali condizioni è stata
sufficiente una più o meno naturale espansione del commercio per
innescare lo sviluppo del capitalismo sino alla sua piena maturità.
Unico fattore assolutamente necessario la crescita quantitativa, la
quale si è verificata inevitabilmente col passare del tempo (in alcune
versioni, ovviamente, agevolata ma non causata originariamente dall’etica protestante).
Ci sarebbero numerose obbiezioni che si
potrebbero rivolgere alle ipotesi di una naturale connessione tra città e
capitalismo. Tra le tante, il fatto che esse tendano a naturalizzare il
capitalismo, così da occultarne il carattere distintivo come specifica
forma sociale storicamente determinata, con un inizio e (senza alcun
dubbio) una fine. La propensione a identificare il capitalismo con la
città, e il commercio urbano, è stata generalmente accompagnata
dall’inclinazione a considerarlo, più o meno automaticamente, come una
conseguenza di pratiche antiche come l’umanità; se non, addirittura,
un’automatica conseguenza della natura umana, la “naturale”
inclinazione, nelle parole di Adam Smith, a “trafficare, barattare e
scambiare”.
Probabilmente il più salutare correttivo a
simili assunzioni – nonché alle loro implicazioni ideologiche –
consiste nel riconoscere che il capitalismo, con le sue particolari
forme di accumulazione e massimizzazione dei profitti, è nato non nelle
città ma nelle campagne, in un luogo specifico, e molto tardi nella
storia umana. Esso non richiede una semplice estensione o espansione dei
traffici e degli scambi, ma una completa trasformazione delle più
basilari pratiche e relazioni umane, una rottura con secolari modelli
d’interazione umana con la natura, finalizzati alla produzione di
fondamentali necessità della vita. Se la tendenza a assimilare il
capitalismo con la città è associata con quella a oscurare la specificità del
capitalismo, allora il modo migliore per mettere in luce quest’ultima e
quello di considerare le origini agrarie del capitalismo.
Che cos’è il “capitalismo agrario”
Per millenni l’umanità ha provveduto ai
propri bisogni materiali lavorando la terra. E quasi certamente sin da
quando è stata impegnata nell’agricoltura essa ha conosciuto la
divisione in classi, tra coloro che lavorano la terra e coloro che si
appropriano il prodotto del lavoro altrui. Divisione tra appropriatori e
produttori che ha assunto molteplici forme in tempi e luoghi diversi,
ma con una comune caratteristica, ossia che i produttori sono sempre
stati contadini. Produttori contadini che sono rimasti in possesso dei
loro mezzi di produzione, in particolare la terra. Come in tutte le
società pre-capitaliste tali produttori avevano accesso diretto ai mezzi
necessari alla propria riproduzione. Il che significa che nel momento
in cui il loro pluslavoro gli è stato sottratto dagli sfruttatori , ciò è
stato fatto tramite quelli che Marx chiama mezzi “extra-economici” –
vale a dire, con forme di coercizione dirette, esercitate dai
proprietari terrieri e/o stati dotati di forza superiore, accesso
privilegiato al potere militare, giudiziario e politico.
Questa è, dunque, la fondamentale
differenza tra le società pre-capitaliste e il capitalismo. Essa non ha
niente a che vedere col fatto che la produzione sia urbana o rurale,
quanto invece con i particolari rapporti di proprietà tra produttori e
appropriatori, che si tratti di industria o agricoltura. Solo nel
capitalismo la forma dominante di appropriazione del surplus è basata
sulla espropriazione dei produttori diretti, il pluslavoro dei quali
viene sottratto con metodi puramente “economici”. Poiché i produttori
diretti in un capitalismo pienamente sviluppato sono privi di proprietà,
è perché il loro unico accesso ai mezzi di produzione, utili alla loro
riproduzione, e perfino ai mezzi del loro lavoro, consiste nella vendita
della loro forza-lavoro in cambio di un salario, i capitalisti possono
appropriarsi del pluslavoro senza coercizione diretta.
Questa relazione tra produttori e
appropriatori è, naturalmente, mediata dal “mercato”. Nel corso della
storia sono esistite svariate tipologie di mercati, avendo gli uomini
scambiato e venduto le loro eccedenze in modi differenti e per i più
diversi scopi. Ma nel capitalismo il mercato ricopre una funzione
distintiva e senza precedenti. In una società capitalistica praticamente
tutto è una merce prodotta per il mercato. Ancora più importante, sia
il capitale che il lavoro sono totalmente dipendenti dal mercato per
quanto riguarda le più elementari condizioni della loro riproduzione.
Esattamente come i lavoratori dipendono dal mercato per vendere la
propria forza-lavoro come merce, i capitalisti ne dipendono per
l’acquisto della forza-lavoro, così come dei mezzi di produzione,
oltreché per realizzare i loro profitti con la vendita dei beni o
servizi prodotti dai lavoratori. Una simile dipendenza dal mercato
conferisce a quest’ultimo un ruolo inedito nelle società capitaliste,
non solo come meccanismo di scambio o distribuzione ma come principale
determinante e regolatore della riproduzione sociale. L’assurgere del
mercato a un tale ruolo presuppone la sua penetrazione nella produzione
del più basilare dei beni, il cibo.
Un sistema dipendente a tal punto dal
mercato comporta alcune particolari “leggi di movimento”, specifici
requisiti sistemici e regolarità sconosciute a ogni altro modo di
produzione: gli imperativi della competizione, accumulazione e
massimizzazione dei profitti. Imperativi, che a loro volta, indicano
come il capitalismo possa, e debba, costantemente espandersi in modi e
gradi assenti in altre forme sociali – accumulare costantemente, cercare
continuamente nuovi mercati, imporre i propri imperativi a
nuovi territori e nuovi ambiti della vita, agli esseri umani e
all’ambiente naturale.
Una volta che riconosciamo quanto siano
caratteristici queste relazioni e processi sociali, quanto siano
differenti da altre forme sociali le quali hanno dominato per buona
parte della storia dell’umanità, diventa chiara la necessità di uno
sforzo maggiore per comprendere questa distintiva forma sociale, uno
sforzo che vada al di là del triviale assunto che essa è sempre esistita
in embrione, in attesa di essere liberata da innaturali costrizioni. La
questione circa le sue origini può, allora, essere così formulata: dato
che i produttori sono stati sfruttati dagli espropriatori per millenni,
attraverso modalità non capitalistiche, prima dell’avvento del
capitalismo, e dato che i mercati sono esistiti “da tempi immemori” e
praticamente ovunque, come è potuto accadere che i produttori e gli
appropriatori, e i loro rapporti, siano divenuti così dipendenti dal
mercato?
Ovviamente, i lunghi e complessi processi
storici, che da ultimo hanno condotto a simili condizioni di dipendenza
dal mercato, possono essere tracciati indietro nel tempo all’infinito.
Il quesito, tuttavia, può essere reso più abbordabile identificando
l’epoca e il luogo nei quali, per la prima volta, una nuova dinamica
sociale è chiaramente discernibile, una dinamica derivante dalla
dipendenza dal mercato dei principali attori economici. In tal modo
possiamo esplorare le condizioni specifiche nelle quali è inscritta
questa situazione unica.
Nel XVIII secolo, e anche molto più
tardi, la maggior parte del mondo, Europa compresa, era libera dagli
imperativi del mercato che abbiamo elencati. Esisteva certamente un
vasto sistema di commerci, ormai esteso a tutto il globo. Ma in alcun
luogo, né nei grandi snodi commerciali dell’europa, né nelle grandi reti
commerciali del mondo islamico o dell’Asia, l’attività economica, e la
produzione in particolare, erano guidate dagli imperativi della
competizione e dell’accumulazione. I principi dominanti del mercato
erano dappertutto “profitto tramite alienazione”, o “comprare al prezzo
più basso e vendere a quello più alto possibile” – in particolare,
comprare al prezzo più basso in un mercato e vendere a a quello più
alto in un altro.
Il commercio internazionale era
essenzialmente un commercio di “trasporto”, fatto da mercanti che
acquistavano beni in un luogo vendendoli in un altro così da ottenere un
profitto. Ma anche in un singolo, potente, e relativamente unificato
regno europeo come la Francia, prevalevano praticamente gli stessi
principi di mercato non capitalistici. Non vi era un mercato singolo e
unificato, un mercato nel quale fare profitti non comprando a poco e
vendendo a tanto, o trasportando merci da un mercato all’altro, bensì
producendo a costi più vantaggiosi in diretta competizione con altri
operanti nello stesso mercato.
Il commercio era prevalentemente quello
di beni di lusso, tutt’al più merci destinate alle famiglie più ricche o
a soddisfare le necessità e i modelli di consumo delle classi
dominanti. Non vi era un mercato di massa per prodotti di consumo
quotidiano a basso prezzo. I contadini erano soliti produrre non solo il
loro stesso cibo ma anche beni di uso quotidiano come i vestiti. Essi
potevano portare le loro eccedenze al mercato locale, nel quale il
ricavato della loro vendita poteva essere scambiato con altre merci non
prodotte in casa. I prodotti agricoli potevano anche essere venduti in
mercati più lontani. Ma ancora una volta i principi alla base del
commercio erano gli stessi della manifattura dei beni.
Principi del commercio non capitalistici
che convivevano fianco a fianco con metodi di sfruttamento anch’essi non
capitalistici. In particolare, in Europa occidentale, anche quando la
servitù feudale era ormai scomparsa, prevalevano comunque altre forme di
sfruttamento “extra-economiche”. In Francia, ad esempio, dove i
contadini costituivano ancora la stragrande maggioranza della
popolazione e erano in possesso di buona parte della terra, le cariche
nello stato centrale costituivano una risorsa economica per molti membri
delle classi dominanti, un mezzo di estrazione del pluslavoro
attraverso le tasse imposte ai contadini. E anche i proprietari titolari
di rendite d’affitti, generalmente, dipendevano da una serie di poteri e
privilegi extra-economici per accrescere le loro ricchezze.
Dunque i contadini avevano accesso ai
mezzi di produzione, in primo luogo la terra, senza dover offrire la
propria forza lavoro come merce. Proprietari e detentori di cariche, con
l’ausilio di svariati poteri e privilegi “extra-economici”, estraevano
il pluslavoro dai contadini in modo diretto, in forma di fitti o tasse.
In altre parole, nonostante ogni genere di persone potesse comprare e
vendere ogni tipo di cose sul mercato, né i contadini-proprietari, né i
padroni e i detentori di cariche, i quali si appropriavano di ciò che
altri producevano, dipendevano direttamente dal mercato per le
condizione della loro riproduzione, e le relazioni tra di loro non erano
mediate dal mercato
.
C’era, tuttavia, un’importante eccezione a
questa regola generale. L’Inghilterra, già ne XVI secolo, si stava
sviluppando verso direzioni del tutto inedite. Pur essendovi altri stati
monarchici relativamente forti, più o meno unificati sotto una corona
(come la Spagna e la Francia) nessuno poteva vantare un’unificazione
efficace come quella inglese (e qui l’enfasi è proprio sull’Inghilterra e
non su altre parti delle “isole britanniche”). Nel XVI secolo
l’Inghilterra – già più unita di quanto non fosse nel secolo XI, quando
la classe dominante normanna si stabilì nell’isola come una coesa entità
politico-militare – aveva intrapreso un lungo percorso verso
l’eliminazione della frammentazione dello stato, quella”sovranità
parcellizzata” eredità del feudalesimo. I poteri autonomi, detenuti dai
signori, dai corpi municipali e da altre entità corporative in altri
stati europei erano, in Inghilterra, sempre più concentrati nelle mani
dello stato centrale. Tutto ciò era in contrasto con altri stati
europei, nei quali anche le monarchie più potenti continuarono a vivere
inquietamente a fianco a poteri militari post-feudali, sistemi legali
frammentati, privilegi corporativi i cui possessori sulla propria
autonomia contro il potere centralizzatore dello stato.
La caratteristica centralizzazione
politica dello stato inglese aveva basi e corollari di natura materiale.
Innanzitutto, già nel XVI secolo, l’Inghilterra vantava una rete
impressionante di strade e trasporti via acqua, i quali unificavano la
nazione ad un livello inusuale per il periodo. Londra, divenuta
sproporzionatamente grande in relazione a altre città inglesi e rispetto
al totale della popolazione (e infine la più grande città d’Europa), si
stava anche trasformando nel fulcro di un mercato nazionale in via di
sviluppo.
La base materiale sulla quale questa
emergente economia nazionale poggiava era l’agricoltura inglese, le cui
caratteristiche uniche erano molteplici. La classe dominante inglese si
distingueva per due aspetti importanti e correlati: da un lato, come
parte di uno stato sempre più accentrato, in alleanza con una monarchia
centralizzatrice, essa non disponeva dello stesso grado di poteri
“extra-economici”, più o meno autonomi”, sui quali altre classi
dominanti potevano contare per estrarre il pluslavoro dai produttori
diretti. Dall’altro, la terra in Inghilterra era stata a lungo
concentrata in maniera inusuale, con i grandi proprietari in possesso di
proporzioni di terreno insolitamente vaste. Una tale concentrazione
della proprietà terriera significava che i signori inglesi erano in
grado di sfruttare le loro proprietà in modi nuovi e differenti. Ciò che
mancava loro dal lato del potere “extra-economico” di estrazione del
surplus era compensato dai loro crescenti poteri “economici”.
Questa particolare combinazione ha avuto
conseguenze significative. Da una parte, la concentrazione della
proprietà terriera significava che buona parte della terra non era
lavorata da contadini proprietari ma da contadini fittavoli. Questo
anche prima delle ondate di espropriazioni, specialmente ne XVI e XVIII
secolo, convenzionalmente associate alle “enclosures”, in contrasto, per
esempio, con la Francia, nella quale ampie proporzioni di terra
rimasero a lungo in mano ai contadini.
D’altra parte, i deboli poteri
“extra-economici” dei proprietari significavano minore dipendenza
dall’abilità di estrarre rendite dai loro fittavoli attraverso mezzi
coercitivi, anziché dalla loro produttività. I proprietari avevano
dunque un forte incentivo a incoraggiare – e laddove possibile, anche
costringere – i loro fittavoli a trovare modalità per accrescere la loro
produzione. A questo proposito, essi erano fondamentalmente differenti
dagli aristocratici rentier, la cui ricchezza, nel corso della storia, è
sempre dipesa dallo spremere le eccedenze dai contadini tramite la
coercizione, aumentando la propria facoltà di estrazione del surplus non
accrescendo la produttività, bensì incrementando i loro poteri
coercitivi – fossero questi di natura militare, giudiziaria o politica.
Per quanto riguarda i fittavoli stessi,
erano sempre più soggetti non solo alle pressioni dei proprietari ma
anche agli imperativi del mercato che li obbligavano a incrementare la
produttività. I contratti di locazione inglesi presero varie forme, con
numerose varianti regionali, ma un numero crescente era assoggettato a
criteri economici, ossia, i fitti non venivano fissati sulla base di
standard legali o consuetudinari ma erano sempre più legati alle
condizione di mercato. Già dagli inizi dell’epoca moderna molti
contratti di locazione consuetudinari erano diventati, di fatto,
contratti economici di questo tipo.
L’effetto di un simile sistema di
relazioni di proprietà fu che molti produttori agricoli (compresi i
benestanti “yeoman”) dipendevano dal mercato, non solo perché costretti a
vendervi i prodotti, quanto nel senso più fondamentale che il loro
accesso alla terra stessa, ai mezzi di produzione, era mediato dal
mercato. In effetti esisteva un mercato dei contratti nel quale i futuri
fittavoli dovevano competere. La sicurezza di questi ultimi dipendeva
dalla capacità di pagare il canone di locazione, e una produzione non
sufficientemente competitiva poteva significare la perdita definitiva
della terra. Per far fronte ai canoni, in una situazione nella quale
altri potenziali fittavoli concorrevano per gli stessi contratti, i
fittavoli erano costretti a produrre in modi più efficaci, pena
l’espropriazione.
Anche i fittavoli che godevano di un
qualche contratto consuetudinario che garantisse loro maggior sicurezza,
ma comunque obbligati a vendere i propri prodotti negli stessi mercati,
potevano trovarsi in difficoltà, laddove gli standard competitivi di
produttività venivano fissati da contadini sottoposti più direttamente
alle pressioni del mercato. Tutto ciò valeva sempre più anche per i
proprietari che lavoravano la loro terra. In un ambiente così
competitivo, gli agricoltori più produttivi prosperavano e le loro
proprietà crescevano, mentre i produttori meno competitivi affondavano e
raggiungevano le classi non possidenti.
In ogni caso, l’effetto degli imperativi
di mercato fu quello di intensificare lo sfruttamento al fine di
incrementare la produttività – sia che si trattasse dello sfruttamento
del lavoro altrui o di auto-sfruttamento dal parte del contadino e della
sua famiglia. Un modello riprodotto nelle colonie e nell’America
post-indipendenza, dove i piccoli agricoltori indipendenti, i quali si
supponeva dovessero costituire la spina dorsale di una repubblica
libera, dovettero, sin dall’inizio, affrontare la difficile scelta
imposta dal capitalismo agrario: nel migliore dei casi, un intenso
auto-sfruttamento, nel peggiore l’espropriazione da parte di aziende più
grandi e produttive.
L’ascesa della proprietà capitalistica
Così dal XVI secolo l’agricoltura inglese
è stata caratterizzata da una combinazione unica di condizioni,
perlomeno in alcune regioni, la quale ha gradualmente fissato la
direzione dell’intera economia. Il risultato è stato un settore agrario
produttivo come mai nessun’altro nella storia. [Ho letto relazioni simili sulla produttività agricola nel Giappone del periodo Edo, ottenuta in tutto un altro modo]. Proprietari e fittavoli
iniziavano a preoccuparsi di ciò che chiamavano “miglioramento”,
l’incremento della produttività della terra ai fini del profitto.
Vale la pena soffermarsi sul concetto di
“miglioramento”, poiché ci dice molto sull’agricoltura inglese e sullo
sviluppo del capitalismo. Il vocabolo inglese “improve” stesso, nel suo
senso originario, non significa solo “fare meglio” in generale, ma
letteralmente (sulla base dell’antico francese per “into”, en, e “profit”, pros, o il suo caso obliquo, preu)
fare qualcosa per un profitto monetario e specificamente coltivare la
terra per profitto. A partire dal XVII secolo la parola “improver” si
fissa chiaramente nel linguaggio in riferimento a qualcuno che rende la
terra produttiva e redditizia, in particolare recintandola e
bonificandola. Il “miglioramento” agricolo diventa da allora una prassi
consolidata, e nel XVIII secolo, l’età d’oro del capitalismo agricolo,
da il meglio di sé.
Il termine stava, contemporaneamente,
acquisendo un significato più generale, nel senso che gli attribuiamo
oggi (si pensi alle implicazioni di una cultura nella quale il vocabolo
per “fare meglio” e radicato nella parola per “profitto monetario”).
Anche se nel suo essere associato all’agricoltura , eventualmente, ha
perso un po’ della sua specificità – per esempio, alcuni pensatori
radicali nel Novecento usano “miglioramento” nel senso di agricoltura
scientifica, slegato dalla connotazione di profitto commerciale.
Tuttavia agli albori dell’epoca moderna, produttività e profitto erano
connessi inestricabilmente nel concetto di “miglioramento”, il quale
ben riassume l’ideologia del nascente capitalismo agrario.
Nel XVII secolo, dunque, emerge un intero
nuovo corpus letterario, il quale illustra con una precisione senza
precedenti le tecniche e i benefici del miglioramento. Che è poi anche
una delle principali preoccupazioni della Royal Society, che riunisce
alcuni dei più eminenti scienziati inglesi (Isaac Newton e Robert Boyle
ne sono entrambi membri) con alcuni dei più lungimiranti esponenti della
classe dirigente inglese – come il filosofo John Locke e il suo
mentore, il primo conte di Shaftesbury, ambedue vivamente interessati
al miglioramento dell’agricoltura.
Miglioramento che, in primo luogo, non
dipendeva da significative innovazioni tecnologiche – sebbene si
ricorresse a nuove attrezzature. In generale, era più una questione di
sviluppo delle tecniche agronomiche: l’alternanza tra coltivazione e
periodi di riposo, la rotazione delle colture, il drenaggio delle paludi
e così via. Ma miglioramento significava qualcosa di
più che nuovi metodi o tecniche di coltivazione. Significava, infatti,
nuove forme e concezioni di proprietà. Il “miglioramento” agrario, per
il proprietario imprenditore e per il suo prospero fittavolo
capitalista, richiedeva un proprietà terriera più vasta e concentrata.
Nonché – e forse ancor più – l’eliminazione di vecchi costumi e pratiche
i quali interferivano con un uso più produttivo della terra.
Le comunità contadine avevano, da tempo
immemorabile, impiegato diversi metodi di regolazione dell’uso della
terra nell’interesse della comunità di villaggio. Avevano ristretto
determinate pratiche e garantiti alcuni diritti, non allo scopo di
incrementare la ricchezza del proprietario o dello stato, bensì in modo
da preservare l’esistenza della comunità stessa, magari conservare la
terra o distribuirne i frutti in modo più equo, e anche provvedere ai
membri meno fortunati della comunità. Perfino il diritto di proprietà
“privata” era tipicamente condizionato da simili pratiche
consuetudinarie, concedendo ai non-proprietari una serie di diritti
d’uso sule proprietà “possedute” da altri. In Inghilterra questo genere
di pratiche e costumi erano molto diffusi. Esistevano terre comuni,
nelle quali i membri della comunità potevano avere diritti di pascolo o
di raccogliere la legna da ardere, oltre a una serie di diritti d’uso
sulle terre private – come quello di cogliere i resti di un raccolto in
determinate stagioni.
Dal punto di vista dei proprietari
terrieri e degli agricoltori capitalisti, la terra doveva essere
liberata da tutti questi ostacoli all’uso produttivo e redditizio della
proprietà. Tra il XVI secolo e il XVIII secolo, si verificò una
crescente pressione per abolire i diritti consuetudinari che
interferivano con l’accumulazione capitalista. Ciò poteva significare
varie cose: contestazione della proprietà comune delle terre e
rivendicazione della proprietà privata; eliminazione di numerosi diritti
d’uso sulle terre private; o ancora, sfidare le consuetudini che
fornivano ai piccoli proprietari diritti di possesso senza un titolo
giuridico inequivocabile. In tutti questi casi, le tradizionali
concezioni della proprietà dovevano essere rimpiazzate dalle nuove
concezioni capitaliste della proprietà – la proprietà intesa non solo
come “privata” ma anche come esclusiva, ossia che letteralmente
escludeva gli altri individui della comunità, eliminando i regolamenti
di villaggio e le restrizioni sull’uso del suolo, estinguendo diritti
d’uso consuetudinari, e via dicendo.
Tali pressioni per trasformare la natura
della proprietà si sono manifestate in molti modi, sia nella teoria che
nella pratica. Sono emerse nelle cause legali, nei conflitti su
specifici diritti di proprietà, su porzioni di terra comune o privata
sulle quali diverse persone reclamavano diritti d’uso sovrapponentisi.
In questi casi, le pratiche e le rivendicazioni consuetudinarie si
trovavano direttamente poste a confronto con i principi del
“miglioramento” – e i giudici non di rado riconoscevano le ragioni di
quest’ultimo come legittime pretese contro i diritti consuetudinari, pur
essendo questi in vigore da tempo immemorabile.
Nuove concezioni della proprietà venivano teorizzate in maniera sistematica, tra le più note quella contenuta nel Secondo trattato sul governo
di John Locke. Il capitolo quinto di quest’opera è la classica
affermazione di una teoria della proprietà basata sui principi del
miglioramento. In questo contesto, la proprietà come diritto “naturale” è
fondata su quella che Locke considera l’ingiunzione divina a rendere la
terra produttiva e redditizia, appunto migliorarla. L’interpretazione convenzionale della teoria Lockiana della proprietà suggerisce che sia il lavoro
a stabilire il diritto di proprietà, ma un’accurata lettura del
capitolo di Locke sul’argomento chiarisce come ciò che è veramente in
questione non è il lavoro, ma l’utilizzo produttivo e redditizio della
proprietà, il suo miglioramento. Un proprietario intraprendente, dedito
alle migliorie stabilisce il proprio diritto alla proprietà non grazie
al suo lavoro diretto, bensì allo sfruttamento produttivo della sua
terra e del lavoro di altri su di essa. La terra non sottoposta a
migliorie, non resa produttiva e redditizia (come le terre degli
indigeni delle americhe), è considerata uno “spreco”, da cui il diritto,
e anzi il dovere, di migliorarla e di appropriarsene.
La stessa etica del miglioramento
potrebbe essere utilizzata per giustificare certi tipi di spossessamento non solo nelle colonie ma anche in Inghilterra. Questo ci
porta alla più nota ridefinizione dei diritti di proprietà: le enclosures. Spesso
considerate una semplice privatizzazione e recinzione di terre prima
comuni o dei “campi aperti” caratteristici di alcune zone della campagna
inglese; enclosure significa, più precisamente, l’estinzione (con o
senza la recinzione fisica dei terreni) dei diritti d’uso, comuni e
consuetudinari, dai quali numerose persone dipendevano per la loro
sopravvivenza.
La prima ondata di enclosures avvenne nel
XVI secolo, quando i grandi proprietari terrieri cercarono di espellere
i popolani da quelle terre che potevano essere proficuamente adibite al
sempre più redditizio pascolo ovino. I commentatori contemporanei
ritenevano le enclosures, più di ogni altro fattore, responsabili per la
crescente piaga dei vagabondi, uomini dispossessati e “senza padrone”, i
quali vagavano per la campagna e minacciavano l’ordine sociale. Il più
noto di questi commentatori, Tommaso Moro, sebbene coinvolto egli stesso
nelle enclosures, descrisse la pratica come “le pecore che mangiano gli
uomini”. Questi critici sociali, come molti storici in seguito,
potrebbero aver sovrastimato gli effetti delle enclosures a scapito di
altri fattori determinanti per la trasformazione delle relazioni di
proprietà inglesi. Tuttavia rimangono l’espressione più vivida
dell’inesorabile processo che stava cambiando non solo l’Inghilterra ma
il mondo intero: la nascita del capitalismo.
Le enclosures hanno continuato a lungo a
rappresentare una delle principali fonti di conflitto della nascente
Inghilterra moderna, sia che avessero come scopo l’allevamento degli
ovini o la sempre più redditizia coltura dei campi. Le rivolte contro le
enclosures hanno punteggiate i secoli XVI e XVII, oltre a costituire
uno dei principali motivi di risentimento nel corso della Guerra civile
inglese. Nelle sue prime fasi la pratica trovo una qualche resistenza da
parte dello stato monarchico, se non altro in quanto minaccia per
l’ordine pubblico. Ma nel momento in cui le classi fondiarie riuscirino a
plasmare lo stato secondo le loro esigenze – un successo consolidatosi
grosso modo nel 1688, con la cosiddetta “Glorious revolution” – ogni
interferenza statale cessò, e un nuovo tipo di Enclosures stava
emergendo nel XVIII secolo, le cosiddette enclosures parlamentari. In
quest’ultime l’estinzione di quei fastidiosi diritti di proprietà, che
interferivano col potere di accumulazione dei proprietari, avvenne con
un atto del parlamento. Niente può testimoniare altrettanto nettamente
il trionfo del capitalismo agrario.
Per tanto, in Inghilterra, una società
nella quale la ricchezza ancora derivava in larga parte dalla produzione
agricola, la riproduzione dei due principali attori economici del
settore agricolo – i produttori diretti e coloro che si appropriavano
del loro surplus – erano, almeno da XVI secolo, sempre più dipendenti da
pratiche capitalistiche: la massimizzazione del valore di scambio
tramite riduzione dei costi e l’incremento della produttività, la
specializzazione, l’accumulazione e l’innovazione.
Questo modo di provvedere ai bisogni
materiali di base della società inglese portava con sé una nuova
dinamica di crescita autosufficiente, un processo di accumulazione e
espansione del tutto differenti dai secolari modelli ciclici che hanno
dominato la vita materiale di altre società. E si è anche accompagnato
ai tipici processi capitalistici di espropriazione e creazione di una
massa di spossessati. In questo possiamo parlare di “capitalismo
agrario” riguardo agli inizi della modernità in Inghilterra.
Il capitalismo agrario era realmente capitalista?
Ora è necessario fermarsi per
sottolineare due punti di grande importanza. In primo luogo, a guidare
il processo di cui abbiamo parlato non sono stati nè dei mercanti nè
dei produttori manifatturieri. La trasformazione delle relazioni sociali
di proprietà è stata saldamente radicata nella campagna inglese, e la
trasformazione del commercio e dell’industria inglesi sono stati più una
conseguenza che una causa della transizione al capitalismo. Essi, per
esempio, prosperarono nel contesto del feudalesimo europeo, dove
approfittarono non solo dell’autonomia delle città ma anche della
frammentazione dei mercati, nonché dell’opportunità di effettuare
transazioni tra un mercato e l’altro.
In secondo luogo, fatto ancora più
rilevante, i lettori avranno notato che la locuzione “capitalismo
agrario” è stata finora utilizzata senza riferimento al lavoro
salariato, che tutti abbiamo imparato a considerare come l’essenza del
capitalismo. Tutto ciò richiede una spiegazione.
Per prima cosa va detto che molti
fittavoli ricorrevano al lavoro salariato, tanto è vero che la “triade”
identificata da Marx e altri – la triade di proprietari terrieri che
vivono della rendita fondiaria capitalista, fittavoli capitalisti che
vivono del profitto, e lavoratori che vivono del salario – è stata
considerata da molti la più prominente caratteristica delle relazioni
agrarie in Inghilterra. E cosi, effettivamente, è stato – almeno in
quelle aree del paese, in particolare quelle dell’est e del sudest, note
per la loro produttività agricola. Di fatto, le inedite pressioni
economiche, le pressioni competitive che lasciarono fuori gli
agricoltori improduttivi, furono un fattore determinante di
polarizzazione della popolazione agraria fra grandi proprietari e
lavoratori salariati privi di proprietà. E ovviamente, le pressioni
all’incremento della produttività si fecero sentire nell’intensificato
sfruttamento del lavoro salariato.
Non sarebbe irragionevole definire il
capitalismo agrario inglese nei termini di una sorta di triade. Ma
bisogna tenere a mente che le pressioni competitive, e le nuove “leggi
di movimento” che vi si accompagnavano, non dipendevano in prima istanza
dall’esistenza di un proletariato di massa bensì dall’esistenza di
produttori fittavoli dipendenti dal mercato. I lavoratori salariati, e
specialmente quelli che vivevano solamente del loro salario, dipendendo
da esso per la loro sopravvivenza e non solo stagionalmente (il tipo di
lavoro salariato stagionale e supplementare presente nelle società
contadine sin dai tempi più antichi) erano una minoranza
nell’Inghilterra del XVII secolo.
Inoltre, questo genere di pressioni
funzionavano non solo sui fittavoli che impiegavano lavoratori salariati
ma anche su contadini, i quali – insieme con le loro famiglie – erano
produttori diretti che lavoravano senza l’apporto di salariati. Si può
essere dipendenti dal mercato – per le condizioni basilare della propria
riproduzione – senza necessariamente essere del tutto spossessati.
L’essere dipendenti dal mercato richiede soltanto la perdita
dell’accesso diretto, e appunto non mediato dal mercato, ai mezzi di
produzione (the loss of direct non-market access to the means of production). Una volta ben stabilitisi gli imperativi del mercato,
persino la proprietà assoluta non pone al riparo da essi. E tale
dipendenza, tra l’altro, è una causa, non una conseguenza, della
proletarizzazione di massa.
Ciò è rilevante per diverse ragioni – e
diremo di più in seguito delle implicazioni più ampie. Al momento, il
punto importante è che le specifiche dinamiche del capitalismo erano già
in atto, nell’agricoltura inglese, prima della proletarizzazione della
forza lavoro. In realtà, tali dinamiche sono state un fattore
fondamentale nel determinare la proletarizzazione del lavoro in
Inghilterra. Il fattore cruciale è stata la dipendenza dal mercato dei
produttori, così come degli espropriatori, e i nuovi imperativi sociali
da essa creati.
Certo si potrebbe essere riluttanti a
descrivere questa formazione sociale come “capitalista”, proprio sulla
base del fatto che il capitalismo è, per definizione, fondato sullo
sfruttamento del lavoro salariato. Riluttanza corretta – finché ci si
rende conto che, comunque la si chiami, l’economia inglese della prima
modernità, guidata dalla logica del suo settore produttivo base,
l’agricoltura, stava già operando secondo principi e “leggi di
movimento” diverse da quelle prevalenti in ogni altra società sin dagli
albori della storia. Leggi di movimento che costituivano la
precondizione – inesistente in qualsiasi altro luogo – per lo sviluppo
di un capitalismo maturo il quale, in seguito, si sarebbe basato sullo
sfruttamento di massa del lavoro salariato.
Quale è stato, dunque, il risultato di
tutto ciò? In primo luogo, l’agricoltura inglese vantava una
produttività unica. Dalla fine del XVII secolo, per esempio, la
produzione di grano e cereali era aumentata così drasticamente da fare
dell’Inghilterra uno dei principali esportatori di tali merci. Questi
progressi nella produzione vennero raggiunti grazie a una forza lavoro
agricola relativamente esigua. Questo per dare un’idea di cosa significa
parlare della singolare produttività dell’agricoltura inglese.
Alcuni storici hanno tentato di sfidare
l’idea stessa di capitalismo agrario suggerendo che la “produttività”
dell’agricoltura francese nel XVIII secolo era più o meno uguale a
quella inglese. Ciò che essi intendono realmente, però, è che la produzione agricola totale
nei due paesi era più o meno la stessa. Quello che non riescono a
cogliere è che in un paese tale livello di produzione venne raggiunto da
una popolazione costituita , ancora in larga parte, di produttori
contadini, mentre nell’altro paese, la stessa produzione totale venne
ottenuta da una forza lavoro molto più contenuta, con una popolazione
rurale in declino. In altre parole, il problema non è il totale della
produzione bensì la produttività nel senso del prodotto per singola unità di lavoro.
Le evidenze demografiche da sole sono
eloquenti. Tra il 1500 e il 1700, l’Inghilterra ha sperimentato una
sostanziale crescita della popolazione – così come altre regioni
europee. Ma la crescita della popolazione inglese si distingue per un
significativo aspetto: la percentuale della popolazione urbana è più che
raddoppiata nel periodo in esame (alcuni storici fissano la cifra a
poco meno di un quarto della popolazione già nel tardo XVII secolo). Il
contrasto con la Francia è evidente: qui la popolazione rurale è rimasta
piuttosto stabile, ancora tra 85 e 90 per cento al momento della
Rivoluzione francese nel 1789 e anche oltre. Nel 1850, quando la
popolazione urbana dell’Inghilterra e del Galles era circa il 40,8 per
cento, in Francia era ancora solo il 14,4 per cento (in Germania il 10,8
per cento).
L’agricoltura in Inghilterra, già nella
prima età moderna, era sufficientemente produttiva da sostenere un
numero insolitamente elevato di persone non impegnate in essa. Un fatto
che, ovviamente, testimonia circa qualcosa di più di semplici tecniche
agricole, per quanto particolarmente efficienti. Esso è anche rivelatore
di nuovi rapporti sociali di proprietà. Mentre la Francia rimaneva un
paese di contadini proprietari, la terra in Inghilterra era concentrata
in poche mani, e la massa dei non possidenti cresceva rapidamente.
Laddove la produzione agricola in Francia seguiva pratiche contadine
tradizionali (non esisteva niente di paragonabile alla letteratura
inglese sulle migliorie, e la comunità di villaggio imponeva ancora i
propri regolamenti e restrizioni alla produzione, colpendo anche i
grandi proprietari terrieri) quella inglese rispondeva agli imperativi
della competizione e del miglioramento.
Vale la pena aggiungere un altro punto a
proposito del caratteristico quadro demografico dell’Inghilterra.
l’inconsueta crescita della popolazione non era distribuita
uniformemente tra le città inglesi. Altrove in Europa il modello tipico
era quello di una popolazione urbana sparsa per un certo numero di città
importanti – di modo che, per esempio, Lione non era sminuita da
Parigi. In Inghilterra Londra divenne sproporzionatamente grande,
passando d circa 60.000 abitanti nel 1520 a 575.000 nel 1700, divenendo
la più grande città d’Europa mentre altre città inglesi rimanevano molto
più piccole.
Questo modello significa più di quanto
non sembri a prima vista. Attesta, tra le altre cose, della
trasformazione delle relazioni sociali di proprietà nel cuore del
capitalismo agrario, il sud e il sudest, dell’espropriazione dei piccoli
produttori, dello sradicamento e della migrazione di una parte della
popolazione la cui destinazione sarebbe stata tipicamente Londra. La
crescita di quest’ultima rappresentava la crescente unificazione non
solo dello stato inglese ma anche di un mercato nazionale. Una enorme
città che era lo snodo del commercio inglese – non solo come principale
punto di transito per i traffici nazionali e internazionali m anche in
quanto enorme centro di consumo dei prodotti inglesi, non d ultimi i
prodotti agricoli. La crescita di Londra, in altre parole, sotto tutti i
punti di vista simboleggia l’emergente capitalismo inglese, il suo
mercato integrato – sempre più un unico, unificato e competitivo
mercato; la sua agricoltura produttiva; e la sua popolazione priva di
proprietà.
Le conseguenze di lungo termine di tutto
ciò dovrebbero essere abbastanza ovvie. Pur non essendo questo il
contesto per approfondire le connessioni tra il capitalismo agrario e il
successivo sviluppo dell’Inghilterra nella prima economia
“industrializzata”, alcuni punti sono evidenti. Senza un settore
agricolo produttivo in grado di sostenere una vasta forza lavoro non
agricola, il primo capitalismo industriale al mondo non sarebbe emerso.
Senza il capitalismo agrario inglese non ci sarebbe stata una massa di
spossessati costretti a vendere la propria forza lavoro per un salario.
In assenza di questa forza lavoro non agraria e priva di proprietà non
ci sarebbe stato un mercato di massa per beni d’uso quotidiano a basso
costo – come cibo e prodotti tessili – i quali hanno spinto il processo
di industrializzazione in Inghilterra. E senza la sua crescente
ricchezza, insieme a nuove motivazioni per l’espansione coloniale –
motivazioni diverse dalle vecchie forme di acquisizione territoriale –
l’imperialismo britannico sarebbe stato una cosa del tutto differente
dal motore del capitalismo industriale che è effettivamente stato.
Inoltre (questione certamente più controversa) senza il capitalismo
inglese non ci sarebbe stato nessun tipo di sistema capitalistico: è
stata la pressione competitiva proveniente dall’Inghilterra,
specialmente un Inghilterra industrializzata, che ha obbligato gli altri
paesi a promuovere il loro sviluppo economico in direzione del
capitalismo.
La lezione del capitalismo agrario
Cosa ci dice tutto questo circa la natura
del capitalismo? In primo luogo, ci ricorda che il capitalismo non è
una conseguenza “naturale” e inevitabile della natura umana, o di
antiche pratiche come “trafficare, barattare e scambiare”. Viceversa, si
tratta di un prodotto, tardo e localizzato, di condizioni storiche
molto specifiche. L’espansione del capitalismo, giunta oggi praticamente
all’universalità, non è la conseguenza della sua conformità alla natura
umana o ad alcune leggi naturali transtoriche ma il prodotto delle
proprie storicamente specifiche leggi di movimento. Leggi che richiedono
vaste trasformazioni e sconvolgimenti sociali per essere messe in moto.
Richiedono una trasformazione del metabolismo umano con la natura, nel
soddisfacimento delle necessità di base della vita umana.
In secondo luogo, il capitalismo è stato
sin dall’inizio una forza profondamente contraddittoria. Basti solo
considerare il più ovvio degli effetti del capitalismo agrario: da un
lato, le condizioni per la prosperità materiale erano presenti
nell’Inghilterra della prima modernità come mai da nessun’altra parte;
ma dall’altro lato, queste condizioni erano state ottenute a costo di
vaste espropriazioni e di un intenso sfruttamento. È appena il caso di
aggiungere che tali nuove condizioni hanno gettato le basi di nuove, e
più efficaci, forme di espansione coloniale e imperialismo, così come la
necessità stessa di tale espansione, alla ricerca di nuovi mercati e
nuove risorse.
Vi è il corollario del “miglioramento”:
da una parte, la produttività e la capacità di nutrire un’ampia
popolazione; dall’altra, la subordinazione di ogni altra considerazione
agli imperativi del profitto. Ciò significava, tra le altre cose, che
persone le quali potevano essere nutrite venivano spesso abbandonate ala
fame. Di fatto, c’era una enorme disparità tra le capacità produttive
del capitalismo e la qualità della vita che offriva. L’etica del
“miglioramento” nel suo significato originale, nel quale la produzione è
inseparabile dal profitto, è anche l’etica dello sfruttamento, della
povertà e del vagabondaggio.
L’etica del “miglioramento”, della
produttività per il profitto, è anche, naturalmente, l’etica di un uso
irresponsabile della terra oltreché della devastazione ambientale. Il
capitalismo è nato nel nucleo stesso della vita umana, nell’interazione
con la natura dalla quale la vita dipende. La trasformazione di questa
interazione da parte del capitalismo agrario rivela gli impulsi
intrinsecamente distruttivi di un sistema nel quale i fondamenti
dell’esistenza sono assoggettati al profitto. Detto altrimenti, rivela
l’essenza segreta del capitalismo.
L’espansione mondiale degli imperativi
capitalisti ha costantemente riprodotto alcuni degli effetti che avevano
già segnato il suo luogo d’origine. Il processo di espropriazione,
l’estinzione dei diritti di proprietà consuetudinari, l’imposizione
degli imperativi di mercato e la distruzione dell’ambiente sono
proseguiti. Un processo che ha esteso l propria portata dalle relazioni
tra classe sfruttatrice e sfruttata a quella tra paesi imperialisti e
paesi subordinati. Più di recente, l’estendersi degli imperativi di
mercato, ha preso la forma, per esempio, dell’imporre (con l’aiuto di
agenzie capitaliste internazionali come la Banca mondiale e il Fondo
monetario internazionale) ai contadini del terzo mondo di sostituire le
strategie di autosufficienza agricola con la specializzazione in colture
per il mercato globale.
Tuttavia, se gli effetti distruttivi del
capitalismo si sono continuamente riprodotti, i suoi effetti positivi
non sono stati altrettanto coerenti. Una volta stabilitosi in un paese, e
una volta iniziato a imporre i suoi imperativi al resto d’Europa e
infine al mondo intero, lo sviluppo del capitalismo in altri paesi non
segue mai il corso intrapreso nel suo paese d’origine. L’esistenza di
una società capitalista ha quindi trasformato tutte le altre, e la
successiva espansione degli imperativi capitalisti ha costantemente
modificato le condizioni dello sviluppo economico.
Ormai siamo arrivati al punto in cui gli
effetti distruttivi del capitalismo superano i suoi guadagni materiali.
Nessun paese del terzo mondo, ad esempio, può oggi sperare di
raggiungere anche solo lo sviluppo contraddittorio sperimentato
dall’Inghilterra. Con le pressioni della competizione,
dell’accumulazione, e dello sfruttamento imposti da altri sistemi
capitalistici più avanzati, il tentativo di ottenere la prosperità
materiale seguendo i principi capitalisti, rischia sempre più di portare
con sé solo il lato negativo della contraddizione capitalista, la
spoliazione e la distruzione senza i benefici materiali, quantomeno per
una vasta maggioranza.
Vi è anche una lezione più generale che
può essere tratta dall’esperienza del capitalismo agrario inglese. Nel
momento in cui gli imperativi del mercato iniziano a stabilire i termini
della riproduzione sociale, tutti gli agenti economici – sia gli
appropriatori che i produttori, anche se mantengono il possesso, o
addirittura la proprietà assoluta, dei mezzi di produzione – sono
soggetti alle esigenze della competizione, dell’incremento della
produttività, dell’accumulazione del capitale e dello sfruttamento
intensivo del lavoro.
Del resto, persino l’assenza della
divisione tra appropriatori e produttori non è una garanzia d’immunità
(e questo, tra l’altro, è il motivo per cui il cosiddetto “socialismo di
mercato” è una contraddizione in termini). Una volta che il mercato si è
affermato come “disciplina” economica o “regolatore”, nel momento in
cui gli agenti economici divengono dipendenti dal mercato per la loro
stessa riproduzione, anche i lavoratori in possesso dei loro mezzi di
produzione, individualmente o collettivamente, saranno obbligati a
rispondere agli imperativi del mercato – e dunque a competere e
accumulare, a lasciar fallire le aziende “non competitive” e i loro
lavoratori, nonché a sfruttare se stessi.
La storia del capitalismo agrario e di
tutto ciò che ne è derivato, dovrebbe rendere chiaro che ovunque gli
imperativi del mercato regolano l’economia, e governano la riproduzione
sociale, non ci sarà via di scampo dallo sfruttamento.
Ellen Meiksins Wood (1942-2016),
studiosa del pensiero politico e storica marxista, si è occupata di temi
che spaziano dalla democrazia ateniese alle origini del capitalismo,
sino all’imperialismo contemporaneo. Link all’articolo originale in inglese Monthly Review
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