Continuo
ad occuparmi dei punti di frizione su cui una non ancora nata Europa
politica rischia di rivelarsi una gravidanza isterica. In questo
articolo di Limes di febbraio si delinea bene il complesso intreccio di
rapporti che fanno dell' Europa orientale, zona per secoli schiacciata
ad est dalla pressione degli imperi (ottomano e russo) e la spinta
imperialista dei paesi occidentali a capitalismo più evoluto (Germania,
Francia, Italia per l'area balcanica), un possibile punto di caduta; in
particolare in Ucraina dove Nato (con i contrapposti interessi
intestini) e Russia si fronteggiano direttamente. Europa di mezzo,
paesi, società civili, portati ad avere uno sguardo di levantino, mal
celato disprezzo sia per gli invasori orientali che per i colonizzatori
occidentali.
Questo il retaggio storico su cui però interagisce un fenomeno nuovo, non nuovissimo, che si chiama globalizzazione capitalistica. La formazione del mercato mondiale era quasi fatta ai tempi di Lenin, tant'è che egli stesso ci ha lasciato importantissime analisi in proposito. Poi questa evoluzione fu rimandata a ulteriore stagionatura dalle due guerre mondiali e dal crack del '29 (un unico match in tre riprese). Ma questi stessi eventi -in altri termini il periodo keynesiano che va dall' avvento delle dittature e il new deal fino alla fine della guerra fredda- si vede bene a posteriori come, più che negarla, furono preparatori all' avvento di una più vasta e meglio compiuta integrazione dei vari mercati nazionali e regionali. Oggi, di ritorno, il frullatore della competizione globale scrive e riscrive tradizioni, costumi, identità e anche confini nazionali, teso com'è alla formazione di aree capitalisticamente, cioè socialmente, sempre più omogenee in concorrenza fra loro.---
Questo il retaggio storico su cui però interagisce un fenomeno nuovo, non nuovissimo, che si chiama globalizzazione capitalistica. La formazione del mercato mondiale era quasi fatta ai tempi di Lenin, tant'è che egli stesso ci ha lasciato importantissime analisi in proposito. Poi questa evoluzione fu rimandata a ulteriore stagionatura dalle due guerre mondiali e dal crack del '29 (un unico match in tre riprese). Ma questi stessi eventi -in altri termini il periodo keynesiano che va dall' avvento delle dittature e il new deal fino alla fine della guerra fredda- si vede bene a posteriori come, più che negarla, furono preparatori all' avvento di una più vasta e meglio compiuta integrazione dei vari mercati nazionali e regionali. Oggi, di ritorno, il frullatore della competizione globale scrive e riscrive tradizioni, costumi, identità e anche confini nazionali, teso com'è alla formazione di aree capitalisticamente, cioè socialmente, sempre più omogenee in concorrenza fra loro.---
Tra
Mosca e Berlino qualcosa è tornato ad accendersi. Nello spazio
racchiuso fra la Moscova e la Sprea, là dove la sbornia post-guerra
fredda e l’ingenua euforia dell’allargamento europeo erano fino a poco
fa moneta corrente, le potenze esterne all’area e gli stessi Stati che
la costellano hanno innescato competizioni, rivalità, strategie di
corteggiamento e di bilanciamento. In questo nuovo teatro di conflitto
cozzano i progetti e le proiezioni di alcune grandi potenze che vi
riverberano le tensioni reciproche maturate in altri scacchieri,
intrecciandosi con le manipolazioni degli attori locali. L’innesco di
una simile tettonica a zolle è dovuto a due eventi rivelatori di
fenomeni di lungo periodo.
Primo,
la crisi finanziaria dell’Unione Europea del 2008, miccia dell’apertura
di una serie di dossier problematici mai archiviati – di cui Grecia,
Brexit e rifugiati sono solo le ultime incarnazioni – grazie ai quali i
28 si segmentano in sottoregioni centrifughe. A est, per esempio, è
palese la sfiducia dei leader nazionali che nell’ambito dell’Ue non solo
si trovino soluzioni, ma anche si mantengano le promesse di prosperità
implicite nell’allargamento a oriente (2004-13). Secondo, la guerra
d’Ucraina ha a sua volta palesato – oltre alla non neutralità dei
progetti d’espansione europei – due necessità: quella della Russia di
tenere ancorati a sé i pochi alleati e satelliti di cui dispone (o
d’impedire i flirt altrui) e quella dei paesi a est di Berlino di
garantirsi un protettore. La combinazione tra i due fattori annacqua e
svuota di senso l’Ue, spianando la strada alla ricerca di alternative
degli attori locali e alla caccia dell’influenza delle grandi potenze.
Delimitare
lo spazio dove sono in azione questi ingranaggi è ardua impresa. I
teatri di queste dinamiche sono stati variamente rubricati come Europa
socialista, ex sovietica, centrale, orientale, centrorientale, mediana o
Mitteleuropa. Qui si propone un’altra definizione, centrata nella
competizione su e per questo spazio, dunque eminentemente geopolitica:
Europa di mezzo. Nel senso di quello spicchio di continente nato
(statualmente parlando) dalla prima guerra mondiale che si trova nel
guado fra Germania e Russia. Fra la locomotiva tedesca, traino del
progetto soprattutto geoeconomico di espandere agli ex satelliti
sovietici la famiglia (leggi: azienda) europea, e l’aquila bicefala
russa, obiettivo del contenimento made in Usa ispirato all’Intermarium
del maresciallo Piłsudski. Mentre a nord il sigillo è il Baltico, i
confini meridionali dell’Europa di mezzo sono più sfumati: scolorano
nella Penisola balcanica – dove la competizione è meno netta ma la cui
storia d’instabilità non autorizza sottovalutazioni – e si spingono
fino al Caucaso.
2. Sono Stati Uniti, Russia, Germania e Turchia le potenze che cercano di ritagliarsi sfere d’influenza nell’Europa di mezzo.
Il maggiore interesse strategico della Russia è garantirsi profondità
strategica, ossia mettere quanta più distanza possibile tra sé e i
primi avamposti militari dell’Europa occidentale. Motivo per cui da
secoli l’Europa di mezzo assiste a continue riscritture delle frontiere,
nelle ondate e risacche di chi di volta in volta siede al Cremlino. Se
non può costruire cuscinetti territoriali come al tempo degli zar,
Mosca ricorre all’uso dei satelliti. In epoca sovietica, la vittoria
nella «grande guerra patriottica» (la nostra seconda guerra mondiale) e
la concreta minaccia del ricorso alla forza garantivano il collante del
Patto di Varsavia. Oggi, la leva militare è più sfumata ma non per
questo assente: lo dimostrano il colpo di mano con cui il Cremlino s’è
preso la Crimea e il sostegno fornito ai separatismi filorussi nell’ex
Urss, dalla Transnistria ai ribelli del Donbas, dall’Abkhazia
all’Ossezia del Sud. Invece, la chiave per mantenere alleati – molto
più delle forniture di energia, insufficienti da sole a tenersi stretto
un paese, come svela il «tradimento» ucraino – è la simbiosi con
l’economia russa. È il caso di Bielorussia e Armenia, la cui
partecipazione all’Unione Economica Eurasiatica ne suggella lo stato di
semivassallaggio.
Gli
Stati Uniti intervengono contro questi disegni, che percepiscono come
il tentativo di creare una sfera egemonica russa. Per contenerla,
offrono il loro ombrello protettivo all’Europa di mezzo, facendo perno
sulla storica fobia del russo e sul fiero senso di alterità della
Polonia, delle tre repubbliche baltiche e della Romania. Cui da fine
2014 si aggiungono anche paesi tradizionalmente meno assertivi nei
confronti di Mosca come Bulgaria, Slovacchia e Repubblica Ceca, dettisi a
favore del rinnovo delle sanzioni e dello schieramento di truppe
dell’Alleanza Atlantica a est. Proprio per impedire che questi paesi
slittino decisamente verso il campo occidentale, la Russia compie
investimenti selettivi nei settori bancario, nucleare e del gas per
comprarsi influenza politica. Lo sforzo ha maggiore successo in
Ungheria, che al contrario dei suoi vicini definisce Mosca come terzo
partner per importanza. Le manovre a stelle e strisce sono soprattutto
un esercizio di diplomazia militare volto a rassicurare gli alleati:
sfoggio di retorica della Nato, rotazione di soldati, esercitazioni,
invio di materiale bellico. In breve, uso strategico dello strumento
militare. Scambiato però al Cremlino per provocazione. O, peggio, per
preparativi di guerra. È in questa erronea chiave che vengono letti per
esempio l’aumento di quattro volte (da 789 milioni a 3,4 miliardi di
dollari) del budget richiesto dal Pentagono per le iniziative europee o
la classificazione della «Russia revanscista» come unico conflitto,
assieme alle «dispute territoriali», all’interno dell’area di operazioni
dello U.S. Europe Command. Lo stesso accade con le dichiarazioni del
generale Ben Hodges, capo dell’Esercito americano in Europa, sulla
possibilità che la Russia chiuda l’accesso al Baltico o isoli Lettonia,
Lituania ed Estonia colmando la «breccia di Suwałki», i 65 chilometri
in linea d’aria che separano Kaliningrad dalla Bielorussia. Tuttavia,
chi è in grado di leggere le dinamiche degli apparati statunitensi sa
che si tratta di gesticolazioni burocratiche. La narrazione del
Pentagono per mantenere Forze armate ben finanziate ed equipaggiate è
costruita attorno alle capacità belliche di quattro nemici: Cina,
Russia, Iran e Corea del Nord. Certo, le ambiguità di Washington non
aiutano. È il caso dello scudo antimissile in Europa, ufficialmente
ombrello contro l’Iran, ma usato come riconoscimento per due attori
chiave nel contenimento antirusso: Polonia e Romania. Qui sono state
installate alcune componenti del nascente sistema di difesa dai missili
balistici – le altre sono a Rota in Spagna e a Kürecik in Turchia.
Impossibile non vederlo anche come deterrente e protezione nei confronti
di Mosca, nonostante le smentite ufficiali. Interpretazione avvalorata
dal capo degli Stati maggiori riuniti a stelle e strisce Joseph Dunford,
che dalla sua promozione ha impostato il dibattito strategico interno
sulle strutture di comando e controllo di cui dotarsi per affrontare
quelli che definisce «conflitti transregionali, multifunzionali e
multisettore», che richiedono «capacità congiunte». Uno scudo
antimissile dislocato tra Mediterraneo e Baltico non può che soddisfare
questi criteri.
La
Germania possiede soprattutto una sfera d’influenza geoeconomica. Le
élite di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria riconoscono
unanimemente a Berlino il ruolo di principale partner. Ciò è dovuto al
fatto che – assieme ad Austria e Croazia – sono di fatto tasselli della
filiera produttiva tedesca, grazie alla libera circolazione di persone,
merci e capitali permessa dall’architettura europea. La cui
sopravvivenza incarna al contempo il maggiore interesse nazionale e
un’apprezzabile fragilità della Germania. Lo dimostrano lo
sbigottimento e le inquietudini del governo di Angela Merkel per la
percepita deriva illiberale di Varsavia dopo il ritorno al potere del
partito Diritto e giustizia di Kaczyński. Ulteriore smentita all’idea
che l’interdipendenza scongiuri le tensioni reciproche. Essa è anzi la
condizione che fa pensare all’attore più potente di avere voce in
capitolo negli sviluppi interni del partner, aumentandone l’ostilità.
La
Turchia dispone della proiezione più debole. Nei Balcani, Ankara
sfrutta il neo-ottomanesimo per recuperare influenza soprattutto
cultural-religiosa in Bosnia-Erzegovina e Albania. Nel Mar Nero il
vettore è quello navale, adoperato in ambito Nato per costruire
rapporti con Bulgaria e Romania. Proprio in virtù di questo fattore e
del ruolo di custode dei Dardanelli, il paese anatolico può essere
incluso nel contenimento antirusso o corteggiato da una Polonia che
cerca di rompere il suo isolamento. Senza però farsi troppe illusioni:
la collocazione geografica all’incrocio dei progetti
energetico-commerciali eurasiatici e le velleità della sua classe
dirigente rendono la Turchia un soggetto irriducibile al mero rango di
fedele alleato.
3.
Non bisogna tuttavia commettere l’errore di ritenere l’Europa di mezzo
solo un oggetto delle altrui rivalità. Solo negli ex satelliti
dell’Urss più repubbliche baltiche abitano quasi 100 milioni di
persone; aggiungendo i 42 milioni di ucraini si sfiora la popolazione
della Russia. Peso demografico sufficiente a far emergere specifiche –
ma sempre plurali – soggettività, strategie e percezioni in grado di
orientare o quantomeno influenzare quelle degli attori esterni.
Sicuramente quelle dell’Ue, come il Partenariato orientale, per anni
appaltato ai paesi dell’Est dell’Unione.
Proprio
fra Bruxelles e i membri eurorientali dell’Ue si sta aprendo una
vistosa faglia. Le relazioni tra le istituzioni europee e alcune
cancellerie sono apertamente ostili, come dimostra l’animosità nei
confronti degli sviluppi politici interni dell’Ungheria di Orbán e
delle maldigerite riforme della giustizia e dei media della Polonia di
Beata Szydło. Contro i quali però organi come la Commissione o il
Consiglio hanno dimostrato di non potere granché, al di là di aprire
inchieste a uso stampa o di minacciare la requisizione di voti ai
singoli paesi – l’espulsione continua a essere un tabù. A loro volta,
l’assenza di concrete contromisure dall’Ue alimenta la forza centrifuga
delle singole iniziative nazionali, facendola evolvere in una rissosa e
disfunzionale famiglia dove abbondano le decisioni unilaterali e quelle
comuni languiscono – ma non si disereda nessuno.
La
non-politica sui rifugiati ne è l’esempio più lampante. Il clivage
che divide il tentativo tedesco di ottenere solidarietà sui migranti e
la strenua opposizione al programma di ricollocamento di 160 mila
richiedenti asilo (circa il 15% delle persone arrivate in Europa nel
2015) corre grossomodo lungo la vecchia cortina di ferro. Così, a est i
governi minacciano di citare in giudizio Bruxelles (lo slovacco Fico),
aborriscono l’accoglienza dei musulmani con farneticazioni
sull’integrazione (il ceco Zeman) o si rifiutano di accettare qualunque
rifugiato (la Polonia dopo il 13 novembre). Per tacere delle barriere
esistenti in Ungheria e Bulgaria e di quelle che s’ergeranno quando il
«tiro allo Schengen» spingerà i migranti a cambiare rotta, magari verso
Romania o Albania, ponte per l’Italia.
Il
«fronte del no» eurorientale emerge anche in un’altra partita, quella
energetica. Qui l’oggetto del contendere non è un programma dell’Ue, ma
un progetto discretamente egoistico del suo principale motore: il
raddoppio della portata di Nord Stream, il gasdotto che collega Russia e
Germania, tacciato dagli oppositori di inaugurare il dominio tedesco
sul mercato del gas continentale. Nonché di aggirare l’Ucraina
appositamente per eliminarne il potere di ricatto nei confronti di
Mosca. I timori dell’Europa di mezzo sono variegati. Per baltici e
polacchi, i nuovi tubi puzzano di patto Ribbentrop-Molotov. Slovacchia,
Ungheria e Polonia vedrebbero ridursi la possibilità di girare gas di
Gazprom sottobanco a Kiev con il reverse flow. Secondo quanto sostenuto
dal lobbying contro Nord Stream dell’ex premier ceco Topolanek presso la
Commissione europea, Romania, Bulgaria e Moldova perderebbero lo status
di paese di transito e i connessi introiti e l’Ucraina non riuscirebbe a
mantenere in funzione la rete di condotte di Ukrtranshaz. Risultato:
oltre all’uso selettivo e tutto geopolitico delle regole energetiche
europee, la stessa Commissione, guidata dal vicepresidente slovacco
Maroš Šefčovič, sta cercando di ampliare i suoi poteri per validare gli
accordi energetici dei singoli paesi prima che siano stipulati e ha
richiesto di esaminare tutti i contratti di Gazprom con le aziende
eurorientali.
4.
Alla base di questa inquietudine c’è una ragione storica. I regimi
dell’Europa di mezzo poggiano su fragili basi di legittimità.
D’altronde, gli Stati che governano sono frammenti d’Europa lasciati sui
campi di battaglia della grande guerra dalla dissoluzione degli imperi
centrali fra 1917 e 1918. Per di più, nelle mobili terre d’Oriente il
primo conflitto mondiale non è finito con la conferenza di Versailles,
ma s’è continuato a combattere fino al 1923. Non è la mera giovinezza
di queste nuove creature a determinare le instabilità e le paranoie
della regione. Raramente si considera che fra 1917 e 1993 questi paesi
hanno conosciuto nove cambi di confine e quattro diversi sistemi
politici, passando dalle architetture imperiali all’indipendenza e dalla
cattura sovietica all’autonomia post-guerra fredda. Per ovviare al
senso di precarietà, i regimi locali hanno sostituito al concetto di
comunità politica quello di comunità etnica. Il fattore etnocratico –
unito all’anestetizzazione della classe dirigente operata dai regimi
socialisti durante la guerra fredda – si palesa oggi con l’obbligato
ricorso alla retorica nazionalista e dell’accerchiamento quali leve di
consenso. Mentre sfoggiano legittimazioni etnocentriche con popolazioni
sotto questo profilo tutto fuorché omogenee – basti pensare alle
minoranze in Slovacchia, Romania, Bulgaria o Moldova – ai regimi locali
sfugge il doppio potenziale sovversivo che questa retorica offre al
ricatto delle potenze esterne. La Russia ha conoscenze da vendere sia
nel sostegno ai separatismi che nel sovvenzionare le destre
ultranazionaliste dell’Europa centrale. Chi fosse interessato a
incendiare i focolai di crisi e i paesi contesi di cui la regione
abbonda ha solo da prendere appunti.
Un'analisi esaustiva e puntualissima, grazie, a conferma che, nel volgere di un paio di decenni, dalla "fine della storia" siamo passati, nuovamente, alla "storia della fine". E le bandierine degli stati nazione nel bel mezzo della bufera a sventolar.
RispondiEliminagrazie a te, ciao
RispondiEliminaLeggo con ritardo questa tua ottima analisi.
RispondiEliminaL'impressione che si ricava da un solo rapido sguardo alla cartina "geopolitica "è quella di una balcanizzazione accentuata dell'area.
Peggio che nel 14.
Infine, perfetto il tuo richiamo a Lenin, e alle sue analisi sull'economia mondiale, (alla vigilia della IGM) troppo spesso trascurate.
Se qualche buontempone si fosse preso la briga di leggerle ,forse si sarebbe evitato un mare di "cazzate" e certe figuracce e stupori.
caino
la cazzologia infatti è una scienza antichissima, ciao
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