Da Angelona Merkel, alla Hannover Messe, è arrivato un Obama a fine mandato a discutere di scottanti questioni, prima e prioritaria fra tutte il TTIP che, assieme allo speculare TTP, erano i due cardini della politica estera del Presidente USA. Se il TTP pone un cordone sanitario a contenere l' espansionismo cinese nel Pacifico, il Ttip cerca di limitare commercialmente oltre ai cinesi anche il gigante russo ora in difficoltà. Ma più che l'imperialismo americano, legittimo come quello di tutti gli altri, sono i tempi di crisi nera dei profitti che sembrano farla da padrone su alcune scelte che la Germania dovrà fare in tempi stretti. In Ucraina come altrove la situazione può evolversi molto velocemente.
Le questioni sono tutt' altro che chiare: secondo un
sondaggio della Bertelsmann Stiftung, il sostegno dei tedeschi a favore
del Ttip -il trattato transatlantico di libero scambio- e del libero
scambio in generale è crollato in due anni rispettivamente dal 55% al
34% e dall’88% al 56%. Questo la dice lunga sulla posizione scomoda di una Angela Merkel che si deve barcamenare tra una sempre meno scontata fedeltà atlantica, al netto di intercettazioni e big data, e una nuova collocazione europea e mondiale della sua Germania. E poi c'è la concessione dello status di economia di mercato alla Cina, su cui l'indecisione è tanta.
Insomma un guaio dietro l'altro e, considerando anche le questioni più strettamente europee -debito dei paesi latini, brexit (una bufale propagandistica più che altro), polemiche con la BCE ecc- forse il progetto originario di kerneurope di Schäuble (un gruppo core di paesi allineati agli standard economico sociali tedeschi, l’Europa del nocciolo duro, a cui far seguire, in quale modo non lo sanno, un serpentone di economie progressivamente meno virtuose) potrebbe essere l' unica via praticabile, dopo le elezioni politiche dell'anno prossimo. Eppure una soluzione come questa non raggiungerebbe assolutamente la massa critica di capitali necessaria per l' attuale livello della competizione mondiale. A Berlino lo sanno ma pare non vogliano assumersi l'onere delle tensioni che la loro stessa proiezione economica internazionale suscita, aspirerebbero a rimanerne al riparo senza esporsi troppo.
Questo recente articolo di Fabrizio Maronta riassume bene i termini economici e politici dei due trattati transoceanici, ponendo l'accento sul calo impressionante degli investimenti diretti esteri (anche se recentemente c'è stata una piccola accelerazione) e del totale degli scambi commerciali. L' autore sintetizza la situazione nella frase: "L’uso del commercio in chiave geopolitica abbisogna di un presupposto fondamentale: che vi sia di che spendere". In realtà il presupposto è che vi sia da guadagnare.
1. Correva l'anno 2001, 11 dicembre. Esattamente tre mesi prima gli attentati di New York e Washington avevano innescato una catena di reazioni destinate ad alterare profondamente gli equilibri globali. Ma al Centro William Rappard di Ginevra, sede dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto nell’acronimo inglese), andava in scena un evento non meno gravido di conseguenze. Quel giorno la Cina diveniva ufficialmente il 143° Stato membro della Wto e un negoziatore europeo, evidentemente conscio dell’enormità del fatto, si chiedeva se fosse «la Cina a entrare nella Wto o la Wto ad aderire alla Cina».
Quell’interrogativo riecheggia forte oggi, alla vigilia di un ulteriore passo che se dovesse concretizzarsi altererebbe irrimediabilmente la fisionomia del commercio europeo e, in prospettiva, globale. Il 2 febbraio i ministri europei competenti in materia di commercio si sono riuniti per discutere l’eventuale concessione alla Cina, entro la fine del 2016, dello status di «economia di mercato». La notizia dice poco ai più, ma la prospettiva equivale a un terremoto economico-commerciale e su di essa si combatterà nei prossimi mesi una dura battaglia diplomatica. Facciamo un passo indietro.
Il protocollo d’accesso della Cina alla Wto consente agli altri membri dell’organizzazione di «ignorare i prezzi e i costi cinesi nelle procedure antidumping, usando piuttosto come termine di paragone prezzi e costi esterni». Tradotto: nelle numerose procedure per concorrenza sleale (dumping) intentate da paesi della Wto che con la Cina commerciano, la prova che Pechino sovvenzioni indebitamente le sue merci d’esportazione è relativamente facile da produrre. Basta prendere a riferimento i costi di produzione e i prezzi finali di analoghi prodotti fatti in altri paesi con economie simili (cosiddetto principio del «paese analogo»). Tali valori, di norma più alti, stanno a dimostrare che la Cina vende sottocosto: una procedura vietata dalla Wto e pertanto sanzionabile.
Pechino sostiene, in questo contestata da più parti, che il protocollo d’accesso imponga agli altri membri della Wto di accordarle lo status di economia di mercato entro l’11 dicembre 2016, ovvero a 15 anni dall’ingresso nell’organizzazione. Se ciò avvenisse, la musica cambierebbe. Un’economia di mercato gode infatti della presunzione d’innocenza: chi commercia con essa deve cioè presumere che la sua struttura di costi e prezzi sia determinata dalle forze di mercato. Ne deriva che in caso di sospetto dumping, il paragone non è fatto con paesi terzi, ma con il costo del bene in questione nel mercato interno del paese produttore (in questo caso la Cina). Il risultato sarebbe un abbattimento sostanziale – in molti casi un azzeramento – dei dazi imposti sui prodotti indebitamente sovvenzionati dal governo cinese.
Per avere un’idea concreta della posta in gioco, valgano alcuni dati tratti da un recente rapporto dell’Economic Policy Institute (Epi), centro studi di Washington a orientamento progressista che suona l’allarme sul definitivo sdoganamento dell’economia cinese. Dopo aver premesso che, pur senza lo status di market economy, la Cina ha visto quintuplicare in tre lustri le sue esportazioni verso l’Ue (dai 74,6 miliardi di euro del 2000 ai 359,6 del 2015), a fronte di un import nettamente più contenuto dall’Europa (il cui deficit commerciale verso Pechino è dunque esploso a 182,8 miliardi, contro i 49 scarsi del 2000), lo studio avanza le seguenti stime «per difetto». L’import di merci dalla Cina salirebbe di un valore compreso tra 71 e 142 miliardi di euro, riducendo il pil comunitario tra l’1 e il 2% (114-228 miliardi) e mettendo a rischio tra 1,7 e 3,5 milioni posti di lavoro (0,9-1,8% del totale), tra impieghi direttamente minacciati e indotto.
Ad essere colpiti, almeno inizialmente, non sarebbero però tutti i settori e i paesi allo stesso modo. Nell’immediato gli ambiti più a rischio sono, è ovvio, quelli maggiormente esposti alla concorrenza cinese: tessile e abbigliamento innanzi tutto, ma anche acciaio, ceramica, pannelli solari, ottica, mobili, manufatti metallici (soprattutto biciclette), elettronica di consumo. Questo elenco disegna la mappa dei paesi europei in prima linea. Non è un caso se, come riporta una nota informativa della direzione generale Commercio della Commissione, il 79% dei 234 mila impieghi europei (indotto escluso) attualmente tutelati dalle misure antidumping dell’Ue verso la Cina sono ubicati in Italia, Spagna, Francia, Portogallo, Polonia e Germania.
Non stupisce dunque che l’Ue arrivi divisa all’appuntamento. Schierati a favore di Pechino (anche se con una punta di dubbio in più rispetto a qualche mese fa) figurano Regno Unito, paesi nordici e Olanda, secondo cui gli allarmismi sono ingiustificati; anche perché l’apertura spianerebbe la strada agli investimenti delle industrie europee in Cina e a quelli cinesi in infrastrutture europee, compensando eventuali impatti su industria e mercato del lavoro comunitari. Capofila del no sono invece Italia e Francia, insieme a Spagna e Polonia.
Il protocollo d’accesso della Cina alla Wto consente agli altri membri dell’organizzazione di «ignorare i prezzi e i costi cinesi nelle procedure antidumping, usando piuttosto come termine di paragone prezzi e costi esterni». Tradotto: nelle numerose procedure per concorrenza sleale (dumping) intentate da paesi della Wto che con la Cina commerciano, la prova che Pechino sovvenzioni indebitamente le sue merci d’esportazione è relativamente facile da produrre. Basta prendere a riferimento i costi di produzione e i prezzi finali di analoghi prodotti fatti in altri paesi con economie simili (cosiddetto principio del «paese analogo»). Tali valori, di norma più alti, stanno a dimostrare che la Cina vende sottocosto: una procedura vietata dalla Wto e pertanto sanzionabile.
Pechino sostiene, in questo contestata da più parti, che il protocollo d’accesso imponga agli altri membri della Wto di accordarle lo status di economia di mercato entro l’11 dicembre 2016, ovvero a 15 anni dall’ingresso nell’organizzazione. Se ciò avvenisse, la musica cambierebbe. Un’economia di mercato gode infatti della presunzione d’innocenza: chi commercia con essa deve cioè presumere che la sua struttura di costi e prezzi sia determinata dalle forze di mercato. Ne deriva che in caso di sospetto dumping, il paragone non è fatto con paesi terzi, ma con il costo del bene in questione nel mercato interno del paese produttore (in questo caso la Cina). Il risultato sarebbe un abbattimento sostanziale – in molti casi un azzeramento – dei dazi imposti sui prodotti indebitamente sovvenzionati dal governo cinese.
Per avere un’idea concreta della posta in gioco, valgano alcuni dati tratti da un recente rapporto dell’Economic Policy Institute (Epi), centro studi di Washington a orientamento progressista che suona l’allarme sul definitivo sdoganamento dell’economia cinese. Dopo aver premesso che, pur senza lo status di market economy, la Cina ha visto quintuplicare in tre lustri le sue esportazioni verso l’Ue (dai 74,6 miliardi di euro del 2000 ai 359,6 del 2015), a fronte di un import nettamente più contenuto dall’Europa (il cui deficit commerciale verso Pechino è dunque esploso a 182,8 miliardi, contro i 49 scarsi del 2000), lo studio avanza le seguenti stime «per difetto». L’import di merci dalla Cina salirebbe di un valore compreso tra 71 e 142 miliardi di euro, riducendo il pil comunitario tra l’1 e il 2% (114-228 miliardi) e mettendo a rischio tra 1,7 e 3,5 milioni posti di lavoro (0,9-1,8% del totale), tra impieghi direttamente minacciati e indotto.
Ad essere colpiti, almeno inizialmente, non sarebbero però tutti i settori e i paesi allo stesso modo. Nell’immediato gli ambiti più a rischio sono, è ovvio, quelli maggiormente esposti alla concorrenza cinese: tessile e abbigliamento innanzi tutto, ma anche acciaio, ceramica, pannelli solari, ottica, mobili, manufatti metallici (soprattutto biciclette), elettronica di consumo. Questo elenco disegna la mappa dei paesi europei in prima linea. Non è un caso se, come riporta una nota informativa della direzione generale Commercio della Commissione, il 79% dei 234 mila impieghi europei (indotto escluso) attualmente tutelati dalle misure antidumping dell’Ue verso la Cina sono ubicati in Italia, Spagna, Francia, Portogallo, Polonia e Germania.
Non stupisce dunque che l’Ue arrivi divisa all’appuntamento. Schierati a favore di Pechino (anche se con una punta di dubbio in più rispetto a qualche mese fa) figurano Regno Unito, paesi nordici e Olanda, secondo cui gli allarmismi sono ingiustificati; anche perché l’apertura spianerebbe la strada agli investimenti delle industrie europee in Cina e a quelli cinesi in infrastrutture europee, compensando eventuali impatti su industria e mercato del lavoro comunitari. Capofila del no sono invece Italia e Francia, insieme a Spagna e Polonia.
La proposta sulla concessione del nuovo status alla Cina, che la Commissione si è impegnata a presentare entro la primavera, dovrà essere votata all’unanimità. Pertanto, ogni capitale europea ha potere di veto. Eppure, rilevante – se non determinate – sarà la posizione della Germania. Per ora Merkel, in piena fase elettorale e in difficoltà sull’accoglienza ai migranti, ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte. A ottobre, durante l’ultima visita di Stato in Cina, la Kanzlerin si è detta «teoricamente propensa» a concedere la patente di mercato maturo al paese, salvo poi ammettere che tale status è «una lama a doppio taglio» e che Pechino «ha ancora molta strada da fare, specie nel campo degli appalti pubblici». La posizione salomonica, mirante a rabbonire tanto l’omologo cinese Li Keqiang quanto gli industriali tedeschi, illustra bene il dilemma che attanaglia Berlino. Dilemma a sua volta figlio del mercantilismo esibito dalla stessa Germania, il cui enorme attivo commerciale (oltre 250 miliardi di dollari, pari al 7% del pil) è oggi per il 70% verso economie esterne all’Eurozona e all’Europa stessa. Insomma: dal punto di vista commerciale la Cina è al contempo una sfida e una risorsa per una grande economia esportatrice e a Berlino sono ancora indecisi se a prevalere sarà la prima o la seconda.
2. Non è una coincidenza se uno degli allarmi più ascoltati e ripresi sul pericolo per l’Europa di una concorrenza cinese sregolata provenga da Washington. In particolare da un centro studi, l’Epi, afferente alla sinistra democratica e al mondo sindacale statunitense, zoccolo duro dell’elettorato di Obama. Ammonimenti dello stesso tenore sono venuti direttamente da esponenti dell’amministrazione, secondo i quali la concessione a Pechino dello status di economia di mercato equivarrebbe a un «disarmo unilaterale» delle difese commerciali europee, svendute in cambio dei miliardari investimenti cinesi cui Bruxelles demanderebbe paradossalmente quello stimolo keynesiano a lungo invocato da Washington e negato dall’austerità tedesca.
La sollecitudine statunitense trova ragione nello stretto collegamento che intercorre tra la battaglia politico-commerciale che gli europei si apprestano a combattere tra di loro e con la Cina, e il grande disegno geoeconomico con cui l’attuale amministrazione ha deciso di (provare a) imbrigliare l’ambizione cinese e il revanscismo russo. Quel disegno affonda le sue radici nella strategia di sicurezza nazionale – «la crescente forza economica dell’America è il fondamento della nostra sicurezza nazionale e una fonte cruciale della nostra influenza all’estero» – e trova compimento in primo luogo in due ambiziosi trattati commerciali: Tpp (Trans-Pacific Partnership) e Ttip (Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership). Il primo siglato il 5 ottobre scorso con altre 11 economie del Pacifico – Cina esclusa! – e in attesa di ratifica; il secondo attualmente in fase di negoziazione con l’Unione Europea e, come il primo, illeggibile alla luce della sola logica economico-commerciale.
La Ttip prende le mosse da due constatazioni. Primo: il legame tra le due sponde dell’Atlantico forgiato durante la guerra fredda e incarnato in primo luogo dalla Nato si va progressivamente sfilacciando. Secondo: sebbene l’Europa non sia più al centro dell’orizzonte strategico americano, Washington non può prescinderne. Non strategicamente: l’Ue affaccia su Russia (e spazio ex sovietico), Nordafrica e Medio Oriente, aree che ad occhi americani concentrano più problemi che opportunità, ma che proprio per questo non possono essere neglette. Non economicamente: malgrado le turbolenze dell’economia mondiale, Stati Uniti ed Europa restano l’una per l’altra i principali mercati di riferimento. L’interscambio euro-statunitense vale circa 650 miliardi di dollari e dà lavoro a oltre 15 milioni di persone. Nel 2015 gli Stati Uniti hanno esportato per oltre 2 mila miliardi di dollari e circa un quarto di questi era verso l’Ue. Ben 45 Stati federati su 50 esportano più nell’Ue che in Cina. Insieme, Unione Europea e Stati Uniti generano oltre il 50% del pil, metà del commercio e tre quarti delle capitalizzazioni di Borsa mondiali.
La Ttip non è un’idea nuova: se ne discute da almeno vent’anni. In questo lasso di tempo, a bloccare ogni seria iniziativa è stato soprattutto il timore che un grande accordo regionale come questo uccidesse le intese generali siglate in senso alla Wto. Il problema si è autorisolto: lo scorso dicembre, a Ginevra è stato ufficialmente celebrato il funerale del Doha Round, il negoziato per la liberalizzazione del commercio mondiale lanciato nel 2001 con grande fanfara ma poca convinzione. Di fatto in stallo dal 2008, l’ambiziosa iniziativa è caduta vittima dei protezionismi nazionali (specie in ambito agricolo) e della spettacolare ascesa cinese, che ha cambiato le carte in tavola trasformando Pechino in un peso massimo dell’economia globale.
Se la Tpp è un cordone sanitario steso intorno alla Cina, la Ttip è stata ribattezzata – forse con eccesso di enfasi e di semplificazione – «Nato economica», il suo scopo strategico essendo quello di ribadire tanto alla Cina quanto (soprattutto) alla Russia che l’America conserva un forte ascendente su un’area per essa strategicamente periferica, ma ancora economicamente e diplomaticamente importante. Specie ora che, grazie allo shale, è caduto il bando all’export di gas e petrolio made in Usa: la legge americana proibisce infatti di vendere idrocarburi (fatte salve onerose licenze) ad aree e paesi con cui gli Stati Uniti non abbiano un accordo di libero scambio. Dunque, la Ttip sarebbe per Washington anche uno strumento per attenuare la dipendenza europea dal gas russo, di cui il progettato raddoppio di Nord Stream è un segnale preoccupante.
Non mancano le critiche a tale impostazione strategica, come quella secondo cui il «contenimento» economico-finanziario della Russia passa per altri elementi: la denominazione del debito russo in dollari (e in misura minore in euro), il crollo del prezzo del greggio i cui proventi finanziano il servizio di detto debito, la svalutazione del rublo sul dollaro, le sanzioni imposte dopo l’annessione della Crimea e la fuga dei capitali dalla Russia come risultante di tutti questi fattori. O quella che vede la Tpp destinata al fallimento, perché un accordo commerciale asiatico senza la Cina è un nonsenso e Pechino ha le risorse finanziarie e diplomatiche per reagire, come dimostrerebbe la rapidità con cui gli europei hanno aderito alla Asian Infrastructure and Investment Bank (Aiib).
Resta il fatto che se e quando i due trattati dovessero arrivare a ratifica ed entrare in vigore, gli Stati Uniti si troverebbero al centro di una rete di alleanze economiche estesa su due terzi dell’economia mondiale. E che di tale rete l’America sarebbe il punto di congiunzione, la qual cosa le conferirebbe un oggettivo vantaggio strategico. Senza contare che, nel vasto e acceso dibattito sull’impatto economico del Ttip, alcune stime accreditate danno per gli Stati Uniti un incremento strutturale del pil di 95 miliardi (0,4%).
3. L’uso del commercio in chiave geopolitica abbisogna di un presupposto fondamentale: che vi sia di che spendere. Perché il potenziale moltiplicativo – in termini di volumi e valori scambiati – delle misure di liberalizzazione degli scambi rischia di essere vanificato da un’economia mondiale fragile, in cui l’aumento della concorrenza indotto dalla riduzione del protezionismo genera pressioni insostenibili su apparati produttivi nazionali alle prese con domande interne ed estere insufficienti. La classica idea liberista alla base della trade diplomacy è infatti che l’aumento dei legami commerciali rafforza l’interdipendenza e, dunque, la comunanza di interessi strategici dei paesi. Ma se le industrie nazionali si contendono mercati di sbocco asfittici e incapaci di assorbirne la produzione, il risultato in prospettiva può essere opposto: una guerra tra poveri.
Negli ultimi mesi l’attenzione si è concentrata, giustamente, sui prezzi del petrolio in picchiata. Meno notizia ha fatto la china altrettanto ripida imboccata dal Baltic Dry Index, che misura il costo di trasporto via mare di materie prime quali carbone, metalli e fertilizzanti. A metà gennaio, quest’indice ha toccato quota 400 per la prima volta da quando è stato creato, nel 1985. L’estate scorsa era ben sopra 1.000 e nel 2010 misurava quattro volte tanto. In altri termini: spedire cemento o petrolio via mare costa oggi un decimo rispetto a poco più di cinque anni fa. Se questa caduta spettacolare fosse solo o principalmente frutto del progresso tecnologico (navi porta container più grandi ed efficienti, incremento della capacità portuale) che aumenta le economie di scala, se ne potrebbe gioire.
Purtroppo, è invece il risultato di un’enorme sovraccapacità di carico rispetto alle esigenze di un commercio internazionale dai volumi nettamente inferiori al previsto. Negli ultimi dieci anni le compagnie di trasporto, dall’Europa all’Asia, hanno investito pesantemente nell’espansione delle flotte: sia perché il credito era facile ed economico sia perché era convinzione diffusa che gli scambi avrebbero continuato a crescere in modo sostenuto. Quanto sostenuto? Nel periodo 1998-2008, il commercio internazionale è cresciuto in media del 7% l’anno. Ma dal 2008 l’incremento medio è stato inferiore al 3% annuo, ovvero in linea con l’aumento del pil globale. E continua a diminuire. Il risultato è che oggi si può spedire un container con una capesize – le navi più grandi, che eccedono le capacità dei canali di Suez e Panamá – per circa 5 mila dollari, a fronte di costi di esercizio per gli armatori di 8 mila dollari a container.
Il problema della sovraccapacità è oggi la cifra di larghi comparti dell’industria mondiale. Il paese che meglio lo esemplifica è proprio la Cina. Il caso limite è quello dell’acciaio. Nel 2015 Pechino ne ha prodotto 800 milioni di tonnellate: il quadruplo di quanto qualsiasi altro grande produttore abbia mai sfornato. Stante la flessione della domanda mondiale, metà dell’acciaio cinese giace invenduto: 400 milioni di tonnellate, più della produzione dell’intera Europa. Situazioni simili si registrano in una molteplicità di comparti: dal vetro al cemento, passando per la gomma, i pannelli solari e la vitamina C, di cui la sola Cina produce una quantità pari al 90% del fabbisogno globale.
È in questo contesto che cadono gli ultimi numeri della Wto, la quale ha tagliato le stime di crescita del commercio internazionale. Nel comunicato stampa dello scorso settembre, l’organizzazione individua nei mercati emergenti il punto dolente dell’economia globale: la somma del rallentamento cinese e del dazio che il petrolio debole sta imponendo ai paesi esportatori sta deprimendo la domanda mondiale, contraendo i mercati di sbocco su cui le economie sviluppate puntavano per uscire definitivamente dalla grande recessione. A ciò si aggiungano gli effetti del tapering (rientro dallo stimolo monetario) della Federal Reserve, che continua a drenare capitali da quegli stessi paesi in via di sviluppo su cui nell’ultimo quindicennio si era riversato l’eccesso di investimenti statunitensi. Sicché i promettenti mercati asiatici, africani e latinoamericani sono ora investiti da un doppio shock – petrolifero e finanziario – che ne riduce la capacità d’assorbimento, a fronte di una domanda americana e (soprattutto) europea non propriamente esuberante.
Alle previsioni della Wto si è aggiunta di recente la voce del Fondo monetario internazionale: il suo direttore Christine Lagarde ha ammonito che i sistemi internazionali di risposta agli shock economici devono essere rafforzati in previsione delle crisi all’orizzonte nelle economie emergenti. Lagarde ha citato in particolare Nigeria e Azerbaigian (due Stati petroliferi par excellence), che finora non hanno chiesto l’aiuto del Fondo ma che secondo molti sono sul punto di farlo (o comunque dovrebbero). Ma Abuja e Baku sono in ottima compagnia: anche Ecuador e Venezuela potrebbero presto ricorrere alla dolorosa assistenza dell’Fmi, mentre le petromonarchie del Golfo vedono assottigliarsi le loro pur doviziose riserve e la Russia sta valutando la privatizzazione di Aeroflot (la gloriosa compagnia di bandiera) e Rosneft’ (petrolio).
L’amara verità è dunque che al momento manca un ingrediente essenziale alla crescita dell’economia mondiale: la domanda. Infatti, non c’è oggi economia sulla faccia della Terra la cui crescita, più o meno modesta, sia frutto di un aumento del reddito disponibile. Il boom cinese, che pure ha strappato milioni di persone alla povertà, è stato in gran parte alimentato da politiche dirigistiche miranti a incoraggiare un eccesso d’investimento e a mantenere bassi i salari, per incrementare l’occupazione e rendere competitivo l’export. Le poche grandi economie che continuano a sostenere deficit commerciali, come l’America o il Regno Unito, semplicemente non possono assorbire tutto quello che gli esportatori netti – o aspiranti tali – hanno da vendere.
Questa situazione rende estremamente difficile un uso virtuoso delle politiche commerciali in chiave geostrategica. Il rischio di innescare ritorsioni commerciali e monetarie è alto e in uno scenario di instabilità globale diffusa, il gioco si fa assai pericoloso.
ottimo articolo, forse ne uso qualche fetta citando il tuo blog. ma la fonte?
RispondiEliminaah, scusa, vedo che è limes
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