Articolo di Dario Fabbri da Limes, il commento che ho trovato più azzeccato sulle modifiche che la recente elezione di Trump potrebbe portare al quadro statunitense e mondiale. Quello che ovviamente è certo è che nulla cambierà per quanto riguarda il drenaggio di plusvalore che gli Stati Uniti operano ai danni dei paesi emergenti, e non solo, tramite il signoraggio valutario e i rami d' industria ad altissima composizione organica di capitale. In questo consiste oggi l' Impero Americano, fondato sulla esigenza e capacità di quei capitali di stare a galla in tutti i chiari di luna dei vari cicli economici più che sulla opzione militare, la quale spesso ha smaccatamente spianato la strada alla penetrazione commerciale ma che non ne è la ragion d' essere. In generale mi pare di capire, ora che le carte iniziano a vedersi, che la maggior parte degli ambienti politici e finanziari internazionali preferissero la Clinton semplicemente perchè sapevano già cosa aspettarsi in politica estera e la sua elezione non avrebbe interferito con le mosse di politica monetaria già annunciate della Federal Reserve. Ora non è più questo il caso: Trump pare mettere l'accento sugli "stimoli fiscali" per grandi aziende -e grandi azionisti- combinati con un certo uso del dumping doganale a protezione delle merci US -da giocarsi anche in chiave geopolitica. Il tutto probabilmente producendo debito federale e inflazione, la quale può essere anche un modo di attaccare il monte salari e il welfare. Un analista finanziario così descrive la situazione: " Ironicamente, la reazione del mercato sembra anche sottolineare come
difficilmente le cause che lo hanno portato al potere, la
disegualglianza, la crisi della middle class, la rabbia contro
l’establishment, vedranno i benefici sperati da un presidente che
vuole aumentare la spesa fiscale e tagliare la corporate tax."
Le elezioni che hanno sospinto Donald Trump alla Casa Bianca hanno dimostrato la preminenza negli Stati Uniti della questione di classe. Tema che si reputava sommerso, tant’è vero che i sondaggisti si sono fatti depistare dall’applicazione delle griglie demografiche (sesso, età, etnia, religione e via dicendo) alle rilevazioni delle preferenze dell’elettorato.
Così le donne, nonostante il plateale sessismo del candidato repubblicano, si sono schierate in suo favore molto più di quanto ci si potesse aspettare. A dimostrazione di quanto questa tornata sia stata decisa da questioni economiche.
Persino più d’un ispanico ha votato per Trump. Non solo gli anticastristi cubani, contrari come il magnate newyorkese al disgelo con il regime dell’Avana, ma pure gli immigrati che, ormai ottenuta la cittadinanza statunitense, non volevano la naturalizzazione dei clandestini promessa da Hillary Clinton e la loro conseguente regolarizzazione nel mercato del lavoro.
Non che il fattore etnografico non abbia contato, anzi. Solo che non è stato declinato in forma identitaria, bensì economica. Per questo, l’America bianca non ha votato contro gli ispanici perché ne teme una prevaricazione culturale e valoriale, ma perché ha paura di vedersi sottrarre il posto di lavoro da parte di una manodopera a basso costo.
Trump ha cavalcato soprattutto l’insoddisfazione della classe media bianca colpita dagli effetti perversi della globalizzazione. Un processo che, attraverso le delocalizzazioni, la stagnazione dei salari e il calo dell’occupazione, ha impoverito Stati industriali manifatturieri delle Midlands e dei Grandi Laghi, su tutti il Michigan, feudo dell’automobilistica.
I democratici si sono così trovati scippati della bussola economica, che ne aveva determinato il successo fra le classi meno abbienti sino a non molto tempo fa. La sinistra si era illusa di avere dalla sua la sostanziale vittoria nella decennale stagione di battaglie sociali. Un tema però rivelatosi di retroguardia.
Le pulsioni dietro al voto pongono comunque di fronte gli Stati Uniti a una questione strategica, non essendo la globalizzazione altro che la pax americana sotto pseudonimo. Detta in altri termini, la pancia del paese si è espressa contro le fondamenta economico-imperiali della potenza americana. Uno scollamento tra postura geopolitica e benessere della propria popolazione che rievoca quanto sperimentato da Roma nel tardo impero.
La torsione della maggioranza dell’elettorato inciderà giustificando una maggiore introversione. Gli Stati Uniti, detentori del 23% della ricchezza mondiale, non diventeranno di colpo protezionisti.
Si guarderanno l’ombelico, senza però rinunciare ai capisaldi della potenza a stelle e strisce: controllo degli oceani, mantenimento di una galassia di alleanze, presenza militare negli snodi strategici, intervento solo in occasioni utili a fini strategici o di legacy del presidente.
Un approccio geopolitico che segue in buona parte il solco tracciato da Obama, il quale però mascherava l’esercizio di conservazione del primato americano con una narrazione post-imperiale. Trump al massimo muterà la postura pubblica, sostenendo il diritto degli Stati Uniti a occuparsi maggiormente dei problemi interni.
Inizialmente, il nuovo presidente, sulla scia dell’emotività che lo ha portato alla Casa Bianca, proverà genuinamente a intraprendere iniziative personali – come fece lo stesso Obama con il reset con la Russia e la “mano tesa” all’Iran.
Tuttavia, Trump sarà molto manipolabile dagli apparati. Anche se molti repubblicani faranno la fila di fronte all’Ufficio ovale per manifestare il loro pentimento, difficilmente attorno al nuovo leader crescerà una barriera protettiva di funzionari. Certo non quella di cui godeva per esempio Bush junior con i neocon, vera e propria élite intellettuale in grado di fronteggiare le culture burocratiche dell’amministrazione.
Più probabile che il Grand Old Party al Congresso supporti l’approccio antiliberista del nuovo inquilino della Casa Bianca, rendendo così arduo approvare entro l’anno la Trans-Pacific Partnership, la cui firma è ritenuta da Obama come uno dei maggiori successi del ribilanciamento degli Usa verso l’Oceano Pacifico.
Al contempo, gli apparati burocratici tingeranno di imperiale la visione puramente commerciale, quasi mercantilistica, della politica estera di Trump. Per esempio, il presidente potrà anche irrigidire la retorica (non certo nuova) che richiede agli alleati di pagare per l’ombrello di protezione offerto da Washington, ma difficilmente scioglierà la Nato.
Potrà anche dialogare con la Russia in un primo momento e congelare il conflitto ucraino, ma qualora la Germania provasse a sfruttare gli inevitabili interstizi lasciati dal rilassamento statunitense, a Washington si irrigidirebbero nuovamente. Impedire il consolidamento di un asse russo-tedesco in Europa è d’altronde una costante della geopolitica americana da un secolo a questa parte. Trump non modificherà dunque la postura degli Stati Uniti nella sostanza. Salvo crisi clamorose come l’11 settembre, che conferiscono a una figura costituzionalmente estranea al decisionismo il potere di plasmare la direzione del paese.
Le elezioni che hanno sospinto Donald Trump alla Casa Bianca hanno dimostrato la preminenza negli Stati Uniti della questione di classe. Tema che si reputava sommerso, tant’è vero che i sondaggisti si sono fatti depistare dall’applicazione delle griglie demografiche (sesso, età, etnia, religione e via dicendo) alle rilevazioni delle preferenze dell’elettorato.
Così le donne, nonostante il plateale sessismo del candidato repubblicano, si sono schierate in suo favore molto più di quanto ci si potesse aspettare. A dimostrazione di quanto questa tornata sia stata decisa da questioni economiche.
Persino più d’un ispanico ha votato per Trump. Non solo gli anticastristi cubani, contrari come il magnate newyorkese al disgelo con il regime dell’Avana, ma pure gli immigrati che, ormai ottenuta la cittadinanza statunitense, non volevano la naturalizzazione dei clandestini promessa da Hillary Clinton e la loro conseguente regolarizzazione nel mercato del lavoro.
Non che il fattore etnografico non abbia contato, anzi. Solo che non è stato declinato in forma identitaria, bensì economica. Per questo, l’America bianca non ha votato contro gli ispanici perché ne teme una prevaricazione culturale e valoriale, ma perché ha paura di vedersi sottrarre il posto di lavoro da parte di una manodopera a basso costo.
Trump ha cavalcato soprattutto l’insoddisfazione della classe media bianca colpita dagli effetti perversi della globalizzazione. Un processo che, attraverso le delocalizzazioni, la stagnazione dei salari e il calo dell’occupazione, ha impoverito Stati industriali manifatturieri delle Midlands e dei Grandi Laghi, su tutti il Michigan, feudo dell’automobilistica.
I democratici si sono così trovati scippati della bussola economica, che ne aveva determinato il successo fra le classi meno abbienti sino a non molto tempo fa. La sinistra si era illusa di avere dalla sua la sostanziale vittoria nella decennale stagione di battaglie sociali. Un tema però rivelatosi di retroguardia.
Le pulsioni dietro al voto pongono comunque di fronte gli Stati Uniti a una questione strategica, non essendo la globalizzazione altro che la pax americana sotto pseudonimo. Detta in altri termini, la pancia del paese si è espressa contro le fondamenta economico-imperiali della potenza americana. Uno scollamento tra postura geopolitica e benessere della propria popolazione che rievoca quanto sperimentato da Roma nel tardo impero.
La torsione della maggioranza dell’elettorato inciderà giustificando una maggiore introversione. Gli Stati Uniti, detentori del 23% della ricchezza mondiale, non diventeranno di colpo protezionisti.
Si guarderanno l’ombelico, senza però rinunciare ai capisaldi della potenza a stelle e strisce: controllo degli oceani, mantenimento di una galassia di alleanze, presenza militare negli snodi strategici, intervento solo in occasioni utili a fini strategici o di legacy del presidente.
Un approccio geopolitico che segue in buona parte il solco tracciato da Obama, il quale però mascherava l’esercizio di conservazione del primato americano con una narrazione post-imperiale. Trump al massimo muterà la postura pubblica, sostenendo il diritto degli Stati Uniti a occuparsi maggiormente dei problemi interni.
Inizialmente, il nuovo presidente, sulla scia dell’emotività che lo ha portato alla Casa Bianca, proverà genuinamente a intraprendere iniziative personali – come fece lo stesso Obama con il reset con la Russia e la “mano tesa” all’Iran.
Tuttavia, Trump sarà molto manipolabile dagli apparati. Anche se molti repubblicani faranno la fila di fronte all’Ufficio ovale per manifestare il loro pentimento, difficilmente attorno al nuovo leader crescerà una barriera protettiva di funzionari. Certo non quella di cui godeva per esempio Bush junior con i neocon, vera e propria élite intellettuale in grado di fronteggiare le culture burocratiche dell’amministrazione.
Più probabile che il Grand Old Party al Congresso supporti l’approccio antiliberista del nuovo inquilino della Casa Bianca, rendendo così arduo approvare entro l’anno la Trans-Pacific Partnership, la cui firma è ritenuta da Obama come uno dei maggiori successi del ribilanciamento degli Usa verso l’Oceano Pacifico.
Al contempo, gli apparati burocratici tingeranno di imperiale la visione puramente commerciale, quasi mercantilistica, della politica estera di Trump. Per esempio, il presidente potrà anche irrigidire la retorica (non certo nuova) che richiede agli alleati di pagare per l’ombrello di protezione offerto da Washington, ma difficilmente scioglierà la Nato.
Potrà anche dialogare con la Russia in un primo momento e congelare il conflitto ucraino, ma qualora la Germania provasse a sfruttare gli inevitabili interstizi lasciati dal rilassamento statunitense, a Washington si irrigidirebbero nuovamente. Impedire il consolidamento di un asse russo-tedesco in Europa è d’altronde una costante della geopolitica americana da un secolo a questa parte. Trump non modificherà dunque la postura degli Stati Uniti nella sostanza. Salvo crisi clamorose come l’11 settembre, che conferiscono a una figura costituzionalmente estranea al decisionismo il potere di plasmare la direzione del paese.
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