lunedì 28 marzo 2016

I fondi sovrani e la sindrome olandese

Cosa sono i fondi sovrani ? Se ne sente parlare a volte come gigantesche entità finanziarie che si muovono sui mercati alla ricerca di profitto e che muovono con loro le quotazioni di valute, indici e azioni. Tutto vero ma non finisce lì.  Il lungo estratto che segue (sforbiciato dal sottoscritto) ci spiega meglio la loro genesi e funzione e in particolare le loro correlazioni con le politiche monetarie e fiscali dei paesi che campano di rendita petrolifera.

Negli stati rentier, tramite l' azione dei fondi, si fa la scelta politica di affiancare alla rendita (petrolifera o mineraria) la rendita (finanziaria) e, pur diversificandole, non si sviluppano filiere per la produzione di nuove merci industriali, ovvero di plusvalore primario. Che è poi quello che costringe l' intera società a muoversi estesamente, sganciandola almeno in parte da chi invariabilmente amministra i proventi del oil export con la distribuzione di prebende. La tendenza a contrarre il male olandese* a mio modo di vedere rimane alta, così come -in tempi di alta volatilità- quella di sbagliare investimenti e di portare a casa ingenti perdite finanziarie. 

*Il “Dutch Disease” è stato quello dell’andamento dell’economia olandese a seguito della messa in produzione del grande giacimento a gas di Groningen. La sindrome è nota. La crescita improvvisa del settore energia si riflette in un declino del settore agricolo e di quello manifatturiero; il settore energia che cresce drena capitale dagli altri settori e ne aumenta i costi di produzione; le esportazioni in crescita rafforzano la moneta nazionale; il rafforzamento della moneta deprime la competitività internazionale delle produzioni interne di manufatti a vantaggio dei beni e delle merci importate; infine l' organizzatore statale si addormenta sugli allori delle abbondanti entrate fiscali e perde l' attenzione per i sempre nuovi imperativi posti dal andamento economico internazionale ---


I fondi sovrani (sovereign wealth funds, Swf), a discapito della loro crescente rilevanza, restano un oggetto relativamente misterioso. In generale, i fondi sovrani sono un gruppo eterogeneo di istituzioni finanziarie di proprietà pubblica che investono surplus fiscali o avanzi commerciali con logiche di accumulazione e diversificazione. Nello specifico, si tratta di fondi che originano principalmente dalle esportazioni delle commodities, in particolare petrolio e gas. Non a caso, buona parte dei fondi sovrani sono sorti in paesi e regioni del mondo ricche di risorse naturali quali il Golfo Persico, la Norvegia, la Russia ma anche la Malesia e il sultanato del Brunei. A fianco di questa prima categoria di fondi sovrani, vi sono quelli che non hanno origine dalla rendita delle risorse naturali, ma dalla capacità di penetrazione nei mercati esteri in una varietà di comparti differenti. Ne costituiscono esempi concreti i fondi dei grandi paesi esportatori come Cina, Singapore, Corea del Sud, e alcuni dei fondi di altri paesi emergenti.


Gli Emirati Arabi Uniti figurano con 9 dei 35 Swf totali, che salgono a 13 se si considerano anche gli altri stati del Golfo. Solo 4 dei 35 fondi sono sorti in democrazie consolidate dei paesi avanzati (Norvegia, Australia, Nuova Zelanda, Irlanda). Infine, ben 24 fondi sono stati istituiti in una data successiva al gennaio del 2000. I 21 Swf finanziati dall’esportazione di commodities detengono una quota cumulata di Aum (Assets Under Management) pari a $3.117mld, circa il 66% dei $4.729mld totali, mentre il restante 34% è da imputare ai fondi sovrani associati a generico surplus commerciale.[...] A prescindere dalla definizione utilizzata e dall’origine degli attivi, i diversi fondi sovrani sono accomunati dallo sviluppo tumultuoso, in rilevanza e valore, che li ha contraddistinti nel corso degli ultimi anni. Dal 2000 a oggi il valore dei loro assets è quasi triplicato, con un tasso medio di crescita annua pari al 15%. Una crescita straordinaria, sensibilmente più rapida di quella degli hedge funds, così come dei fondi pensione o di qualsiasi altro investitore istituzionale privato. Due sono i fenomeni economici che hanno favorito il rapido sviluppo dei Swf a partire dalla fine degli anni novanta a oggi. Il primo riguarda la grande accumulazione di riserve ufficiali estere (denominate principalmente in dollari) da parte delle singole banche centrali dei paesi emergenti, in particolare la Cina. I governi dei paesi esportatori hanno accumulato un ammontare totale di riserve pari a $8.338mld alla fine del 2014, aprendo la possibilità di destinare ingenti quantità di assets ai Swf per ottenere migliori rendimenti senza pregiudicare gli obiettivi macroeconomici di natura precauzionale. Il secondo fenomeno, ovviamente legato al precedente, riguarda il lungo trend positivo del prezzo del petrolio, passato dai $10 al barile del 1998 ai $148 di dieci anni dopo, fino all’illusoria stabilizzazione intorno ai $90-110 al barile verificatasi a partire dal 2010.

Ritroviamo dunque, all’interno del medesimo gruppo, istituzioni simili ma radicalmente diverse con riguardo agli effetti di variazioni repentine nei prezzi delle commodities, in particolare nel prezzo del petrolio. Da un lato i fondi dei paesi produttori, che vedono rapidamente ridursi il valore del proprio export e gli introiti fiscali che ne derivano, a seguito dello shock negativo sul prezzo dell’oro nero. Dall’altro i fondi dei paesi importatori, che pur vivendo in una fase congiunturale negativa, possono beneficiare dei conseguenti minori costi dell’energia e migliorare la propria posizione di bilancia commerciale. Gli effetti redistributivi fra le diverse tipologie di fondi sovrani sono complessi ed esulano dagli scopi di questo capitolo. Da qui in avanti, ci concentreremo sui fondi sovrani dei paesi produttori di materie prime energetiche e, in particolare, sulle implicazioni del nuovo corso dei prezzi che definiamo oil austerity.

I Swf rappresentano, sotto forme diverse, l’evoluzione storica dei cosiddetti “fondi di stabilizzazione”. Il fondo di stabilizzazione è uno strumento antecedente al fondo sovrano che ha come scopo quello di neutralizzare l’effetto di una riduzione delle entrate fiscali provocata dalla caduta del prezzo delle commodities o dei livelli di produzione a seguito di uno shock economico (indifferentemente esogeno e/o endogeno). Non a caso, gran parte dei fondi di stabilizzazione sono stati pensati e istituiti nei paesi il cui bilancio statale risulta fortemente dipendente dalle attività legate alle risorse naturali: petrolio, rame, diamanti e altre commodities.[...] I fondi di stabilizzazione assicurano uno “smoothing” temporale del livello di spesa pubblica rispetto al prezzo della commodity dalla quale il paese è fortemente dipendente. I fondi sovrani, invece, mirano alla preservazione nel tempo della ricchezza della nazione, oltre all’ammontare destinato alla stabilizzazione ciclica, per ottenere adeguati rendimenti finanziari grazie a un’attività di investimento a largo raggio. Di conseguenza, i fondi di stabilizzazione indirizzano i propri investimenti a livello nazionale, mentre i Swf diversificano i portafogli soprattutto all’estero.

In larga parte, il focus internazionale dei Swf è giustificato dal tentativo dei governi di reinvestire i flussi di ricavi derivanti dalle attività legate alle commodities all’estero per evitare eventuali apprezzamenti della moneta e quella che in gergo viene definita la “maledizione delle risorse” o Dutch disease.[...] Spinto dalla globalizzazione e dal super-ciclo delle commodities, a partire dagli anni 2000 il fondo sovrano ha iniziato la sua lenta ma inesorabile scalata. La caduta verticale del prezzo del petrolio verificatasi nel corso dell’ultimo anno e mezzo rappresenta la prima grande prova di tenuta nella breve storia dei fondi. La domanda che solleviamo in questo capitolo è: quali implicazioni avrà l’attuale shock sui fondi sovrani e, più in particolare, quali di essi sopravvivranno alla oil austerity?

Fig. 2 - Settore fiscale di un generico paese Opec
Un utile punto di partenza per la nostra analisi è costituito dal “Fiscal Break-even Oil Price” (Fbop). Nella sua definizione elementare,il Fbop rappresenta il livello di prezzo del petrolio che determina il pareggio di bilancio di un paese oil-exporting. Si tratta di un livello stimato e, in quanto tale, da interpretare con cautela e molti caveat. La determinazione del Fbop in termini analitici coinvolge, infatti, numerose variabili e parametri. In primo luogo, i volumi di produzione ed esportazione del petrolio sono i fattori chiave per stabilire i flussi di entrate derivanti da royalties e dazi sulle esportazioni. Come mostrato in Figura 2, a queste entrate si sommano tutti gli altri proventi fiscali da altre attività economiche rispetto alla vendita di idrocarburi e i rendimenti finanziari del fondo sovrano. In secondo luogo, il gettito ottenuto viene utilizzato per finanziare la spesa pubblica, o in caso di surplus per alimentare i già citati fondi di stabilizzazione.


Tab. 2 - Risorse finanziarie e naturali, prezzo del petrolio
e condizioni di finanza pubblica dei paesi esportatori di idrocarburi
Con tutti i suoi limiti, il Fbop rappresenta una proxy del livello di stress fiscale che un paese produttore subisce a seguito di una riduzione del prezzo del petrolio. Tanto più elevato è il suo valore rispetto al prezzo di mercato, tanto più elevato risulterà l’aggiustamento necessario per mantenere in equilibrio i conti pubblici. Nella Tabella 2 riportiamo il Fbop per una serie di paesi produttori. Con molte cautele, i numeri ci consentono di organizzare i paesi produttori per gruppi di nazioni  caratterizzate da diversi livelli di stress fiscale. Oltre o nell’intorno dei 100 dollari troviamo paesi devastati dalla guerra civile, come lo Yemen e la Libia, a fianco del Bahrain, dell’Algeria e dell’ Arabia Saudita, nazioni caratterizzate da elevata spesa pubblica causata da generosi sistemi di sussidi e di welfare. In una fascia intermedia di rischio troviamo gli Emirati Arabi Uniti, l’Iraq, l’Iran, il Kazakhstan e l’Azerbaijan. Infine, Qatar, Kuwait e Turkmenistan con un Fbop ben al di sotto dei 50 dollari risultano in condizioni di relativa sicurezza.

Nel corso dell’ultimo anno, stando ad alcune stime, la caduta del prezzo del petrolio ha determinato un netto peggioramento delle condizioni fiscali dei paesi produttori, trasformando un potenziale avanzo di bilancio in un deficit stimato di circa $147mld per il 2015 e 162 miliardi per il 2016 (valori che si attestano rispettivamente al 10 e al 7% del Pil aggregato). Una prima possibilità per riordinare i conti a seguito dello shock è rappresentata da una significativa riduzione del livello della spesa pubblica. A tale riguardo, sono molteplici i governi dei paesi ad alto Fbop che hanno optato per una siffatta strategia di ridimensionamento.

L’Arabia Saudita ha recentemente annunciato, per il 2016, una riduzione della spesa pubblica pari al 14%. Tale riduzione avverrebbe attraverso la rimodulazione dei prezzi dell’energia (storicamente sussidiati) e delle utilities, associate ad un piano di privatizzazione che potrebbe portare la Saudi Aramco, il più grande gruppo energetico del mondo, a una initial public offering (Ipo). Tentativi di stabilizzazione fiscale sono egualmente in corso in Algeria, dove, diversamente dal caso saudita, gli spazi di intervento sono drasticamente minori e più dolorosi. Il livello di indebitamento è salito, nel corso dell’ultimo anno, dal 7 al 15%, con effetti drammatici sulla popolazione e un sensibile aumento della pressione sociale. Per il 2016, il governo algerino ha stabilito il blocco totale delle assunzioni nel settore pubblico. In Libia, il crollo della produzione causato dalla guerra civile e il caos istituzionale in cui versa il paese hanno aperto una vera e propria voragine nei conti pubblici. Nonostante il blocco delle spese ministeriali e l’intervento della banca centrale per sostenere i costi del personale del settore pubblico, il buco di bilancio risulta pari a circa $26mld. Impensabile, in regime di oil austerity, tentare di aumentare l’imposizione fiscale.

 Laddove le manovre di bilancio risultassero controproducenti e/o politicamente troppo costose, i governi potrebbero scegliere la via dell’indebitamento, finanziando i propri deficit attraverso il debito pubblico. Tuttavia, anche questa opzione risulta di limitata praticabilità, dal momento che alcuni paesi hanno precluso l’accesso al mercato dei capitali ovvero vi accedono a condizioni proibitive da un punto di vista finanziario. Analizzando le valutazioni proposte da Standard and Poor’s (S&P) sul debito sovrano dei principali paesi produttori (vedi Tabella 2) si può facilmente notare come diversi tra i paesi con elevato Fbop manchino di un rating ufficiale, essendo, di fatto, impossibilitati ad emettere debito a condizioni di mercato. Algeria, Yemen e Libia appartengono a questa categoria di “emittenti vincolati”, con una condizione resa ancor più problematica dalla difficoltà di accesso ai prestiti delle istituzioni internazionali, quali la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Tale situazione però, non descrive in maniera precisa la condizione di tutti i paesi sottoposti a oil austerity. L’Arabia Saudita ad esempio, parte da un rapporto debito/Pil a una cifra, gode di ottimo rating sovrano (A+) e ha buone possibilità di finanziarsi sui mercati internazionali a costi ragionevoli. Le autorità saudite hanno prima valutato e poi realizzato l’emissione di una prima tranche di titoli a breve termine. Le banche europee hanno definito le forchette di prezzo e prefigurato un premio di circa 200 punti base rispetto a titoli americani comparabili, il che stabilisce un tasso di interesse pari al 3,34%. Secondo le proiezioni del Fmi, il debito pubblico saudita è destinato a salire e potrebbe raggiungere addirittura il 50% del Pil nel 2020, sollevando qualche dubbio sulla sua sostenibilità nel lungo termine. Al di là di queste previsioni, il finanziamento sui mercati di capitali internazionali resta, qualora possibile, un’opzione decisamente valida, da sfruttare per il regno saudita così come per altri paesi finanziariamente solidi come il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti.

In questa gerarchia di strumenti per fronteggiare la oil austerity, i paesi impossibilitati a indebitarsi sui mercati internazionali potrebbero essere costretti ad attingere alle proprie riserve ufficiali. In linea di principio, queste risorse dovrebbero essere mantenute per difendere, fin dove possibile, le parità valutarie rispetto al dollaro, e non per sopperire a eventuali deficit fiscali. I mandati di alcune banche centrali, tuttavia, prevedono la possibilità di interventi di natura straordinaria. L’autorità monetaria saudita, ad esempio, fa parte di questa ristretta cerchia. La contrazione delle riserve valutarie dei paesi produttori è ampiamente visibile dai dati riportati nei grafici sottostanti (che non ho messo,nota mia). Dal 2014 a oggi, l’ammontare delle riserve dei paesi produttori si è ridotto di circa $318mld, una contrazione del 16%. Da un punto di vista puramente macroeconomico, per far fronte alle esigenze transattive, precauzionali e speculative di un paese, le banche centrali di una nazione di medie dimensioni con una significativa esposizione al rischio di chiusura del conto capitale dovrebbero avere riserve di valuta per un valore dell’8% del Pil. Dalla Tabella 2 possiamo notare come molti dei paesi produttori possiedano una quantità di riserve in eccesso rispetto a questa soglia di salvaguardia. Ciononostante, le riserve di valuta possono rapidamente esaurirsi, soprattutto considerando l’attuale scenario economico e l’eventualità che i vari governi non riescano ad ancorare, nel medio periodo, le aspettative di ripresa.

Lo strumento appositamente disegnato per cautelarsi dalle violente oscillazioni del prezzo del petrolio è costituito dal fondo di stabilizzazione. Avendo investito in attività relativamente liquide (titoli a breve, contanti, strumenti del mercato monetario, ecc.), il fondo di stabilizzazione potrebbe (e dovrebbe) rapidamente smobilizzare una parte del portafoglio e integrare i mancati introiti, garantendo la generale stabilità macroeconomica del paese. Non è un caso, dunque, che il fondo di stabilizzazione entri in maniera diretta nel calcolo del Fbop, contribuendo alla sua riduzione qualora operante. Come mostrato in Tabella 2, molti, ma non tutti i paesi analizzati, dispongono di un fondo di stabilizzazione adeguatamente patrimonializzato ed è proprio questa particolare caratteristica che rende l’analisi di tali fondi determinante nel valutare i reali effetti dell’oil austerity sui fondi sovrani.

Alcuni esempi: La Russia dispone di un vero e proprio fondo di stabilizzazione, il Russian Reserve Fund, a cui ha già fatto abbondantemente ricorso nel 2014. Secondo alcuni analisti, la crisi dei prezzi – combinata alla crisi del rublo che ha già bruciato quasi $200mld di riserve – potrebbe portare all’esaurimento del fondo di stabilizzazione nel 2018. Se questa situazione dovesse persistere, non è possibile escludere a priori conseguenze importanti per il fondo sovrano russo, il National Wealth Fund. Tale fondo, che oggi vale circa $70mld, potrebbe essere infatti utilizzato, in tutto o in parte, per finanziare il crescente indebitamento del paese.

In una condizione simile, ma decisamente più drammatica dal punto di vista politico-istituzionale, si trova la Libia. Il fondo sovrano libico, la Lybian Investment Authority, dispone di un Budget Stabilization Fund con un controvalore di circa $11mld, assolutamente privo della capienza necessaria per stabilizzare il quadro macroeconomico di un paese che, secondo le stime della Banca di sviluppo africana, in 4 anni avrà completamente esaurito le proprie riserve ufficiali. Difficile immaginare che in un contesto così deteriorato non vengano liquidati (in alcuni casi con forti minusvalenze) i portafogli di tutti gli altri comparti del fondo sovrano.

Il caso del Qatar merita particolare attenzione. Con un patrimonio stimato di circa $250mld, la Qatar Investment Authority (Qia) è, tra i fondi di istituzione recente, quello che è cresciuto maggiormente e più rapidamente, soprattutto attraverso una strategia di investimento aggressiva sui mercati internazionali. Il Qatar, di converso, ha perso una quota rilevante di riserve valutarie negli ultimi anni ed ha annunciato un deficit di bilancio per il 2016 del 6,6% (dato preoccupante per un paese storicamente in avanzo). Il governo qatarino non dispone di un fondo di stabilizzazione e ha recentemente emanato misure di austerity a largo raggio e un programma di emissione di debito, in particolare attraverso sukuk bonds riservati agli investitori nazionali. Stando ad alcune dichiarazioni ufficiali, la Qia non dovrebbe essere coinvolta nella manovra restrittiva, per evitare di sottrarre preziose risorse finanziarie destinate alle generazioni future. In realtà, non è possibile sottovalutare gli effetti persistenti dell’oil austerity. Contemporaneamente, in caso di liquidazione, bisognerà valutare con cautela i costi di smobilizzo di un portafoglio molto concentrato, con investimenti di rilievo in titoli quali Volkswagen, Glencore e Agricultural Bank of China, che hanno recentemente sofferto di andamenti estremamente negativi.

L’Oman infine, come molti degli stati sopracitati, vive una fase storica particolarmente delicata. Di recente ha subito un downgrading di S&P (da A a BBB-) e il motivo della retrocessione riguarda proprio le aspettative sugli effetti della caduta del prezzo del petrolio. L’Oman non dispone di una vera e propria strategia di diversificazione economica dall’idrocarburo e possiede solo parzialmente strumenti che ammortizzino la volatilità dei suoi introiti. Fortunatamente, il paese è dotato di un vero e proprio fondo di stabilizzazione, lo State General Reserve Fund (con assets stimati intorno agli $11mld) che potrebbe coprire buona parte del deficit di bilancio previsto per i prossimi anni. L’Oman Investment Fund, il fondo sovrano, con un patrimonio di soli $6mld, sembrerebbe perciò relativamente fuori pericolo. Come per molti altri paesi del golfo, anche per l’Oman la via maestra per ripararsi dagli effetti dell’oil austerity è stata individuata nel ricorso all’indebitamento pubblico.


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