Senza totalità, allo scienziato rimane da indagare fatti slegati, ossia accettare lo status quo.
Un importante articolo sul tema più sostanziale di ogni epoca: quello della verità e del suo albergare o meno, e in che misura, nella realtà sociale come nella vita soggettiva, sempre che di quest' ultima ne esista una.---
Introduzione
La filosofia della scienza si è a lungo interrogata sulla diversa
natura delle singole discipline e sull’unicità o meno dei metodi della
scienza che ne poteva derivare. Fino al XIX secolo, la specializzazione
scientifica non era tale da originare controversie. Gli scienziati erano
anche filosofi e spesso studiosi della società e storici[1]
. Gli intellettuali avevano una conoscenza almeno basilare di tutte le
scienze principali e della filosofia e nessuna scienza godeva di uno
status superiore poiché ancora nessuna scienza aveva contribuito a un
incremento sensibile delle forze produttive.
Il fenomenale sviluppo della scienza degli ultimi secoli ha elevato
lo status delle scienze naturali, relegando le discipline sociali a
chiacchiericcio. Il sentire comune è che la fisica sia “la” scienza
assieme a ciò che le si avvicina per rigore nella sperimentazione e
nella teorizzazione. Il contributo della fisica allo sviluppo umano
appare ovvio e incontrovertibile, quello delle scienze sociali quanto
meno dubbio. Le riflessioni epistemologiche moderne sono tentativi di
generalizzare i metodi della fisica per consentire a tutte le branche
del sapere di arrivare allo stesso livello di sviluppo: “le scienze
dell’uomo e della società si sforzano di emulare il modello delle
scienze naturali che hanno tanto successo”[2],
così che tra le influenze dominanti per le scienze sociali vi è quella
dei “modelli forniti dalle scienze della natura” (Piaget, cit., p. 29).
Al massimo, allora, alla filosofia non rimane che il ruolo di
commentatrice e generalizzatrice, poiché “resta la tendenza fondamentale
dello sviluppo filosofico: riconoscere come necessari e come dati i
risultati ed i metodi delle scienze particolari, attribuendo alla
filosofia il compito di portare alla luce e di giustificare il
fondamento di validità di queste costruzioni concettuali”[3] .
L’epistemologia moderna, in quasi tutte le sue componenti, riflette
il trionfo delle scienze naturali. Nell’ottocento, molti scienziati
guardavano ottimisticamente alle scienze nel loro complesso,
evidenziando una loro natura unitaria in quanto parti del progresso
dell’industria e della società (Helmholtz per tutti). Nel ventesimo
secolo, la scuola epistemologica più di successo e duratura, il
neopositivismo, considera una parte fondamentale del suo programma la
battaglia per l’unificazione delle scienze, ovviamente sotto le bandiere
della fisica. Pur da prospettive diverse, gli epistemologi successivi
hanno sostanzialmente accettato questa posizione monista. Ciò vale anche
per diversi pensatori marxisti, che hanno subordinato le scienze
sociali a quelle naturali[4].
D’altro canto, le correnti che hanno proposto interazioni tra scienza e società (in particolare la sociologia della conoscenza), hanno rilevato il carattere sociale di tutte le scienze, in un quadro metodologico, di nuovo, sostanzialmente monista.
D’altro canto, le correnti che hanno proposto interazioni tra scienza e società (in particolare la sociologia della conoscenza), hanno rilevato il carattere sociale di tutte le scienze, in un quadro metodologico, di nuovo, sostanzialmente monista.
In queste concezioni ha poco senso distinguere tra scienze sociali e
naturali. Esse avranno gli stessi obiettivi, gli stessi metodi, spesso
gli stessi strumenti analitici e si distingueranno, al massimo, per un
diverso grado di sviluppo e formalizzazione. Le scienze più sviluppate
forniranno il modello per tutte le altre, che non dovranno far altro che
seguirne le orme.
In questo scritto cercheremo di dimostrare che esiste invece una
differenza strutturale, ontologica, tra le scienze che non coincide
strettamente con la distinzione tra scienze naturali e sociali e che
tale distinzione deriva dalla loro funzione sociale, da cui anche deriva
il rapporto con i criteri di verità della scienza. Ciò che distingue le
scienze, proveremo a spiegare, non è il metodo o l’oggetto di studio,
ma il rapporto con le forze produttive e i rapporti di produzione.
Scienza e sviluppo delle forze produttive
Il punto da cui partire per analizzare la natura dell’impresa
scientifica da un’ottica marxista è chiedersi se la scienza faccia parte
delle forze produttive o dei rapporti di produzione. La risposta è
complessa. Nota Horkheimer: “la teoria marxiana della società annovera
la scienza tra le forze produttive” [5].
Si tratta di un’osservazione sensata ma unilaterale. Dov’è la società
in questo quadro? È vero che a scienza rende possibile il sistema
produttivo, e “rappresenta anche un mezzo di produzione”, ma non è solo
questo. Dov’è il legame con la società? Osserva Bucharin: “qualsiasi
scienza trova la sua origine nei bisogni della società o delle classi
che la compongono”[6].
È un’osservazione corretta, ma ancora vaga. Qui c’è la società, ma non
il rapporto concreto che le diverse scienze hanno con essa. Barletta,
curatore dell’antologia di scritti sulla scienza di Marx, Engels e
Lenin, nota che per Marx la scienza non è da inscrivere unilateralmente
nelle componenti strutturali ma nemmeno nei fattori sovrastrutturali
della società; essa è invece una “sovrastruttura direttamente fondata sulla struttura delle forze
produttive, anello di congiunzione non meccanico ma articolato fra esse,
nella misura in cui come tecnologia entra nel processo produttivo
direttamente, e fa dunque parte della ‘struttura’ (uso capitalistico
della scienza: le macchine), mentre, come concezione o filosofia, è
condizionata dall’insieme dei rapporti di produzione al pari di altre
forme sovrastrutturali o ideologiche.”[7]
Tale osservazione è accettabile se si precisa che cosa fa ascrivere
la scienza alla struttura o alla sovrastruttura. Ogni scienza, ogni
teoria, tocca entrambe, ma in misura differente in base alla propria
natura.
Già nell’Ideologia tedesca Marx pone gli elementi necessari per
affrontare la duplice natura della scienza. Criticando l’idealismo dei
giovani hegeliani, che pensavano di contrapporre alle idee della classe
dominante un’interpretazione radicale di queste idee, Marx spiega che le
idee stesse derivano dallo sviluppo sociale. Le classi non scelgono le
ideologie o le teorie liberamente, ma le producono nel corso della
propria storia. La borghesia, come classe dominante, controlla le forze
produttive, domina la divisione del lavoro. Le idee dominanti tendono a
riflettere questo dominio.
In tale contesto, la scienza ha necessariamente una duplice natura.
Sotto il profilo delle conoscenze atte a produrre, e dunque delle forze
produttive, la scienza è come un macchinario, essendo inserita a pieno
titolo nel processo produttivo. Marx nota anzi: “senza industria e
commercio dove sarebbe la scienza della natura?”[8].
In questo senso la scienza è parte della produzione delle condizioni
materiali di vita dell’uomo le quali creano la società, comprese le idee
che la dominano. Sotto il profilo della teoria, la scienza è invece un
prodotto della società come ogni altra forma di concettualizzazione e
ciò ne determina la subordinazione alle esigenze della classe dominante.
In questo senso dice Marx: “la concorrenza universale…sussunse le
scienze naturali sotto il capitale” (ibidem, p. 50).
La duplice natura della scienza riflette la duplice natura della
realtà, che è insieme sempre la stessa eppure cambia, è eterna come
l’universo, ma mutevole come la società. Il merito del marxismo è stato
di riuscire a compendiare questi due aspetti. Criticando Feuerbach, Marx
osserva per l’appunto che non è riuscito a unire materialismo e storia,
con ciò costringendo a scegliere tra una scienza degradata a sapere,
inerte rispetto allo sviluppo sociale, o una scienza costretta nel ruolo
di ideologia di classe, una sorta di mero complotto teorico. Fondando
il materialismo storico, Marx riesce a superare queste visioni
unilaterali. Il metodo del marxismo non scimmiotta le scienze naturali
ma “concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come
processo di storia naturale”[9]
. L’oggetto di studio delle scienze sociali può essere visto come un
processo naturale. Significa ciò che le opinioni soggettive degli
individui non contano? Certo che no, significa che le stesse derivano
però dai processi reali.
In definitiva, la scienza direttamente innestata nella produzione è parte delle forze produttive. Osserva Marx:
“se il processo produttivo diviene sfera di applicazione della scienza,
allora al contrario la scienza diviene fattore, per così dire funzione,
del processo produttivo. Ogni scoperta diviene la base di nuove
invenzioni o di un nuovo perfezionamento del modo di produzione.”[10]
La scienza, questa scienza è un mezzo indispensabile per lo sviluppo
delle forze produttive, e i suoi connotati ideologici, pur
ineliminabili, devono però finire in secondo piano, con tutti i risvolti
pratici che ciò comporta per il dibattito scientifico e la repressione
delle eterodossie. Marx osserva anche il cambiamento indotto
nell’attività scientifica dal nuovo ruolo della scienza:
“la scienza ottiene il riconoscimento di essere un mezzo per produrre
ricchezza, un mezzo di arricchimento. In questo modo i processi
produttivi si pongono per la prima volta come problemi pratici, che
possono essere risolti solo scientificamente. L’esperienza e
l’osservazione (e le necessità dello stesso processo produttivo) hanno
raggiunto ora per la prima volta un livello tale da permettere e rendere
indispensabile l’impiego della scienza. Lo sfruttamento della scienza e
del progresso teorico dell’umanità. Il capitale non crea scienza, ma la
sfrutta appropriandosene nel processo produttivo. Con ciò stesso ha
luogo contemporaneamente la separazione della scienza, in quanto scienza
applicata alla produzione, dal lavoro immediato, mentre nelle
precedenti fasi della produzione l’esperienza e lo scambio limitato
delle conoscenze erano immediatamente legati al lavoro stesso.” (Ibidem)
La scienza occorre al capitale per valorizzarsi, per aumentare i
profitti, a cui è subordinata ogni altra finalità sociale. La relativa
obiettività delle scienze naturali dipende dal loro legame con le forze
produttive, al contrario delle scienze sociali, il cui compito
fondamentale è difendere l’esistente, gli interessi della classe
dominante, sviluppando e propagandando l’ideologia. In questo, la gran
parte delle scienze sociali è assimilabile alla religione, il più antico
sostegno di ogni classe dominante.
Partendo da questa diversa funzione, definiamo scienze delle forze produttive le scienze legate allo sviluppo delle forze produttive, scienze dei rapporti di produzione quelle connesse alla conservazione dei rapporti tra le classi all’interno della società.
Scienza e sviluppo del modo di produzione
Il capitalismo non può esistere senza rivoluzionare continuamente le forze produttive, spiegano Marx ed Engels nel Manifesto.
Ciò si estende alle conoscenze scientifiche, che fanno parte di queste
forze produttive. Ciò non significa che l’impresa scientifica sia
libera, per ovvie ragioni di difesa dello status quo. Si produce dunque
uno scontro tra esigenze di sviluppo della scienza (e delle forze
produttive) e difesa dell’ideologia dominante (ossia dei rapporti di
produzione). Il prevalere delle esigenze delle forze produttive, dato
storico ineliminabile, è però una considerazione che va qualificata.
Nella fase storicamente progressista di un modo di produzione, i
rapporti di produzione incoraggiano lo sviluppo delle forze produttive e
della scienza. Ogni nuova scoperta scientifica rinforza il dominio
della classe dominante. Nella fase discendente del modo di produzione,
lo sviluppo delle forze produttive entra in contrasto con i rapporti di
produzione. Per prevalere, le forze produttive devono aspettare una
trasformazione sociale. Nel frattempo, la scienza deve sottomettersi
allo status quo.
Prendiamo la storia della diatriba tra geocentrismo ed eliocentrismo.
Sotto il profilo storico, Copernico, Galileo e Keplero dovevano
prevalere, perché le loro teorie erano indispensabili all’ulteriore
sviluppo delle forze produttive e tale esigenza ha piegato l’ideologia
talché oggi il geocentrismo non fa più parte del nucleo ideologico della
società. La classe dominante moderna, la borghesia, non ne ha più
bisogno.
Al suo apice, il geocentrismo era una teoria scientifica complessa,
in grado di fare predizioni potenti sull’andamento degli astri del
sistema solare[11]. Opere come l’Almagesto di
Tolomeo risultano tra le più alte creazioni dell’intelletto umano. La
teoria astronomica geocentrica dunque aiutava la crescita delle forze
produttive. Con lo sviluppo della società e delle conoscenze
scientifiche, divenne però chiaro che la teoria tolemaica non era più in
grado di aiutare l’uomo a sviluppare le forze produttive, anzi era
diventata un ostacolo allo sviluppo ulteriore della società. La
necessità degli europei di viaggiare oltre il Mediterraneo poneva la
necessità di teorie in grado di consentire la navigazione
extra-continentale, così come di un nuovo calendario. Che cosa impediva
allora alla società di liberarsene? Il fatto che fosse diventata una
componente centrale dell’ideologia dominante, aveva infatti un ruolo di
giustificazione del potere della Chiesa e dunque di stabilizzazione dei
rapporti di produzione. Resistere allo spodestamento della Terra dal
centro dell’universo era parte della battaglia volta a evitare lo
spodestamento dell’aristocrazia e della Chiesa dal centro della società.
Così scoppiò un conflitto tra la scienza e la classe dominante, tra
forze produttive e ideologia. La diatriba non era più scientifica ma
ideologica e politica. Anche Alberto Magno, secoli prima di Galileo,
proponeva l’eliocentrismo, il punto era il contesto filosofico
complessivo in cui si ponevano le teorie di Galileo, che risultava
inaccettabile per la Chiesa. Accettare la sperimentazione e il metodo
scientifico voleva dire accettare che il potere non derivava dalle sacre
scritture ma dallo sviluppo delle conoscenze scientifiche. La fine del
senso stesso del dominio dell’aristocrazia e della Chiesa.
Le esigenze della borghesia, che incarnavano le necessità di sviluppo delle forze produttive, in ultima analisi dovevano prevalere. Ciò non toglie che, proprio come la battaglia tra aristocrazia e borghesia, la battaglia tra tolemaici e copernicani sia durata a lungo. Alla fine, proprio lo sviluppo delle forze produttive, ad esempio con la creazione del telescopio di Galileo, ha prodotto il materiale empirico che ha ampliato le crepe, le anomalie kuhniane, nel paradigma dominante, relegando la teoria tolemaica a parte della storia del pensiero umano. La natura di una teoria e di una scienza seguono la parabola del modo di produzione. Ciò non toglie che alcune verità scientifiche possano sfidare i secoli e i millenni, basti pensare al teorema di Pitagora, una volta separati dall’involucro ideologico che pure li può aver originati o almeno accolti.
Le esigenze della borghesia, che incarnavano le necessità di sviluppo delle forze produttive, in ultima analisi dovevano prevalere. Ciò non toglie che, proprio come la battaglia tra aristocrazia e borghesia, la battaglia tra tolemaici e copernicani sia durata a lungo. Alla fine, proprio lo sviluppo delle forze produttive, ad esempio con la creazione del telescopio di Galileo, ha prodotto il materiale empirico che ha ampliato le crepe, le anomalie kuhniane, nel paradigma dominante, relegando la teoria tolemaica a parte della storia del pensiero umano. La natura di una teoria e di una scienza seguono la parabola del modo di produzione. Ciò non toglie che alcune verità scientifiche possano sfidare i secoli e i millenni, basti pensare al teorema di Pitagora, una volta separati dall’involucro ideologico che pure li può aver originati o almeno accolti.
Il criterio di verità delle teorie scientifiche
Sintetizzando il rapporto tra scienza e società, possiamo dire che le
forze produttive si evolvono, anche grazie alla scienza, che è in grado
di approfondire sempre meglio le leggi della natura. Sono dunque le
teorie scientifiche che cambiano nel tempo, non la natura. Ciò vale
anche per le scienze sociali, pur nell’ambito di un periodo storico e
non di tutta la storia umana. Tale considerazione ci conduce al problema
centrale della filosofia nel suo rapporto con l’impresa scientifica:
come definire i criteri di verità della scienza. Se la scienza si
sviluppa, se i risultati che trova cambiano, perché lo sviluppo delle
forze produttive lo richiede e lo determina, a cosa ancorare la verità?
Prima del capitalismo, lo sviluppo delle forze produttive era
sufficientemente lento e ci si poteva accontentare dell’ipse dixit.
Nell’epoca moderna sarebbe impensabile. Occorre un criterio in grado di
tenere il passo con le esigenze di sviluppo tecnologico della società.
La filosofia, a partire da Kant, àncora le verità scientifiche a criteri
oggettivi, a un metodo. Da lì, la filosofia della scienza parte
cercando dei criteri di verità con cui analizzare le predizioni
scientifiche.
Da un punto di vista marxista, la verità di una teoria è basata
appunto sulla capacità di sviluppare le forze produttive. Questa
concezione pragmatica della verità, esposta un po’ rozzamente già nelle Tesi su Feuerbach[12]
, non ha però nulla a che vedere con lo strumentalismo filosofico,
secondo cui una teoria è appunto “solo” uno strumento, indipendentemente
da considerazioni sul suo status di verità oggettiva. Il problema è
molto più complesso, e la soluzione sottile. L’aspetto dirompente delle Tesi,
che nessuno poteva cogliere all’epoca, fossero anche state pubblicate, è
che essendo la questione della verità oggettiva del pensiero una
questione pratica, nessuna teoria può bastare a se stessa, nessun metodo
epistemologico potrà giustificare una teoria senza un riferimento a
qualcosa di esterno, al mondo. Questa conclusione è l’essenza del
celebre teorema di Goedel, che Marx anticipò nel suo risvolto
essenziale: l’impossibilità, per una teoria, di fondare al proprio
interno un criterio di verità. La logica non basta a se stessa.
Questo criterio esula da pure istanze metodologiche e riguarda invece
il complesso delle ideologie accettate di un’epoca. Il rifiuto della
Chiesa dei risultati del cannocchiale di Galilei non derivavano da una
diversa interpretazione del dato empirico, ma dal rifiuto dell’idea che
l’osservazione sperimentale fosse lo strumento principe
dell’accrescimento della conoscenza rispetto alle sacre scritture.
La distinzione tra scienze sociali e naturali non attiene però alla
diversa verità, solidità delle teorie. Una teoria sociologica non è meno
“vera” di una teoria astronomica perché concerne enti che vivono secoli
e non miliardi di anni. La natura di scienza dei rapporti di produzione
non ha nulla a che vedere con la verità delle teorie. La teoria
economica classica è vera nel senso che esprime gli interessi della
trionfante borghesia industriale. Il fatto che dopo pochi decenni questi
interessi cozzassero contro lo sviluppo delle forze produttive ha fatto
sorgere una nuova teoria, il marxismo, che rifletteva il nuovo livello
raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive e dunque dalla lotta di
classe. Tutto ciò però nulla ha a che vedere con la “verità”. Una biga
non è meno vera da quando hanno inventato le automobili e gli aeroplani,
è solo inattuale. La distinzione decisiva è posta invece dal fatto che
nelle scienze sociali soggetto e oggetto della scienza non sono
nettamente separati. Con buona pace dell’interpretazione idealista di
alcuni risultati della fisica quantistica, non è così nelle scienze
naturali che, sospinte dalle esigenze delle forze produttive, relegano
il soggetto a un ruolo accessorio.
Tale distinzione, che deriva dal legame delle diverse scienze con le
forze produttive e i rapporti di produzione, permette anche di
comprendere la connessione dialettica che esiste tra fatti e teorie.
Teorie e fatti s’influenzano come succede alle forze produttive con i
rapporti di produzione [13].
Se alle teorie competesse solo di sistemare fatti “indipendenti” che
esse trovano come funghi in un bosco, ciò equivarrebbe a sostenere che
le forze produttive crescono senza legame con i rapporti di produzione,
il che è unilaterale: le teorie hanno un aggancio con la struttura
sociale. Allo stesso tempo, la scienza non può solo rispondere
all’ideologia dominante, altrimenti non ci sarebbero progressi
scientifici, mentre ci sono scoperte e avanzamenti anche contro lo
status quo. Possiamo dunque dire che “la conoscenza acquisita grazie
alla scienza serve alla riproduzione del meccanismo sociale e viene
d’altra parte mobilitata per superarlo”[14]
. Lo sviluppo scientifico vive in questa contraddizione dialettica: la
scienza è forza di cambiamento perché sviluppa le forze produttive, ma
anche di conservazione perché difende l’ideologia, i rapporti di
produzione. La contraddizione diviene insolubile quando la società è a
un’impasse, come ora, dove tra le promesse della scienza e l’avanzamento
effettivo della società si erge il dominio della borghesia, che nessun
avanzamento scientifico potrà mai scalfire senza l’intervento attivo
delle masse. Senza una rivoluzione sociale.
La gerarchia delle scienze e l’economia politica
Il prestigio delle scienze naturali riflette la loro intima
connessione con lo sviluppo delle forze produttive, ossia con la
valorizzazione del capitale, alfa e omega della civiltà moderna. In
fondo, “la base del mondo moderno è la conoscenza scientifica”[15]
. Assicurando l’accumulazione del capitale, le scienze naturali sono la
giustificazione storica del potere della borghesia mentre la filosofia è
un astratto farneticare di intellettuali al di fuori del tempo: “solo
le scienze specialistiche avrebbero a che fare con il particolare e
differenziato; la filosofia invece solo con la nebbia del generale”
(Horkheimer, cit., p. 104.). Come vedremo, l’incondizionato prestigio
delle scienze naturali è a sua volta un’ideologia (“lasciate fare a noi
tecnici”), tuttavia aiuta gli scienziati a ripararsi dal conflitto
ideologico che scuote la società. Non così nelle scienze sociali e
soprattutto nell’economia. Marx lo spiega nella Prefazione al Capitale:
“nel campo dell’economia politica la libera ricerca scientifica
non incontra soltanto gli stessi nemici che incontra in tutti gli altri
campi. La natura peculiare del materiale che tratta chiama a battaglia
contro di essa le passioni più ardenti, più meschine e più odiose del
cuore umano, le Furie dell’interesse privato”[16]
Nelle scienze dei rapporti di produzione, gli interessi della
borghesia sono coscientemente tenuti presente, formano la ragion
d’essere delle teorie. I fisici che non sono consapevoli del peso
dell’ideologia dominante possono fare ottima scienza, salvo magari
scrivere pessimi libri di filosofia o avere idee politiche ripugnanti.
Gli economisti non possono nemmeno iniziare a fare scienza senza aver
preso posizione rispetto ai conflitti che agitano la società. Per
questo, alla fine, vi sono avanzamenti continui delle scienze naturali,
seppure in un quadro generale di stagnazione, mentre le scienze dei
rapporti di produzione sono meno utili alla società di due secoli fa.
Ciò si vede massimamente nella disciplina che più incarna il
feticismo alienante dell’ideologia: l’economia politica. Quando è nata
nelle sue forme compiute, con la teoria classica di Smith e Ricardo,
costituiva uno strumento potente di sviluppo delle forze produttive ma
anche di battaglia ideologica. Nel ventennio che va dall’ondata
rivoluzionaria del 1848 alla Comune di Parigi, la sua natura è mutata
assieme alla classe a cui fornisce sostegno ideologico. Gli economisti
sono così diventati i difensori per antonomasia del sistema, “pugilatori
a pagamento”, nella definizione di Marx.
La teoria economica, più compiutamente di ogni altra, riflette le
necessità ideologiche dei rapporti borghesi di produzione che vengono
eternati, naturalizzati, proiettati astoricamente in ogni tempo e luogo.
Nella teoria economica, il capitale non è un rapporto di produzione che
segna una fase dello sviluppo umano, è il modo di essere dell’universo.
È ed è sempre stato. La teoria nega qualunque aspetto di contraddizione
nei rapporti sociali di produzione. Mette le cose al posto degli
uomini. Rovescia il reale. Tuttavia, il fisicalismo delle scienze
sociali risponde anche a un’esigenza di “rispettabilità” scientifica:
“È stato non soltanto il bisogno apologetico di un’economia
invischiata nell’ideologia borghese, ma anche il desiderio di inserirsi
tra le scienze positive a spiegare l’aspirazione a una scienza
‘universale’ astorica dell’economia, col che, a dire il vero, la sua
natura apologetica si esprime con chiarezza ancora maggiore.”[17]
La gerarchia delle scienze, che riflette la necessità di sviluppare
le forze produttive, si fa sentire anche sull’economia politica, del
tutto inutile allo scopo, che dunque scimmiotta la fisica, come se
matematizzando i rapporti tra le classi evaporasse il conflitto che vi è
insito. In questo senso, il tentativo di Carnap e altri di risolvere i
problemi di oggettività della scienza, soprattutto di quelle sociali,
riducendo tutto il problema al linguaggio è pateticamente inadeguato. Le
equazioni non fanno dell’economia qualcosa di più oggettivo di un pezzo
di prosa. È feticismo inutile. Il punto non è il linguaggio che si usa
ma la realtà che si rappresenta. La diversa natura delle scienze si
riflette sul loro utilizzo sociale. La meccanica quantistica andava
bene anche ai sovietici, le teorie di Milton Friedman no. La fisica
aiuterà a costruire una società socialista, la sociologia no.
Per mantenersi al potere, la borghesia non può basarsi solo sulla
diffusione della propria ideologia, deve anche sviluppare la società,
perché è da qui, in ultima analisi, che, come ogni classe dominante,
trae la propria legittimazione. Per questo è corretto dire che “le
scienze della natura sembrano non avere un carattere di classe…perché in
questo campo è interesse anche della classe ideologicamente orientata
in senso conservatore pervenire a conoscenze che siano vere”[18].
Vi può essere una stessa teoria fisica in due società diverse perché in
entrambe aiuta lo sviluppo delle forze produttive, mentre in una
società divisa in classi non vi potrà mai essere una sola teoria
economica. Il filosofo Goldmann, osserva acutamente in proposito:
“Nelle scienze naturali, in cui gli interessi di tutti gli uomini
sono più o meno identici e dove gli egoismi cozzano in misura minore tra
loro, la somma delle verità universalmente riconosciute è massima.
Però, nelle scienze dello spirito, dove entrano in gioco gli interessi economici, sociali e religiosi dei diversi gruppi, la situazione è più che desolante”[19]
Però, nelle scienze dello spirito, dove entrano in gioco gli interessi economici, sociali e religiosi dei diversi gruppi, la situazione è più che desolante”[19]
Il criterio dell’utilizzo sociale conferma la diversa natura delle
scienze: le scienze delle forze produttive sviluppano la conoscenza
tenendo conto delle necessità di difesa dello status quo, le scienze dei
rapporti di produzione difendono il capitalismo tenendo conto delle
esigenze di sviluppo della conoscenza. Difendere il capitalismo, nei
momenti drammatici, può anche voler dire buttare a mare le teorie fino
ad allora difese strenuamente, come Keynes fece con secoli di liberismo
economico. Sopravvivere ha la precedenza sullo spargere ottimismo.
La dimostrazione migliore che, nella sua fase giovanile, l’economia
politica fosse una scienza delle forze produttive, è che ha ispirato
avanzamenti nelle scienze naturali, in particolare nella biologia. Come
noto, la teoria dell’evoluzione naturale venne formulata da Darwin
prendendo spunto dai filosofi sociali e dagli economisti del suo tempo[20].
Nei cinquant’anni che vanno dalla morte di Ricardo alla Comune di
Parigi, l’economia politica classica si trasforma da una scienza che
aiuta lo sviluppo delle forze produttive in una putrida religione dello
status quo. Al contrario è il marxismo a incarnare lo sviluppo delle
forze produttive e non a caso la rivoluzione scientifica della biologia
del nostro tempo, la teoria degli equilibri punteggiati, è legata
all’applicazione del marxismo alla biologia, mentre le applicazioni del
gradualismo all’evoluzione (come la sociobiologia) sono insignificanti
trasposizioni naturaliste dell’ideologia economica borghese.
Scienze al confine
Se la fisica e l’economia moderne sono esempi lampanti,
rispettivamente, di una disciplina naturale legata alle forze produttive
e di una disciplina sociale legata alle necessità ideologiche della
borghesia, la situazione è più complessa se guardiamo ad altri campi o a
singole teorie. Per esempio, non è molto chiaro in che modo le teorie
cosmologiche che propongono la nascita dell’universo di punto in bianco
con un big bang sviluppino le forze produttive. Sembrano piuttosto
difendere la creazione ex nihilo cara a molte religioni. Per converso, i
metodi matematici di pianificazione economica risultano utili anche ad
altre discipline, come anche la cibernetica.
Alcune scienze si situano poi su una linea di confine. Esemplare in
questo senso è la psicologia. Da un lato neuroscienze, fisiologia del
cervello, impulsi elettrici, scienze “hard”, dall’altro comportamenti
inspiegabili, il mare nero dell’inconscio. La psicologia dominante, come
l’economia, scimmiotta le scienze naturali e difende convintamente lo
status quo. Diverso è il caso di almeno alcune scuole di psicoanalisi.
Lo stesso fondatore della psicoanalisi, Freud, per la sua formazione di
medico e intellettuale mitteleuropeo, era portato a considerare
l’approdo naturalistico della psicoanalisi come un passo avanti, seppure
rifiutasse recisamente il biologismo. Diversa la situazione per la
psicoanalisi più recente. In particolare Lacan, che pure parte da una
distinzione-gerarchia tra scienze esatte e scienze congetturali, arriva
però a problematizzare tale scala:
“l’opposizione tra scienze esatte e scienze congetturali non può più
sostenersi dal momento che la congettura è suscettibile di un calcolo
esatto e quando l’esattezza è basata solo su un formalismo che separa
assiomi e leggi di raggruppamento dei simboli.”[21]
Lacan innova perché prende a prestito dalla linguistica, da scienze
“sociali” in qualche modo. La psicoanalisi non deve tendere alla
biologia ma alla comprensione dell’uomo. Naturalmente ci sono
osservazioni ed esperimenti, ma questo non la rende un simulacro di
fisica. In quanto non inserita direttamente nella difesa dei rapporti
borghesi di produzione, la psicologia può ancora produrre vera scienza,
la teoria economica ha smesso da tempo, al di là di miglioramenti
tecnici, peraltro di solito importati da altre scienze.
L’ideologia delle forze produttive, la totalità e la divisione del lavoro
La nascita del capitalismo non ha eliminato l’ideologia, se mai l’ha
resa evidente, eliminando ogni giustificazione non economica allo
sfruttamento dell’uomo. La giustificazione del profitto è il profitto
stesso. In questo contesto, la filosofia serve solo in quanto è un
sostegno allo sviluppo delle forze produttive.
L’ideologia del capitalismo ha anche un’evoluzione, come tutte le
ideologie. Nell’epoca imperialista, diviene chiaro che lo sviluppo
tecnico non risolve le cose di per sé. Lo sviluppo delle forze
produttive non è condizione sufficiente per migliorare le condizioni di
vita delle masse. Alcune correnti intellettuali rovesciano addirittura
l’approccio: è il progresso tecnico il male. Da qui, i sogni di ritorno
al passato, da Malthus alla decrescita. Va da sé che queste critiche
allo status quo, per quanto feroci, sono sempre futili.
Nella parabola discendente del capitalismo, la scienza borghese nel
suo complesso ha smesso di essere critica, di interrogarsi criticamente
sulla realtà e con ciò ha smesso di comprendere. È quello che Horkheimer
e Adorno chiamano autodistruzione dell’illuminismo: l’illimitato
progresso che diviene ideologia, metafisica e nega la realtà. La base
dell’illuminismo era l’idea del progresso continuo: liberare il mondo
dalla magia, dal passato, dalla tradizione. L’illuminismo è continuo
progresso, specchio dell’ascesa delle forze produttive. Con esso il
mondo esce dalla barbarie, la nebbia della magia si dissolve, la realtà e
il futuro diventano comprensibili e prevedibili. Da qui, disprezzo per
la tradizione, ottimismo per il futuro. L’illusione della tecnica, basta
saper fare le cose per aggiustare i mali del mondo, all’inizio funziona
e giustifica un’ideologia a-valutativa, classicamente strumentalista:
“sostituiscono il concetto con la formula, la causa con la regola e la
probabilità” (Horkheimer e Adorno). Sin da Galilei, ciò che non è
racchiudibile nel discorso della matematica, quantificabile, è
incomprensibile, inutile, va rigettato. Ciò che non si piega alla
matematizzazione è sospetto, inutile, da emarginare. Tutto deve essere
ridotto a numeri e dunque, alla fine, a maggiori profitti. La natura è
come il mondo di Matrix, un insieme di numeri che il cervello
degli schiavi trasforma in immagini. Se una scoperta, una teoria, non
sviluppa le forze produttive, e dunque i profitti, è metafisica. La
scienza e la tecnica danno all’uomo il controllo sulle cose. Il dominio
dell’uomo sull’uomo è rappresentato come dominio sulla natura. Così la
tecnologia si fonde con l’ideologia. Prima c’era dio, ora c’è la
scienza. Dal sacerdote allo scienziato, comanda chi media con il
soprannaturale.
Questa illusione illuminista viene meno con l’esplodere della
consapevolezza che la borghesia non incarna più gli interessi generali
dell’umanità, che il terzo stato si è rotto nelle sue parti componenti.
Nell’illusione della tecnica a-problematica c’è anche il rifiuto della
totalità. Senza totalità, allo scienziato rimane da indagare fatti
slegati, ossia accettare lo status quo. La totalità non riguarda solo
l’oggetto di studio (la società nel suo complesso, la società come un
tutto) ma anche il soggetto della conoscenza. L’errore
dell’individualismo metodologico borghese non è solo credere che l’unico
oggetto ammissibile della conoscenza sia l’individuo e che le leggi
sociali derivino dall’interazione di atomi sociali ma che possano essere
questi atomi sociali, o alcuni di essi, a comprendere tali leggi.
Invece, non è il soggetto ma la società che si auto-analizza. Queste
possono sembrare elucubrazioni filosofiche astratte ma basta fare degli
esempi per capire il punto. Prendiamo un economista che studia i mercati
azionari. Partendo dal caso del singolo investitore, può concludere che
è possibile non subire perdite patrimoniali anche durante una fase di
crollo dei mercati, basta vendere in tempo. Ragionando in base
all’individualismo metodologico, se l’investitore X non subisce perdite
in una crisi, anche gli investitori come categoria non ne subiranno, il
che è ovviamente una visione assurda e in contrasto con i fatti. La
società in quanto tale non può salvarsi dalla crisi. Si vede come il
punto di vista soggettivo non permetta di capire le cose.
Per il singolo capitalista, le leggi economiche sono imposte
dall’esterno come le stagioni, ma per la società nel suo complesso, non
esistono leggi sociali ferree, ma solo fasi storiche. La teoria borghese
non trova soluzioni alla crisi del capitalismo e anzi la rifiuta
concettualmente e può farlo perché assume il punto di vista del singolo
borghese. Per il singolo capitalista non c’è per forza crisi, può sempre
cavarsela a scapito di altri borghesi. Rimanendo sul terreno
dell’individualismo metodologico, la teoria borghese (ieri con la legge
degli sbocchi di Say, modernamente con il dibattito sull’agente
rappresentativo e sulle micro-fondazioni dell’economia) s’impedisce di
capire come funziona il mondo. Sotto il profilo tecnico, l’economia
politica classica aveva già toccato i punti essenziali di funzionamento
del capitalismo, ma mancava l’aspetto decisivo della totalità, l’analisi
della società come un tutto da parte della classe che ne rappresenta il
futuro necessario.
Per queste ragioni, il marxismo rifiuta l’idea che esistano singole
scienze sociali, basandosi invece su un’analisi complessiva della
società che va poi arricchita da specifiche discipline. Il marxismo in
quanto tale incarna la totalità in quanto rappresenta il sorgere del
proletariato come classe. La classe operaia in quanto rappresenta
scopertamente un lato dei rapporti di produzione dominanti, il salario
contrapposto al capitale, il lavoro contrapposto al dominio sul lavoro,
incarna la lotta di classe. Il materialismo storico è la
cristallizzazione dello sviluppo sociale, della maturazione del
conflitto. Qui emerge anche sotto il profilo soggettivo la distinzione
tra le scienze che non è nella loro natura di verità ma nei rapporti con
la lotta di classe. Nelle scienze sociali, senza la determinazione
soggettiva di voler cambiare i rapporti di produzione, non c’è punto di
vista della totalità e si ricade nell’analisi atomistica. Non così nella
fisica, dove se qualcosa non viene scoperto è perché la società non lo
permette nel senso delle tecnologie e delle conoscenze, mentre nelle
scienze sociali non si scopre perché le classi hanno una certa posizione
verso i rapporti di produzione.
Senza questo aspetto di totalità, su cui soprattutto Lukacs ha
insistito fortemente, a chi voglia cambiare il mondo non rimane che un
approccio etico. Non è un caso che tutte le correnti socialiste che
rompono con il marxismo diventano neokantiane o eticizzanti ad altro
titolo. Il mondo non va cambiato perché così è nella sua dinamica ma
perché “dobbiamo”. Oltre a essere teoreticamente infondata, questa
posizione conduce inevitabilmente tra le braccia del gradualismo
borghese. Cambiare le cose un pezzettino alla volta è il senso comune
del tecnocrate, teorizzato da filosofi come Popper. Non a caso. La
comprensione delle dinamiche sociali più profonde è impossibile senza
partire dalla totalità. Per citare Hegel, “il vero è l’intero”. La
totalità è rivoluzionaria, non fosse altro perché rifiuta la falsa
efficienza della divisione scientifica del lavoro. Si deve sempre
partire dall’universale:
“La sostanza della natura come della storia consiste in un universale
che si manifesta attraverso il particolare. L’universale è il processo
naturale del genere che realizza se stesso attraverso la specie e gli
individui. Nella storia, l’universale è la sostanza di ogni
sviluppo…L’individuo è determinato non dalle sue qualità particolari, ma
da quelle universali”[22]
L’ideologia delle forze produttive è innestata nella tecnica, nella
divisione orizzontale del lavoro che nasconde la gerarchia sociale. Il
tutto, l’universale, non esistono. La scienza deve rifiutare approcci
macro e restare all’individualismo metodologico. Come osserva Adam Smith
in una frase ormai celebre:
“Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che
ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro
interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro
egoismo, e parliamo del loro vantaggio e mai delle nostre necessità”[23]
Comprendere la società, la realtà, si riduce a capire che cosa fa il
singolo elemento che la compone. Ciò vale nell’economia con Smith, vale
nell’etica con Kant. Spiega Kant che la legge morale si riassume in
questo: fai ciò che vorresti fosse legge generale[24]
. L’imperativo categorico è la morale distillata della borghesia, la
micro-fondazione dell’etica. L’agire per interesse converge con quello
per dovere. La libera concorrenza è etica. La razionalità sociale è
inconsapevole. In tutto ciò, la comprensione generale è anatema, capire
le leggi di movimento nefasto.
La divisione sociale del lavoro viene così negata a scapito della
divisione tecnica. Un borghese e un operaio sono diversi solo perché
sono due rotelle diverse di un ingranaggio. Divisa la società, divisa la
scienza che rifiuta la totalità e non coglie i fenomeni che sono il
prodotto della società come un tutto, a guisa delle “proprietà
emergenti” studiate oggi in molte teorie scientifiche. La
specializzazione conduce all’incapacità di cogliere il processo
produttivo nella sua totalità e dunque di comprenderne il funzionamento.
La reificazione alla fine è questo: prendere gli interessi del borghese
per il funzionamento del capitalismo e così negare la natura transeunte
di quest’ultimo.
La parzialità e l’individualismo insiti nell’ideologia si riflettono
nella relazione che le scienze intessono con la divisione del lavoro. Le
scienze delle forze produttive incorporano una divisione del lavoro
essenzialmente tecnica, orizzontale per così dire, basata su una
progressiva specializzazione ed efficienza, anche se a scapito della
perdita di una visione unitaria del reale. Le scienze dei rapporti di
produzione veicolano una divisione sociale del lavoro, quella verticale,
tra le classi. La società che rappresentano non è divisa tra esperti di
un ramo diverso dello scibile umano, ma tra la classe proprietaria dei
mezzi di produzione e quella che li valorizza in cambio di un salario.
Per questo, la divisione del lavoro produce qui non tanto teorie
specialistiche ma soprattutto teorie reificate, dove l’unilateralità sta
nella negazione del conflitto sociale, delle contraddizioni che
attraversano la società. Le scienze naturali riflettono lo sviluppo
umano, quelle sociali riproducono i rapporti tra le classi.
La parabola dell’ideologia
La natura delle scienze, come abbiamo detto, muta nel tempo, con la
società. Lo sviluppo delle forze produttive trasforma una teoria o
un’intera disciplina da strumento per lo sviluppo dell’umanità ad arma
di difesa dello status quo. Questo processo riguarda l’intera impresa
scientifica. Nelle fasi di ascesa di un modo di produzione, tutte le
scienze partecipano allo sviluppo delle forze produttive, sono
rivoluzionarie come le idee necessarie alla nuova classe dominante per
prendere il potere. Quando è nella sua fase di ascesa, il modo di
produzione sviluppa rapidamente le forze produttive e le scienze
riflettono questo sviluppo con un’intonazione ottimista. Nel periodo di
declino, diventano pessimiste, intimiste, fosche.
Il pensiero nasce critico, nasce ribelle, riflesso di una situazione
di impasse delle forze produttive, che necessitano di nuovi e superiori
rapporti di produzione. Una volta raggiunti, l’ideologia si
cristallizza, avanza solo il “pensiero ciecamente pragmatizzato”
(Horkheimer e Adorno). Senza pensiero critico, la scienza delle forze
produttive rafforza l’esistente, almeno sino a un’impasse. La conoscenza
permette il dominio sulla natura, e questo è il lato delle forze
produttive, ma anche sull’uomo, ed è il lato dei rapporti di produzione.
Il pensiero borghese comincia con la lotta contro l’autorità e poi
diventa un bastione dell’autorità contro il progresso. Come ogni
ideologia.
Il punto chiave che concettualmente è dialettico e politicamente è
rivoluzionario è che i rapporti di produzione non mutano gradualmente,
ci vuole una rivoluzione, nella società come nella scienza.
“Marx ed Engels hanno inserito in quattro modi la conoscenza naturalistica
nel loro sistema materialistico. In primo luogo hanno svelato la
dipendenza anche della “pura” scienza della natura dall’industria e dal
commercio e dalla totale produzione materiale di volta in volta
esistente. (…) In secondo luogo essi hanno inteso lo sviluppo delle
scienze naturali materialisticamente come un momento nello sviluppo
delle forze produttive materiali della società. (…) In terzo luogo essi
hanno inteso dialetticamente come fase necessaria dell’intero sviluppo
storico anche l’apparente contraddizione di questo rapporto tra la
scienza e il lavoro nell’attuale modo di produzione capitalistico. (…)
In quarto luogo infine, nel Manifesto dei Comunisti, e di nuovo nel Capitale essi
hanno proclamato la soppressione rivoluzionaria di questa separazione e
la riunificazione della scienza con la produzione materiale nella
futura società comunista”[25]
Ottimismo, pessimo o rivoluzione?
La distinzione tra scienze naturali e sociali, si è detto, non
riguarda l’oggetto di studio o una maggiore “oggettività”, ma ciò che
esprime questa oggettività. Le scienze non vanno divise in base
all’argomento che studiano ma al rapporto che hanno con le forze
produttive. Le nozioni di geometria servivano agli egiziani a dividere
la terra e a costruire templi, comunque sviluppavano le forze
produttive. Le credenze sui morti no.
Il successo di una scienza, di una teoria, nel lungo periodo, è
legato alla sua capacità di sviluppare le forze produttive. Tuttavia,
come abbiamo visto con l’eliocentrismo, le istanze di difesa dello
status quo, in breve i rapporti di produzione, possono prevalere per
secoli sulle verità scientifiche. Questo non rende meno “vera” la
teoria, ma solo più pericoloso il professarla, come Galilei scoprì a sue
spese.
Per il materialismo, le forze produttive sono il fattore decisivo
nella società, ma questo vale solo nel lungo periodo e in base
all’azione cosciente degli uomini. Qualunque ottimismo basato sullo
sviluppo automatico della società e della scienza è fuori luogo. Le
esigenze delle forze produttive si fanno sentire, ma l’evoluzione della
scienza non ci può liberare dal capitalismo. Le forze produttive sono
dominate, nel loro sviluppo, dai rapporti di produzione. La parabola del
modo di produzione dominante si fa sentire anche sulla scienza.
Ai nostri giorni, la scienza viene mortificata dalla necessità di
difendere una società in crisi: “nei duecentocinquant’anni che sono
trascorsi dalla rivoluzione industriale…non si era mai verificato un
così lungo periodo di stagnazione teorica e tecnologica insieme”[26]
. L’impasse della società si riflette anche sulle scienze naturali. Non
solo ci sono meno risorse a disposizione della ricerca, ma soprattutto
l’esigenza della borghesia di difendere il proprio dominio mortifica la
scienza. Gli scienziati, di fronte a questa situazione, spesso si danno
al soggettivismo, accettano l’indeterminazione filosofica, altri
preferiscono rifugiarsi nelle equazioni, elevate a unica vera realtà.
Sono vicoli ciechi. Il marxismo è la soluzione, per la scienza, per la società.
[1]Come
osserva Piaget “è un fatto che i grandi filosofi del passato siano
stati quasi tutti dei creatori nelle scienze naturali o umane” (Piaget
J., Le scienze dell’uomo, p. 34).
[2]M. Horkheimer Teoria tradizionale e teoria critica, in Teoria critica, II, p. 137.
[3]G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, p. 143.
[4]Scrive
ad esempio lo scienziato marxista Havemann “la moderna scienza della
società ha continuamente bisogno dei suggerimenti ideali della scienza
naturale” (R. Havemann, Dialettica senza dogma, p. 152). In
concreto, però, questi suggerimenti si riducono ai procedimenti delle
scienze naturali (come la statistica), il che non ha senso perché, ad
esempio, l’econometria moderna è sofisticata come la statistica
utilizzata nelle scienze naturali, eppure ha una funzione totalmente
ideologica. Non si tratta di un problema di sviluppo tecnico ma di
natura della scienza.
[5]M. Horkheimer, Osservazioni sulla scienza e la crisi in Teoria critica, I, p. 3.
[6]N. Bucharin, Teoria del materialismo storico, p. 7.
[7]Introduzione a Sulla scienza, p. 49.
[8]K. Marx, L’ideologia tedesca, p. 17.
[9]Il capitale, I, Prefazione, p. 34.
[10]K. Marx negli appunti del 1861-63 pubblicati in italiano come Capitale e tecnologia, p. 169.
[11]Su questi aspetti vedi T. Kuhn, La rivoluzione copernicana.
[12]In
particolare, nella seconda tesi Marx osserva: “la questione se al
pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione
teoretica, ma pratica. È nella prassi che l’uomo deve dimostrare la
verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo
pensiero. La disputa sulla realtà o non – realtà di un pensiero isolato
dalla prassi è una questione puramente scolastica.”
[13]Su ciò vedi anche Marx e Kuhn: la struttura delle rivoluzioni scientifiche (https://xepel.wordpress.com/2007/08/08/marx-e-kuhn-la-struttura-delle-rivoluzioni-scientifiche/).
[14]M. Horkheimer, Il più recente attacco alla metafisica, in Teoria critica, II, p. 134.
[15]L. Althusser, Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati, p.137.
[16]K. Marx, Il capitale, I, p. 34.
[17]H. Grossmann, Marx, l’economia politica classica e il problema della dinamica, p. 24.
[18]A. Ponzio, Dialettica e verità, p. 43.
[19]L. Goldmann, Introduzione a Kant, p. 150.
[20]Cfr. Marx, Darwin, Gould – La rivoluzione dell’evoluzione (http://www.marxismo.net/scienza/marx-darwin-gould-la-rivoluzione-dellevoluzione).
[21]J. Lacan, Écrits, p. 863.
[22]H. Marcuse, Ragione e rivoluzione, p. 96.
[23]A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 92.
[24]Su questo vedi M. Horkheimer, Materialismo e morale in Teoria critica, I.
[25]K. Korsch, Il materialismo storico, p. 28.
[26]E. Lerner, Il Big Bang non c’è mai stato, p. 397.
Grazie !
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Ciao Caino!
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