Pochi giorni al referendum sulla brexit -che ho intimamente ribattezzato London Calling. Il referendum, nato apparentemente a causa di beghe interne ai conservatori, mostra la vistosa frattura sociale interna al UK -ed a quasi tutti i paesi comunitari; fonti EU confermano che "le
più forti disparità in termini di creazione di ricchezza tra regioni
dello stesso paese si registrano all'interno del Regno Unito, poiché il
Pil pro capite della regione Inner London è quasi cinque volte più alto
di quello della regione West Wales". Sarebbe strano che queste forti discrepanze non prendessero una forma politica - ma non di classe, non mi stupirei che il voto pro o contro l'EU riflettesse in distribuzione geografica quella della ricchezza sociale, con chi impoverisce e chi potrebbe guadagnare ancora di più a favore del "leave", chi ha mantenuto il proprio tenore di vita nonostante la crisi o, grazie ad essa, lo ha migliorato schierato con lo status quo attuale. Quelli messi peggio non votano. A mio avviso, riguardo alla scelta referendaria, la brexit non ha
alcuna possibilità di passare in un clima sociale, da quel che ho capito, complessivamente più anestetizzato che rovente, omicidi a parte.
In questo senso propongo qui sotto un articolo del 2014 - intitolato "Le due europe dell'economia, oltre gli stereotipi e i confini statuali" - che traccia i confini geografici di una kerneurope economica a carattere regionale che è trasversale agli stati nazionali. Questa trasversalità , mappa della produzione reale della ricchezza, pone forse uno fra i problemi più grossi alla realizzazione del vecchio progetto, sempre sottotraccia e pronto a tornare in auge nei prossimi momenti di crisi acuta, del ministro tedesco Schäuble riguardo ad un gruppo core di paesi allineati agli alti standard economico sociali tedeschi, non a caso internamente il più omogeneo fra i più grandi e popolosi paesi comunitari .
Otto
anni di crisi economica hanno compromesso la convergenza che
l'Europa sperimentava fino alla metà degli anni 2000. Stante una certa
debolezza della Germania, si assisteva ad esempio alla rapida crescita
di zone fino a poco prima depresse, come l'Irlanda o la Spagna, e allo
spettacolare aumento dei livelli di consumo dei greci o degli ungheresi.
Gli obiettivi di coesione, tra i principi fondativi dell'UE, apparivano
a portata di mano, raggiungibili senza troppo sforzo, grazie a un paio
di decenni di distribuzione di fondi europei e apertura dei mercati. La
congiuntura negativa ha spazzato via tale illusione – basata, come si è
visto, su presupposti finanziari fragilissimi.
La rappresentazione di
un'Unione davvero "unitaria" è oggi impropria; perciò, si è cercata una
formula che spiegasse perché una lunga stagnazione economico-sociale
incombe su certe aree del continente, mentre altre sono già in grado di
guardare con sicurezza agli anni che verranno. Sappiamo bene che alcuni
paesi hanno reagito meglio di altri alla crisi: ciò ha portato a
immaginare una frattura tra una parte meridionale, inefficiente,
"cattiva" del continente, e una centro-settentrionale, efficiente e
"buona" – e alla gara per incasellarsi nell'uno o nell'altro gruppo. Le
dinamiche politiche continentali hanno poi spesso favorito il ritratto
di una UE di tecnocrati e privilegiati di stanza a Bruxelles, o in
Germania, in opposizione a tutto il resto dei suoi membri o dei suoi
abitanti.
Naturalmente, costruire
la cornice interpretativa di un fenomeno significa anche stabilire le
coordinate attraverso cui questo fenomeno sarà in seguito osservato e
affrontato. L'immagine di un'Europa da catalogare per paesi comporta che
le questioni che la interessano abbiano dimensioni (e in certa misura
soluzioni) nazionali. Questa è la classificazione più intuitiva e
diffusa, legata com'è non solo alla percezione abituale – gli europei si
considerano ancora prima di tutto cittadini di uno Stato, e sono quasi
sempre dei mezzi di comunicazione nazionali a formare l'opinione delle
persone – ma anche alla storia recente: una storia di conflitti e
accordi tra nazioni. È facile però notare i difetti di questa
focalizzazione: sia perché in Europa somiglianze e differenze
trascendono i confini – ad esempio, i problemi dell'Andalusia sono ben
più simili a quelli della Sicilia che a quelli della Catalogna. Sia
perché molti Stati hanno al loro stesso interno divergenze più che
accentuate, come dimostra il fatto che la regione più ricca (Londra) ma
anche le nove più povere di tutta l'Europa centro-settentrionale si
trovino nello stesso paese, il Regno Unito.
Altri
schemi mentali, come la frattura culturale tra i latini, i germanici e
gli slavi o anche tra i cattolici, i protestanti e gli ortodossi hanno
radici in un passato più remoto. Ma vi si è spesso ricorso in maniera
grossolana per spiegare l'insuccesso della cattolica Spagna –
dimenticando i buoni risultati dell'altrettanto cattolica Polonia, senza
parlare della Baviera o dell'Austria – o magari illustrare i fasti del
rigore teutonico, trascurando la situazione molto meno esaltante di un
paese altrettanto "rigoroso" e ben organizzato come l'Olanda.
In
realtà, le tendenze geo-economiche degli ultimi 20 anni dimostrano una
sempre minore correlazione con le barriere politiche interne all'Unione
Europea, e spesso un crescente peso delle entità locali (in alcuni casi
addirittura sub-regionali, come per alcuni agglomerati urbani, e in
altri casi macro-regionali). Altri fattori ne sono all'origine: in
positivo, il buon posizionamento geografico e lo sfruttamento delle vie
di comunicazione transnazionali, la compattezza del tessuto economico e
sociale, la capacità di innovare, l'attrazione dei cervelli e il livello
di istruzione, un'efficiente rete di servizi.
È
intorno a questi cardini che lo sdoppiamento dell'Europa assume senso
compiuto. Già da tempo i centri di studio del Network Europeo per la
Pianificazione Spaziale (ESPON) si sono incaricati di dare un contorno a
queste frastagliate frontiere interne. Il risultato, elaborato tra il
2012 e il 2014 come proiezione della capacità dell'UE di rispondere alle
sfide dell'economia globale, è un limes che
include una fascia che a partire dall'Inghilterra meridionale e
attraverso la valle del Reno e la Germania centrale arriva alle Alpi e
alla valle padana. Le sue propaggini comprendono Bruxelles e le zone di
Parigi e Lione; Amburgo e la Danimarca; la Baviera e l'Austria
settentrionale. Tutte le altre
regioni europee ne sono al di fuori - se si eccettuano alcune capitali
(come Madrid, Berlino o Stoccolma), considerate capaci di generare o
attirare da sole le risorse necessarie per uno sviluppo vibrante. E le
zone al di fuori di quel limes dovranno vedersela
con un futuro di peggioramento dei salari e delle prestazioni sociali;
con un recupero occupazionale sì, ma limitato soprattutto ai lavori di
bassa qualità. Non è un caso che un travaso di popolazione giovane e
istruita dall'una all'altra area sia in corso negli ultimi anni in
proporzioni mai verificatesi in precedenza: è la prova della presenza di
queste due Europe nell'esperienza personale di molti dei suoi abitanti,
benché ancora assente dalle narrazioni ufficiali.
È
lecito dubitare che un tentativo di ricucire la lacerazione tra le due
Europe andrebbe a buon fine senza un deciso intervento di indirizzo
economico e di redistribuzione – questa volta più efficiente e duratura.
Tra le maggiori potenzialità economiche del futuro c'è quella di poter
sfruttare le capacità di spesa delle nuove classi medie mondiali; in
particolare, offrirsi in maniera ancora più decisa di quanto non sia ora
come una destinazione turistica e come un centro di produzione di
servizi e di merci di alta qualità. Due dei pochi settori economici,
questi, che ancora implicano la creazione di molti posti di lavoro e il
traino di altri settori, come le infrastrutture. Chi
beneficerà davvero della futura ricchezza? In mancanza di correzioni
significative, lasciando libere le forze del mercato di agire, è facile
prevedere che la tendenza attuale non si invertirà: l'economia europea
ruoterà ancora di più attorno a un piccolo territorio centrale
puntellato da grandi città. Un intervento degli Stati potrebbe
rettificare tale deriva; ma l'accumulo di debito e l'insufficiente
focalizzazione dei problemi da una prospettiva nazionale permetterebbe
di raggiungere al più dei risultati limitati. Alcune delle regioni oggi
escluse dal limes potrebbero tornare a convergere con il
nocciolo dell'Europa forte, ma si tratterebbe soprattutto di quelle già
meglio attrezzate per farlo.
Per
un'inversione profonda della tendenza servirebbero volontà e strumenti
politici rinnovati. Intanto la consapevolezza della scala continentale
dell'investimento necessario; poi la mobilitazione di fondi in misura
molto maggiore dell'attuale – in vista di risultati non immediatamente
raggiungibili, come l'aumento della natalità, una più intelligente
gestione dei flussi migratori, una distribuzione più equilibrata delle
risorse umane e materiali, la riorganizzazione delle protezioni sociali.
E infine, una politica del debito pubblico completamente differente,
che permetta una dilazione decennale degli obblighi di bilancio in
vigore in Europa. Volontà e strumenti politici tali non sono ancora
presenti nello spazio decisionale europeo.
Ottima analisi, parte il taglio fortemente keynesiano.
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