sabato 19 dicembre 2015

Il crude prezzo del oil

 se tu credi che il carbone /  bruci meglio
è un abbaglio /  è petrolio

La riunione Opec del 4 dicembre ha messo chiaramente a nudo, dopo un anno di oro nero a prezzi di saldo, le strategie dei paesi Opec rispetto a quelli esportatori extra-Opec e al contempo quelle interne all' organizzazione stessa tra paesi che si scornano da decenni, Iran e Arabia tanto per ribadire, gocce mediorientali di imperialismo globale

"Il ministro del Petrolio iraniano, Bijan Zangeneh, ha detto, prima della riunione odierna, che Teheran discuterà di cosa fare solo quando il suo Paese avrà raggiunto pieni livelli di produzione, se e quando le sanzioni occidentali saranno tolte." Ciò detto di rimando a: "il ministro saudita Ali al-Naimi in precedenza aveva detto che spera in una crescita della domanda globale tale da assorbire il balzo della produzione iraniana il prossimo anno. "Ognuno è benvenuto a entrare nel mercato"." 

La speranza, tutta diplomatica -cioè falsamente friendly, del ministro saudita è stata successivamente stroncata , dieci giorni fa, dal report del International Energy Agency (IEA) che prevede che l'eccesso di offerta potrebbe aumentare a livello globale il prossimo anno.


Tutto questo fa gioco alla strategia inaugurata dai sauditi un anno fa  in cui " l 'Opec prevede che la produzione di petrolio da parte dei paesi non membri dell'organizzazione scenderà più drasticamente l'anno prossimo, uno scenario che indicherebbe come la strategia di difendere le quote di mercato e non i prezzi stia funzionando." "Secondo il report Opec del 10 dicembre, la produzione extra-Opec dovrebbe ridursi di 380.000 barili al giorno nel 2016 per effetto dei cali in aree quali Usa e ex Unione Sovietica. Per quanto riguarda invece i paesi Opec, la produzione è salita di 230.000 barili al giorno a novembre a 31,7 milioni di barili, precisa il rapporto".

Della partita quindi sono pure gli Stati Uniti che si apprestano a  levare gli impedimenti legislativi all' esportazione dei loro shale oil & gas, il che sta a dimostrare l' indebolimento dell' importanza strategica, che comunque rimane altissima, della risorsa petrolifera. Alcuni raffinatori europei si stanno già fregando le mani. In più: "la Casa Bianca vede come sacrificabili gli interessi della classe energetica legata allo shale sull’altare dei vantaggi strategici tratti dalle difficoltà arrecate dall’attuale congiuntura a molti dei propri rivali, Russia in testa".

I russi, dal canto loro, cercano di compensare da un anno il loro alto prezzo di estrazione, non ben remunerato, lasciando fluttuare il rublo, accumulando valuta estera e alzando i tassi d' interesse. "Vi è una solida posizione netta sull’estero a fronte di un significativo avanzo di conto corrente. Il saldo del conto corrente è peggiorato stabilmente dal 2000 al 2013 per effetto dell’aumento della domanda interna di consumo, ma è sempre rimasto in attivo; dal 2015 in poi, inoltre, ci si attende che questo ritorni a crescere, nonostante la riduzione del prezzo del petrolio, per effetto del deprezzamento della valuta" che in questi giorni è, appunto, ai minimi storici contro dollaro. Questo quadro così composto frena la crescita del mercato interno: forse allo zar di tutte le Russie manca poco per un attacco di bile, se ci aggiugiamo le notizie che arrivano dall' Ucraina.

Segue un recente articolo -con tanto di mappa- in cui si inquadra -non sempre felicemente a mio avviso, tant'è che l' ho in parte contraddetto- lo scontro sul prezzo del petrolio nelle vicende geopolitiche intese come linee di attrito, vere e proprie faglie, fra le principali zolle capitalstiche che compongono lo scacchiere dei contrapposti interessi economici visti a livello mondiale---



Attorno al crollo del prezzo del petrolio (che questa settimana è sceso ai minimi dal 2009) si gioca un’accesa competizione geopolitica. Gli interessi legati alla risorsa che più rappresenta l’èra in cui viviamo sono soprattutto commerciali, ma le poste in gioco investono il prestigio, la potenza, persino la stabilità di alcuni Stati.

La prima vittima del barile sui 40 dollari è il cartello dei paesi produttori, l’Opec. Da più di un anno, l’organizzazione non riesce a trovare coesione al suo interno, spaccato fra i membri intenzionati a mantenere elevati i livelli di estrazione che causano l’eccesso di domanda (Arabia Saudita in testa) e quelli che invocano un taglio per innalzare i prezzi e alleviare il peso sui propri bilanci.

Per individuare i maggiori perdenti – che sono Russia, Algeria, Nigeria, Venezuela – occorre infatti osservare la combinazione tra la dipendenza delle casse statali dall’oro nero e il peso geopolitico del paese.

I principali fattori sono la rendita petrolifera (la percentuale sul pil della differenza tra il valore del greggio prodotto a prezzi di mercato e i costi di produzione), il peso dell’oro nero sulle esportazioni e il punto di break even, ossia il prezzo al quale deve essere venduto il barile affinché ciascuno Stato possa rispettare gli impegni di spesa. Per ognuno degli sconfitti individuati alcune considerazioni geopolitiche aggravano lo stress da assottigliamento delle rendite.

Venezuela, Algeria e in misura minore Nigeria rischiano di vedere aumentare proteste e instabilità politica a causa dell’incapacità di finanziare le spese correnti e degli squilibri causati dalla diseguale distribuzione delle rendite. A Caracas domenica 6 dicembre il blocco chavista ha perso le elezioni parlamentari per la prima volta dal 1999 (meno male, i chavisti italiani non li posso vedere, nota del sottoscritto).

La Russia è nella morsa fra la picchiata del barile e le sanzioni occidentali. Il calo della rendita dalle risorse minerarie genera dissesti nelle casse di Stato Anche in questa chiave va letto l’intervento in Siria, che dovrebbe dichiaratamente essere di breve periodo (3-4 mesi) per evitare di pesare ulteriormente sul bilancio pubblico.

L’Iran non è incluso nella lista dei perdenti, nonostante l’elevata dipendenza dal greggio, perché i suoi giacimenti potrebbero profittare della diminuzione degli investimenti internazionali in siti in cui il costo dell’estrazione è più alto (idrocarburi non convenzionali americani o nell’Artico).

Gli Stati Uniti sono l’anello di congiunzione tra vincitori e sconfitti. L’estrazione di gas e petrolio non convenzionali – simbolo delle velleità di autosufficienza energetica – è costosa e non sostenibile a questi prezzi. Tuttavia, la Casa Bianca vede come sacrificabili gli interessi della classe energetica legata allo shale sull’altare dei vantaggi strategici tratti dalle difficoltà arrecate dall’attuale congiuntura a molti dei propri rivali, Russia in testa.

Anche l’Arabia Saudita vanta un bilancio misto in questa partita. Nonostante figuri in vetta in quasi tutti gli indici di dipendenza dal petrolio, Riyad stima di avere abbastanza margine di manovra (soprattutto riserve in valuta estera e ricorso ai mercati finanziari) per sopportare il deficit, giunto al 20% del pil.

Tacciata di complotto antirusso e antiraniano, con la decisione di non tagliare la produzione di greggio la casa reale saudita punterebbe in realtà a mettere fuori mercato diversi competitori, guadagnando decisive quote commerciali. Per Riyad è però cruciale che la partita non si prolunghi più di tanto.

A profittare del crollo dei prezzi sono sicuramente i principali consumatori: l’Eurozona, ma soprattutto l’Asia orientale, con India, Cina, Giappone e Corea del Sud che ultimamente hanno incrementato il flusso di petrolio dal Golfo.

La reazione di queste potenze qualora la loro principale regione di approvvigionamento precipiti nel caos anche a causa dei dissesti energetici è tutta un’altra storia.

Federico Petroni per Limesonline 11 dic 15
Carta di Laura Canali

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