Un' occhiata alle prossime presidenziali statunitensi e ai problemi che il prossimo presidente, con ogni probabilità Hillary Clinton, si troverà ad affrontare. Io voto per Charlize ma si sa che non conto nulla.---
Più che in passato, quella destinata a portare, il prossimo 8 novembre, all’elezione del quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti sembra, a chi la osserva da fuori, una gara senza storia. Se, sul fronte democratico, la candidatura di Hillary Clinton appare abbastanza forte da superare senza eccessive difficoltà la fase delle primarie, su quello repubblicano il proliferare dei candidati e il consenso raccolto dall’outsider Donald Trump sembrano accentuare lo spaesamento politico che da qualche anno affligge un partito che appare sempre meno in grado di produrre un progetto politico abbastanza aggregante e condiviso. Nonostante la concorrenza del socialdemocratico Sanders e qualche flebile distinguo fra i suoi sostenitori, l’ex Segretario di Stato appare, quindi, avviato sulla strada di un facile successo. Un successo che, però, rischia di non fugare tutte le ombre dal futuro dell’amministrazione. I punti di forza del candidato Clinton – primo fra tutti la capacità di “convergere al centro”, intercettando il consenso anche di una parte dell’elettorato repubblicano – rischiano, infatti, di trasformarsi in altrettanti punti di debolezza del Presidente Clinton una volta chiamato a tradurre il programma elettorale in azione politica concreta.
Sia Hillary Clinton sia il suo eventuale rivale repubblicano si troveranno infatti davanti a un spettro di sfide interne e internazionali che sfuggono ai “semplici” schematismi di una campagna elettorale e che toccano a fondo i tratti della politica statunitense come è venuta formandosi negli otto anni della presidenza “post-ideologica” di Barack Obama. Sul piano interno, la decisione della Federal Reserve di aumentare (seppure in maniera contenuta) il costo del denaro, adombrando la possibilità di procedere a nuovi aumenti durante il 2016, se da un lato offre un segnale positivo in campo economico, dall’altro inaugura una nuova stagione di incertezza, soprattutto perché – al di là del segnale che la Banca centrale ha voluto dare con la sua scelta – le ragioni di fondo della debolezza della crescita statunitense (e degli squilibri che l’hanno caratterizzata) non sono venute meno. Proprio le decisioni della Fed sembrano, piuttosto, aggravare un quadro in cui le debolezze interne (prime fra tutte la distribuzione diseguale degli effetti della ripresa e la scarsa fiducia dell’opinione pubblica sulla performance del Paese) si sommano alla contrazione dei tassi di crescita internazionale i cui effetti negativi si sono fatti sentire, negli Usa, già negli scorsi mesi.
Sul piano internazionale, l’agenda non è meno complessa. L’amministrazione Obama ha lasciato aperti almeno tre grandi dossier legati rispettivamente alla posizione degli Stati Uniti nel teatro asiatico, alle loro relazioni con l’Europa e alla definizione di una nuova politica nella regione del Grande Medio Oriente. In nessuno di questi tre teatri l’assetto raggiunto appare definitivo. Nel primo, la politica del pivot to Asia ha prodotto risultati altalenanti, lasciando sostanzialmente irrisolta la questione-chiave delle relazioni con la Cina popolare e delle sue ambizioni di leadership regionale. Negli anni appena passati, l’integrazione fra Cina e Stati Uniti è molto cresciuta e anche sul piano politico si sono avuti importanti momenti di convergenza, come davanti alla crisi nucleare nordcoreana della primavera 2013. Al di là di una certa enfasi retorica, la visita del Presidente cinese Xi Jinping negli Stati Uniti lo scorso settembre è il segno forse più eloquente di questo stato di cose. Rimangono, tuttavia, vari interrogativi aperti, primo fra tutti quello legato all’atteggiamento dei tradizionali alleati di Washington nella regione (Giappone e Corea del Sud fra tutti) di fronte a quella che molti interpretano come la scelta di appeasement compiuta dalla Casa Bianca nei confronti di quella che continua a essere percepita come una potenza pericolosamente espansionista.
Sullo scacchiere mediorientale la situazione appare – se possibile – ancora più intricata. La firma del nuclear deal con l’Iran e il deterioramento delle relazioni con Israele hanno rovesciato le coordinate tradizionali della politica statunitense nella regione e sono valse all’amministrazione le critiche di un ampio fronte bipartisan. Difficilmente l’iter per la ratifica dell’accordo avrà vita facile in Congresso, anche nell’eventualità che le elezioni politiche (che si terranno contemporaneamente a quelle presidenziali per il rinnovo della Camera dei Rappresentanti e di un terzo dei membri del Senato) portino a un assetto del Legislativo totalmente diverso dall’attuale. Gli stessi profili dei candidati presidenziali non appaiono realmente consoni a una politica basata sul constructive engagement della Repubblica Islamica. D’altra parte, le ricadute dell’accordo firmato lo scorso luglio dai rappresentanti del governo di Teheran e del gruppo dei c.d. “5+1” sono troppo ampie per essere trascurate. Al di là dell’impatto sugli equilibri regionali e sul confronto in atto fra mondo sciita e sunnita, la normalizzazione dei rapporti con Teheran rappresenta, infatti, la condizione-base per un riorientamento della politica estera statunitense che anche con il passaggio del testimone fra la vecchia e la nuova amministrazione sembra destinato a rimanere una delle priorità della Casa Bianca.
Nei prossimi mesi, la gestione della crisi mediorientale – intorno a cui, dopo l’entrata in scena della Russia, si è appuntata l’attenzione di tutti i principali attori internazionali – rappresenterà un banco di prova importante per la credibilità dell’amministrazione. Gli sforzi diplomatici delle ultime settimane, culminati nell’adozione in sede di Consiglio di Sicurezza ONU della risoluzione 2254, sono il segno chiaro di come Washington voglia continuare a contare in una vicenda per cui il Presidente e il suo entourage sono stati più volte pesantemente criticati. La possibilità di disinnescare realmente la bomba siriana si lega, tuttavia, soprattutto alla capacità degli Stati Uniti di offrire all’accordo un sostegno duraturo e credibile anche oltre i limiti fissati dalla roadmap. Un impegno, quest’ultimo, che chiama in causa la prossima amministrazione tanto quanto quella attuale e che – nel caso di un successo di Hillary Clinton – rischia di porre il nuovo Presidente davanti alla scelta se accettare gli assunti “pragmatici” su cui l’accordo poggia o se rilanciare la sfida di un interventismo democratico che ha costituito uno dei suoi cavalli di battaglia negli anni trascorsi al Dipartimento di Stato ma anche una delle principali cause di frizione in seno all’amministrazione Obama.
Infine, l’Europa. All’epoca della sua prima elezione, l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca aveva sollevato molte speranze in un continente critico verso l’unilateralismo di George W. Bush. Forse anche a causa della frustrazione di tali speranze, da questa parte dell’Atlantico non sembra esserci, oggi, troppa attenzione per la campagna elettorale in corso negli Stati Uniti; un disinteresse, quest’ultimo, che sembra rispecchiare, nei fatti, la sostanziale assenza del tema delle relazioni transatlantiche nella campagna elettorale americana. Gli sviluppi dello scenario internazionale hanno condotto – specialmente in questo scorcio di decennio – al progressivo allentamento della “cinghia di trasmissione” costituita dall’Alleanza Atlantica e all’emergere – all’interno di questa – di una serie di fratture non solo fra il pilastro statunitense e quello europeo, ma anche lungo la linea di faglia già identificata dalla dicotomia fra “vecchia” vs. “nuova Europa”. La crisi ucraina prima, il rinnovato attivismo della Russia “neo-imperiale” di Vladimir Putin poi, hanno approfondito questa frattura, andandosi a sommare a quella che è percepita sempre più diffusamente come l’incapacità degli Usa di reagire in maniera concreta alle crescenti sfide che sono chiamati ad affrontare.
Ovviamente, è del tutto illusorio attendersi che il nuovo Presidente – chiunque esso sia – possa realmente invertire la rotta che, dopo la fine della Guerra fredda, ha sempre più allontanato gli Stati Uniti dell’Europa. D’altro canto, la necessità di una rielaborazione del rapporto esistente fra le due sponde dell’Atlantico appare sempre più necessaria. La crisi libica del 2011 ha costituito la prova evidente di come la ri-nazionalizzazione delle politiche estere e di sicurezza finisca per sottoporre la NATO – che, al momento, rimane il principale foro di elaborazione politica comune fra Washington e i partner europei – a tensioni difficilmente sostenibili. Parallelamente, la sfida della “nuova geopolitica” russa e l’ordine sparso con cui i diversi paesi sembrano volersi approcciare al proliferare delle sfide transnazionali finiscono per porre in dubbio la possibilità stessa, per gli Stati Uniti, di continuare a svolgere il ruolo di egemone “globale” che è sempre stato uno dei pilastri della loro politica di sicurezza. Stati Uniti, quindi, sempre meno capaci di proteggere la propria sicurezza spostando il loro “peso determinante” fra le forze che operano sui vari scacchieri. E anche questo è un problema al quale, prima o poi, Mr. – o Ms. – President dovrà decidersi a porre mano.
Sul piano internazionale, l’agenda non è meno complessa. L’amministrazione Obama ha lasciato aperti almeno tre grandi dossier legati rispettivamente alla posizione degli Stati Uniti nel teatro asiatico, alle loro relazioni con l’Europa e alla definizione di una nuova politica nella regione del Grande Medio Oriente. In nessuno di questi tre teatri l’assetto raggiunto appare definitivo. Nel primo, la politica del pivot to Asia ha prodotto risultati altalenanti, lasciando sostanzialmente irrisolta la questione-chiave delle relazioni con la Cina popolare e delle sue ambizioni di leadership regionale. Negli anni appena passati, l’integrazione fra Cina e Stati Uniti è molto cresciuta e anche sul piano politico si sono avuti importanti momenti di convergenza, come davanti alla crisi nucleare nordcoreana della primavera 2013. Al di là di una certa enfasi retorica, la visita del Presidente cinese Xi Jinping negli Stati Uniti lo scorso settembre è il segno forse più eloquente di questo stato di cose. Rimangono, tuttavia, vari interrogativi aperti, primo fra tutti quello legato all’atteggiamento dei tradizionali alleati di Washington nella regione (Giappone e Corea del Sud fra tutti) di fronte a quella che molti interpretano come la scelta di appeasement compiuta dalla Casa Bianca nei confronti di quella che continua a essere percepita come una potenza pericolosamente espansionista.
Sullo scacchiere mediorientale la situazione appare – se possibile – ancora più intricata. La firma del nuclear deal con l’Iran e il deterioramento delle relazioni con Israele hanno rovesciato le coordinate tradizionali della politica statunitense nella regione e sono valse all’amministrazione le critiche di un ampio fronte bipartisan. Difficilmente l’iter per la ratifica dell’accordo avrà vita facile in Congresso, anche nell’eventualità che le elezioni politiche (che si terranno contemporaneamente a quelle presidenziali per il rinnovo della Camera dei Rappresentanti e di un terzo dei membri del Senato) portino a un assetto del Legislativo totalmente diverso dall’attuale. Gli stessi profili dei candidati presidenziali non appaiono realmente consoni a una politica basata sul constructive engagement della Repubblica Islamica. D’altra parte, le ricadute dell’accordo firmato lo scorso luglio dai rappresentanti del governo di Teheran e del gruppo dei c.d. “5+1” sono troppo ampie per essere trascurate. Al di là dell’impatto sugli equilibri regionali e sul confronto in atto fra mondo sciita e sunnita, la normalizzazione dei rapporti con Teheran rappresenta, infatti, la condizione-base per un riorientamento della politica estera statunitense che anche con il passaggio del testimone fra la vecchia e la nuova amministrazione sembra destinato a rimanere una delle priorità della Casa Bianca.
Nei prossimi mesi, la gestione della crisi mediorientale – intorno a cui, dopo l’entrata in scena della Russia, si è appuntata l’attenzione di tutti i principali attori internazionali – rappresenterà un banco di prova importante per la credibilità dell’amministrazione. Gli sforzi diplomatici delle ultime settimane, culminati nell’adozione in sede di Consiglio di Sicurezza ONU della risoluzione 2254, sono il segno chiaro di come Washington voglia continuare a contare in una vicenda per cui il Presidente e il suo entourage sono stati più volte pesantemente criticati. La possibilità di disinnescare realmente la bomba siriana si lega, tuttavia, soprattutto alla capacità degli Stati Uniti di offrire all’accordo un sostegno duraturo e credibile anche oltre i limiti fissati dalla roadmap. Un impegno, quest’ultimo, che chiama in causa la prossima amministrazione tanto quanto quella attuale e che – nel caso di un successo di Hillary Clinton – rischia di porre il nuovo Presidente davanti alla scelta se accettare gli assunti “pragmatici” su cui l’accordo poggia o se rilanciare la sfida di un interventismo democratico che ha costituito uno dei suoi cavalli di battaglia negli anni trascorsi al Dipartimento di Stato ma anche una delle principali cause di frizione in seno all’amministrazione Obama.
Infine, l’Europa. All’epoca della sua prima elezione, l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca aveva sollevato molte speranze in un continente critico verso l’unilateralismo di George W. Bush. Forse anche a causa della frustrazione di tali speranze, da questa parte dell’Atlantico non sembra esserci, oggi, troppa attenzione per la campagna elettorale in corso negli Stati Uniti; un disinteresse, quest’ultimo, che sembra rispecchiare, nei fatti, la sostanziale assenza del tema delle relazioni transatlantiche nella campagna elettorale americana. Gli sviluppi dello scenario internazionale hanno condotto – specialmente in questo scorcio di decennio – al progressivo allentamento della “cinghia di trasmissione” costituita dall’Alleanza Atlantica e all’emergere – all’interno di questa – di una serie di fratture non solo fra il pilastro statunitense e quello europeo, ma anche lungo la linea di faglia già identificata dalla dicotomia fra “vecchia” vs. “nuova Europa”. La crisi ucraina prima, il rinnovato attivismo della Russia “neo-imperiale” di Vladimir Putin poi, hanno approfondito questa frattura, andandosi a sommare a quella che è percepita sempre più diffusamente come l’incapacità degli Usa di reagire in maniera concreta alle crescenti sfide che sono chiamati ad affrontare.
Ovviamente, è del tutto illusorio attendersi che il nuovo Presidente – chiunque esso sia – possa realmente invertire la rotta che, dopo la fine della Guerra fredda, ha sempre più allontanato gli Stati Uniti dell’Europa. D’altro canto, la necessità di una rielaborazione del rapporto esistente fra le due sponde dell’Atlantico appare sempre più necessaria. La crisi libica del 2011 ha costituito la prova evidente di come la ri-nazionalizzazione delle politiche estere e di sicurezza finisca per sottoporre la NATO – che, al momento, rimane il principale foro di elaborazione politica comune fra Washington e i partner europei – a tensioni difficilmente sostenibili. Parallelamente, la sfida della “nuova geopolitica” russa e l’ordine sparso con cui i diversi paesi sembrano volersi approcciare al proliferare delle sfide transnazionali finiscono per porre in dubbio la possibilità stessa, per gli Stati Uniti, di continuare a svolgere il ruolo di egemone “globale” che è sempre stato uno dei pilastri della loro politica di sicurezza. Stati Uniti, quindi, sempre meno capaci di proteggere la propria sicurezza spostando il loro “peso determinante” fra le forze che operano sui vari scacchieri. E anche questo è un problema al quale, prima o poi, Mr. – o Ms. – President dovrà decidersi a porre mano.
Gianluca Pastori per ISPI online 22 dic 15
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