sabato 10 ottobre 2015

Siria: il sottile confine tra realismo e cinismo


Pescato stamane dal sito dell' ISPI, un articolo-quadro sul rompicapo siriano in cui alcune grandi potenze globali (USA, paesi europei di tradizione coloniale ) si muovono manifestamente a casaccio, sorpassate in capacità di iniziativa da medie potenze locali in lotta fra loro per la supremazia regionale. Fa caso a sè l' interventismo del muscolare zar di tutte le russie.
Il concetto di imperialismo unitario, causa e non effetto della globalizzazione capitalistica, quando indossa i panni della congiuntura particolare si dissimula nelle varie volontà di potenza dei diversi attori, portatori di contrapposti interessi economici ed ideologici che insistono su una determinata  area.
Il Medio Oriente a volte appare come "waste land" ma anch' esso, una volta che è "messo a lavoro", cioè a profitto, in altre parole spremute le risorse naturali e soprattutto quelle umane delle masse diseredate, produce una ricchezza su cui tutti coloro che aspirano al dominio vogliono mettere le mani. ---
 

Per i più ottimisti, quelli che pensavano che l’Iran deal avrebbe portato la soluzione per ogni male del Medio Oriente, la doccia fredda è arrivata subito. È arrivata in Siria, dove col rafforzamento dell’Iran, la disperazione del regime e le accentuate insicurezze saudite, le cose non si sono affatto risolte. Anzi, si sono complicate. La verità, semmai, è che l’Iran deal ha incrementato gli incentivi delle potenze regionali per continuare il conflitto. Teheran, forte di una rinnovata posizione internazionale e di centinaia di miliardi in arrivo nel suo budget sfiancato, non vede alcun motivo per smettere proprio ora di combattere. Se prima poteva ottenere 10, ora può ragionevolmente sperare di ottenere 100. Dall’altra parte, i sauditi e i loro alleati del Golfo hanno visto poche firme su un trattato spazzare via la loro tranquilla egemonia regionale. Dopo aver sgominato la minaccia dei Fratelli Musulmani in Egitto ora l’Iran si affaccia come un pericolo ben maggiore al quale non si può più concedere niente. Se prima in Siria sarebbero stati disposti, forse, a concedere 5 per ottenere 10, ora che ai loro occhi l’Iran ha ricevuto 100 dall’Occidente non gli si può più concedere niente. Da nessuna parte. In Yemen e, soprattutto, in Siria.


In questo quadro di rinnovata belligeranza dei due grandi rivali regionali si affaccia il gigante russo. Un gigante zoppo, con un’economia in rovina e una campagna militare in Ucraina avara di successi dopo l’annessione della Crimea. Che sta costando tanto, in sanzioni, spese militari e costi politici. Ma è nella natura di Putin non risolvere i nodi presenti, ma rilanciare, crearne degli altri che distolgano l’attenzione da quelli precedenti, che li facciano sembrare robetta in confronto ad altre emergenze attuali e convincano gli avversari a mollare il colpo. Ed ecco che jet e uniformi russe compaiono nella Siria del regime in difficoltà. Un colpo per chi sperava, per l’ennesima volta, che i giorni di Assad fossero contati. Non lo sono affatto, e con l’aiuto del ringalluzzito alleato iraniano che ha inviato migliaia di uomini e mezzi, è in arrivo un’offensiva in grande stile che potrebbe fruttare al regime le grandi vittorie che gli sono mancate ormai per quasi due anni. Vittorie che devono arrivare e in fretta. Perché lo sanno a Damasco, così come a Teheran e Mosca quanto bluff c’è in tutta questa storia. L’Iran è certamente più forte, ma non così tanto, almeno finchè non incasserà effettivamente il tesoro promesso dalla fine delle sanzioni. E l’orso russo è davvero zoppo, con un’economia alla deriva e un’opinione pubblica impoverita a cui sarebbe difficile spiegare un impegno militare costoso e prolungato in un paese che a malapena il russo medio sa trovare su una cartina. Ma, soprattutto, il regime è in coma vegetativo da mesi e non ha molto tempo prima che diventi irreversibile. Bashar Al-Assad in settembre ha ammesso per la prima volta pubblicamente una verità lampante da mesi: il regime non ha più soldati. Nonostante ami raccontare che il popolo siriano sia unito intorno a lui contro i malefici terroristi inviati dai nemici della Siria, il dittatore di Damasco ha dovuto ammettere di non riuscire più a trovare nessuno che combatta per lui. E che oltre alle migliaia che sono morti, molti altri, probabilmente di più, hanno semplicemente disertato.

Ma per adesso la magia funziona. L’IS fa molta più paura di un regime che in fondo non ha mai tagliato la testa a nessun occidentale (al massimo l’ha ucciso sotto le bombe, ma sempre discretamente, lontano dalle telecamere) e che si è limitato a massacrare la sua gente. Ma, dice il regime, erano tutti amici dei terroristi, e viene facile crederci e pensare che in fondo vada bene così. L’opposizione, o quello che ne resta, certamente non ha aiutato a modificare questo quadro. Quando le proteste di piazza sono cominciate nel 2011, Assad ha iniziato a raccontare ossessivamente la fiaba degli estremisti pagati dall’estero. E l’ha raccontata così a lungo e così bene (aiutandosi con scarcerazioni di estremisti e attacchi focalizzati contro le formazioni più laiche) che alla fine ci ha creduto anche la maggior parte dei ribelli. Perché alla fine quella fiaba, uguale e contraria, piaceva anche ai loro principali sostenitori internazionali, dall’Arabia Saudita al Qatar, i quali potevano appoggiare e incoraggiare una rivolta sunnita e religiosa contro un despota filo-sciita, ma che si sarebbero ben guardati da fare lo stesso a favore della rivolta di un popolo oppresso contro un dittatore sanguinario. Una storia, quest’ultima, con un intreccio e dei personaggi troppo simili a quelli che vedono nel riflesso dello specchio.


Ed è così che, anche grazie ai ribelli e ai loro principali sponsor, la magia sta funzionando. È così che la Russia è libera di bombardare senza soluzione di continuità postazioni del califfato e aree controllate dai ribelli, perché in fondo sono tutti uguali, tutti terroristi. Una bugia, certamente, ma con un triste e realista fondo di verità che la sta rendendo accettabile, soprattutto a occidente. Una dopo l’altra le cancellerie europee e perfino gli ufficiali statunitensi stanno infatti ammettendo che la dipartita di Assad non è più una precondizione alle trattative. E si uniscono al coro di Russia, Iran e perfino dello stesso Bashar Al-Assad: per ora resta, e poi, in un futuro imprecisato, dovrà però andarsene. Che va bene per mettersi a posto le coscienza e pensare che in fondo sia un compromesso e non la resa assoluta al regime e i suoi alleati. Ma tutti, nessuno escluso, sanno quello che significa davvero: Assad vince, resta al potere, e la chiudiamo così.

Un’opzione difficilmente dichiarabile pubblicamente, almeno non ora, ma certamente possibile per chiudere la lunga ed estenuante partita siriana. Un’opzione che molti stanno seriamente considerando e che, nonostante l’enorme dose di cinismo che richiede, rappresenta una legittima scelta politica. Una scelta che però va considerata a fondo, guardando non solo all’immediato domani ma anche al dopodomani e il giorno dopo ancora, tenendo conto di due grandi nodi che difficilmente qualunque accordo in queste condizioni sarà in grado di risolvere.

Il primo è un nodo formato dalle possibili vittorie del regime di cui sopra, i bombardamenti russi contro-IS-ma-in-realtà-contro-tutti-quelli-che-non-sono-Assad, e da un Occidente allo sbando disposto ad accettare qualunque cosa pur di mettere fine alle prime pagine colme di tristi notizie di archi antichi abbattuti, video macabri di Jihadi John e profughi in fuga (le stragi del regime, quelle no, di solito non arrivano nemmeno in penultima pagina). Alla fine, raschiando il fondo di quel che resta in Siria dell’opposizione presentabile, si potrebbe mettere insieme un negoziato di pace in cui Assad resta al potere fino a elezioni che vince facile intimidendo i pochi siriani rimasti in Siria e chiudendo così sulla carta la lunga partita siriana. Solo sulla carta però. Sauditi e alleati accetteranno senza accettare, e sottobanco non smetteranno di alimentare la guerriglia e gli attentati di quella parte dell’opposizione che non avrà accettato il compromesso firmato da un suo rappresentante che non rappresenta nessuno. Se non per principi o altro, per un motivo semplicissimo: deporre le armi con Assad che resta al potere significa carcere, tortura o morte; e allora meglio combattere. Così la guerra, anche se più soffusa, continuerà. Guerriglia, bombe e attentati. La realizzazione della favola del “sono tutti terroristi” troverà infine compimento nella definitiva fusione dei ribelli rimasti con le spalle al muro con l’IS o qualunque cosa estrema passi dalle loro parti. La ricostruzione sarà lenta o nulla, riattrarre turisti e investimenti pressoché impossibile, e Assad, che ormai ha accettato qualunque cosa per restare al potere, accetterà anche di essere diventato semplicemente il vicerè di uno spopolato cumulo di rovine, al servizio, di volta in volta, di Mosca o Teheran.

Infine, seguendo i filamenti del primo nodo arriveremo al secondo, che ci riguarda ancora più da vicino. Perché non ci vuole un fine conoscitore dell’animo umano per capire che se Assad fosse stato la soluzione fin dall’inizio i milioni che hanno lasciato la Siria avrebbero forse preferito unirsi a lui e combattere invece di fuggire. Ma basta scambiare due parole con qualcuno di loro per capire quanto la fiaba della fuga dall’IS e simili sia un’illusione di cartapesta, dietro la quale si trova una realtà fatta di fughe da barili bomba, persecuzioni di massa e operazioni terroristiche sui civili. Tutte targate Assad. E c’è da scommettere che pochi abbiano interesse a un ritorno in una Siria ancora governata da lui. Se non per principio, anche solo per la consapevolezza che il suo regime, come quello del padre, ha sempre funzionato con la formula della somma zero. Tu ti ribelli, io ti trovo e ti uccido, non importa se subito o fra dieci anni. È successo così per la rivolta dei primi anni Ottanta e non c’è nessun motivo per le persone fuggite oggi per pensare che qualcosa sia cambiato. Tutti sanno che il regime ha un legittimo sospetto verso tutti coloro che sono scappati. Perché non hai combattuto? Perché non sei venuto da noi? Hai combattuto per loro? Li hai aiutati? E così alcuni torneranno, ma tanti, probabilmente la maggior parte, resteranno dove sono. In Europa, certo, per la gioia elettorale dei partiti populisti di casa nostra. Ma anche in Giordania, Libano e Turchia. I primi due paesi di 4-6 milioni abitanti che ospitano più di un milione di siriani ognuno, che potrebbero non tornare mai, rischiando di destabilizzare i loro già fragilissimi equilibri.

Afferriamola pure la mano tesa che l’orso russo ci tende oggi per uscire dal pantano siriano, ma almeno facciamolo rendendoci conto di cosa significa. Per la Siria, per i paesi limitrofi e anche per l’Europa. E accettiamolo, senza illusioni e giri di parole.

Eugenio Dacrema, Università di Trento.

3 commenti:

  1. Bell'articolo e tuttavia, per riprenderne la conclusione: siamo sicuri sia del tutto "accettato" l'intervento russo? E ancora: mi sembra che in un futuro prossimo, due siano le opzioni valide per la Siria: o essere un Afganistan più vicino all'Europa (oltre dieci di anni combattimenti e presenza militare straniera), oppure una sorta di Egitto con al potere un giunta militare con un nuovo presidente più "presentabile" (per Assad una sorta di fine dorata mubarakiana).

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    1. Nell' imperialismo tutto è relativo, le alleanze vanno e vengono e ognuno tira al suo, a guadagnare posizioni. Oggi i russi parlano addirittura con i sauditi per coalizzarsi contro l' IS, sauditi che sono già stati tuttaltro che succubi degli americani, in particolare riguardo al loro espansionismo a corto raggio, come Israele. La questione che pone l'autore dell' accettare o meno l' intervento russo è puro livello diplomatico, i russi hanno tre basi e nessuno oggi può contestarle.
      La presenza di borghesie industriali e commerciali nei grandi paesi dell' area (Turchia, Egitto, Iran), e anche nei piccoli (Libano e, una volta, Siria), seppur minoritarie, potrebbe far propendere per una soluzione "egiziana", dopo sistemato l'IS. Assad perse colpi quando non riuscì più, a causa della crisi economica internazionale, a tenere in piedi il cencioso e clientelare assistenzialismo statale che gli consentiva di mantenere il consenso presso le masse diseredate e faceva digerire alla borghesia la società bloccata nella rigidezza poliziesca. Anche le altre primavere arabe hanno avuto lo stesso avvio. Si pone perciò il problema di chi sborserà i soldi per i siriani rimasti e di quanta e quale influenza chiederà in cambio.

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  2. http://www.osservatorioiraq.it/analisi/siria-tutti-gli-uomini-del-presidente

    http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/il-rompicapo-siriano-e-le-implicazioni-regionali-italia-e-libia-comprese-13944

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