È per sottrarsi a questo fato minaccioso che uomini, che, or sono quarant'anni, non vedevano salute che nel libero scambio,
oggi invocano con fervore il protezionismo pur tentando mascherarlo coi nomi di «commercio leale» e di reciprocità di tariffe.
Alla fine il trade deal USA-Cina non è andato in porto, e comunque non sarebbe stata che una tregua. Le avvisaglie sono state quei inaspettati cedimenti americani sulla vitale questione della proprietà intellettuale, annunciati a fine aprile. Una finta, in realtà si chiedeva che la Cina ammettesse implicitamente il furto e l' hackeraggio di brevetti USA. I cinesi si sono incazzati e hanno fatto saltare il banco. A me sembra che sia una prova di forza dei cinesi che forse ipotizzano di ridiscutere la questione con un altro presidente americano.
La risposta dura su Huawei degli americani e poi in controrisposta la svalutazione dello yuan, unitamente ad una asta di obbligazioni 10 anni americane andata vuota, hanno definitivamente chiuso la trattativa. In seguito a questo anche l' apertura di un fronte europeo dei dazi da parte di Trump è rimandata, questa è una buona notizia per gli europeisti.
Si chiude con questo articolo tratto dall' ultimo numero on line di n+1, il sito è quinterna.lab. Trovo che la rivista, radicata nelle vicende della sinistra comunista italiana, sia un ottimo punto di vista per guardare al nostro complicatissimo presente, gravido di difficoltà come di possibilità. Devo dire che a volte vi trovo un uso disinvolto del marxismo, ma fa niente. Preziosa la visione di insieme che si offre, in particolare di una politica che letteralmente non gliela fa più a starci dietro.
Nella migliore delle ipotesi l'inconsistente anticapitalismo odierno
si basa su di una critica morale a una cattiva ripartizione del reddito.
L'operaio sarebbe sfruttato perché pagato "poco". Subito dopo, nella
corrente scala dei valori, viene la teoria del cosiddetto attacco
padronale: il capitalismo sarebbe un sistema taroccato per avvantaggiare
i capitalisti a spese dei lavoratori. C'è chi dice, addirittura, che
siccome nella formula del saggio di profitto il capitale costante e
quello variabile (impianti e salari) sono al denominatore di una
frazione, i capitalisti tramerebbero a favore della guerra generale, in
modo da riequilibrare il sistema distruggendo capitale e ammazzando
operai.
Ora, è senz'altro vero che una guerra generalizzata potrebbe
rigenerare il capitalismo per qualche anno, ma attribuire una catastrofe
del genere alla volontà dei capitalisti ci sembra davvero eccessivo.
Far ripartire un ciclo economico pilotando la società verso la guerra
significherebbe avere una padronanza del sistema che la borghesia non
ha. Le implicazioni sistemiche complesse che entrerebbero in gioco nel
caso di una guerra planetaria non sono controllabili da una borghesia
che non ha una teoria riguardo al proprio modo di produzione. Essa
procederebbe alla cieca, come nel caso della Seconda Guerra Mondiale o
come nel caso della Terza che è in corso da anni. Quindi la guerra, in
teoria auspicabile per la salute del capitale, in pratica non sarebbe
risolutiva. Anche perché la guerra d'oggi non è più basata sull'enorme
dispiegamento di forze distruttive ma su reti capillari di informazione e
disinformazione che muovono una specie di cruentissima guerra civile
generalizzata.
D'altronde, se fosse anche distruttiva come quella del
1939-40, non riuscirebbe a mettere in moto tanto capitale quanto ne
servirebbe: abbiamo visto più volte che, in termini di valore, i beni
materiali esistenti sono una piccola parte dei capitali che circolano
sotto le varie forme più o meno speculative. Nel mondo capitalistico il
"lavoro morto" domina il "lavoro vivo" in percentuali che, tradotte in
cifre, la mente umana non riesce nemmeno ad afferrare. Di fatto,
semplicemente non è possibile raggiungere un ammontare di investimenti
produttivi che si avvicini alle cifre normalmente citate quando si parla
di crisi, debito pubblico, Prodotto Interno Lordo, capitalizzazione di
borsa, finanziarizzazione. Di fronte a un mondo in cui circola capitale
fittizio che si conteggia ormai a quadrilioni di dollari (milioni di
miliardi), gli investimenti e i profitti nell'industria o nei servizi,
che si calcolano in centinaia di miliardi, sono quasi patetici.
C'è un risvolto politico che dovrebbe preoccupare i capitalisti e i
loro rappresentanti dello stato, ed è la distanza che separa sempre di
più la popolazione dal potere centrale. Se si toglie tutto a una
popolazione, dal lavoro alla possibilità di riprodursi in un ambiente
artificiale connaturato al sistema dei consumi, può scattare
l'indifferenza. Già di per sé negativa per un sistema che ha bisogno di
essere amato, celebrato e ubbidito, essa potrebbe essere il primo
gradino verso la ribellione.
In uno dei soliti sondaggi è risultato che la metà dei giovani
americani sarebbe contro il capitalismo. Sarà vero, ma quello che non si
sa è ciò che vorrebbero al suo posto. Risponde in vece loro The Economist (17 novembre, The next capitalist revolution)
che riporta la notizia: occorre ritornare a un sano capitalismo di
concorrenza; quello attuale è arrivato a un tale grado di aberrazione
monopolistica che fra poco non funzionerà più. Dal 1997 a oggi
l'industria americana si è infatti centralizzata per due terzi, mentre
il 10% dell'economia è costituito da grandi aziende che controllano due
terzi del mercato. Normalmente la centralizzazione avviene quando il
saggio di profitto è in pericolo, ma la situazione di monopolio di
alcune aziende soprattutto dei comparti tecnologici ha invece portato i
profitti a salire del 76% in confronto alla media degli ultimi 50 anni
(profitti/PIL).
The Economist calcola che la globalizzazione possa ancora
stimolare la concorrenza, ma ammette che le cifre in gioco sono basse,
anche se per alcune grandi aziende sono alte. I profitti del comparto
tecnologico ammontano a 660 miliardi di dollari, il 66% dei quali
realizzato negli Stati Uniti. Se facciamo il confronto con le cifre di
cui sopra, vediamo che l'economia di produzione-distribuzione-consumo è
una quota veramente sproporzionata rispetto a quella del capitale
fittizio, tanto che sarebbe difficile usare i dati complessivi per
inventare un qualsiasi discorso sul futuro del capitalismo. Si capisce
dunque come mai la metà dei giovani americani, dopo aver ammesso che non
ama il capitalismo non ci faccia sapere che cosa vorrebbe al suo posto.
È probabile che non ce lo faccia sapere non tanto perché non lo sa,
quanto perché non potendo ancora pensare a una anticapitalistica società
futura, non può assolutamente immaginare una ennesima edizione del
capitalismo, nemmeno "rinnovato" riformisticamente. In effetti la
gioventù americana ha già inviato qualche segnale. L'effimero movimento
Occupy Wall Street un programma l'aveva: voltare le spalle alla società
dell'uno per cento. Non voleva il miglioramento di questa società, ne
voleva un'altra, anche se al momento sapeva descriverla solo come
negazione di questa.
Adesso il confine è più vicino di quanto non fosse nel 2011. Siamo
infatti a una fase pre-agonica del capitalismo. I suoi parametri
fondamentali non funzionano più. Nonostante il denaro non costi che
qualche cifra con lo zero virgola per cento, l'industria non investe. La
quota del lavoro operaio sui cicli di produzione, quindi sul PIL, sta
diminuendo senza che altro lavoro produttivo lo sostituisca, ad esempio
nei servizi vendibili. I monopoli, incontrastati, hanno ridotto ai
minimi termini la popolazione che produce plusvalore, condannandosi al
disastro. In questo clima, si affacciano sulla scena due miliardi e
mezzo di persone, solo in Cina e India, che aspirano a un livello di
vita pari a quello occidentale e scopriranno molto presto che non è
possibile.
Può darsi che il capitalismo riesca a salvarsi ancora una volta, ma
non sarà più sé stesso e comunque non ritornerà più ai tempi della sua
marcia trionfale. Siamo in terra di confine e i segnali sono assai
potenti. Questo non-capitalismo che sta lasciando blaterare i suoi
emissari (in questo caso, non troppo stranamente americani e inglesi)
sulla ricomposizione sociale della quota lavoro nelle fabbriche e
sull'azionariato operaio, non offrirà loro alcuna possibilità. Le loro
parole non valgono nulla: il liberismo è già stato provato all'inizio
dell'ascesa e ripresentatosi oggi in veste neoliberista ha combinato
disastri; il riformismo è morto per inadeguatezza storica; il fascismo
ha introdotto la socializzazione corporativa ma alla lunga non ha
guidato il capitale; il keynesismo ha tentato la carta del
liberalfascismo; insomma, la borghesia ha provato di tutto e adesso non
ha più risorse salvifiche. The Economist, con il piglio
ottimistico fuori luogo da sempre, accenna al ruolo dei sindacati. Se la
sbriga in fretta perché non può evocare adesso lo stretto legame che
c'è stato con il fascismo. E riduce tutto alla ripartizione: non è
"giusto" che l'operaio sia retribuito così poco. Oltretutto è anche
antieconomico, abbassa i consumi.
Sono molto d’accordo con l’apertura dell’articolo, e anche con il fatto che non sono i capitalisti a volere/gestire la guerra (molto più complessa la faccenda). Per quanto riguarda la “formula del saggio di profitto”, sono meno d’accordo: essa agisce eccome nella lotta per la spartizione del plusvalore e dunque nella lotta per l’egemonia in generale. Sono d’accordo con te: un uso disinvolto del marxismo. Non distinguono bene cioè che appartiene alla sfera della circolazione e ciò che invece appartiene alla sfera della produzione (sia pure “immateriale”). Dire che “investimenti e i profitti nell'industria o nei servizi, si calcolano in centinaia di miliardi e sono quasi patetici” è una sciocchezza. Poi però fanno marcia indietro e parlano di “capitale fittizio”. Che il capitale finanziario sia predominante non ci piove, ma almeno formalmente, come castello di carta, esso trova base e giustificazione in quello produttivo. Forse non ho ben capito o c’è apodittica approssimazione in certe loro affermazioni. Ad ogni modo grazie della segnalazione, da seguire.
RispondiEliminanon mi pare ci sia il solito patetico tentativo di superarela legge del valore-lavoro
Eliminacondividiamo tutti il concetto che la finanziarizzazione sia necessaria a sostenere -abbreviando i tempi, ottimizzando l'uso del capitale circolante- un accumulazione che ha ritorni per lo più insoddisfacenti (tempo di ritorno del capitale investito, l' uso del cash flow nel trading di breve, i buy-back ecc)
la riproduzione allargata fa di ogni fattore e segmento di produzione un fattore di incremento dell' accumulazione da non trascurare, anche se la dinamica complessiva non si scosta di una virgola dalla centralità del lavoro-merce
comunque anche a me non è piaciuta la spiegazione basata sulla sproporzione quantitativa tra capitale fittizio e produttivo, anche se si rimanda intrinsecamente "alla miserabile base" ecc
il capitale è un rapporto sociale che produce instabilmente valore e plusvalore, mica cartamoneta
ottima osservazione, la dinamica complessiva non si scosta di una virgola dalla centralità del lavoro-merce
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