mercoledì 24 febbraio 2016

El rentismo bolivariano

lavoro sociale astratto

Il Venezuela vive una durissima quaresima: scarsità alimentare, inflazione nel 2015 al 140%, quota di farmaci al 20% del necessario, PIL in contrazione del 7%, debiti internazionali da pagare quest'anno pari a circa la metà delle riserve totali in valuta, nella capitale il più alto tasso di omicidi al mondo. Una crisi economica e politica in cui il chavismo, erede della tradizione populista-bolivariana che tanto piace in Sud-America, non ci esce proprio bene. Al tracollo delle entrate petrolifere si aggiungono la proliferazione di ampi strati di ceti parassitari e un paternalismo statale che immobilizza lo sviluppo interno della società civile, aspetti che possiamo bene associare, cambiando alcuni termini, al Medio-Oriente ma anche in parte a noi. Segue il primo capitolo di un interessante studio, reperibile in rete, sullo stato-rentier venezuelano scritto appena prima del momento in cui la bonanima di Chavez si apprestava a lasciare i terzomondisti di tutto il mondo in lacrime e orfani del loro leader.---

Dagli anni Venti del secolo scorso si ripete inconfutabilmente che «il Venezuela è, non sappiamo se fortunatamente o disgraziatamente, petrolio». In effetti, questo «è stato, è e, nel futuro prevedibile, continuerà ad essere il tema fondamentale della vita venezuelana». Non c’è alcun aspetto della politica, dell’economia e della società di questo Paese che non sia direttamente o indirettamente condizionato da un fatto così semplice e allo stesso tempo così cruciale. Inoltre, conviene precisare sin d’ora che, nel caso della Repubblica bolivariana, quando parliamo di petrolio non ci riferiamo semplicemente alla risorsa per eccellenza e imprescindibile del modello di sviluppo e di civiltà mondialmente dominante, ma parliamo del maggiore produttore petrolifero dell’emisfero occidentale e tra i primi a livello globale per riserve comprovate, estrazione e capacità esportatrice.


Le caratteristiche del «capitalismo rentier» e del «petrostato», con la sua peculiare «cultura paternalista e del miracolo» che sembra germogliare spontaneamente dal «corpo naturale» della nazione, sono state largamente analizzate dalla letteratura specializzata. Causa ed effetto allo stesso tempo, il complesso e multidimensionale fenomeno del «rentismo petrolifero» ha dato così origine a un rosario di eufemismi come «malattia olandese» o, sicuramente più appropriato per il tropico, «malattia neocoloniale», «maledizione delle risorse naturali», «paradosso dell’abbondanza», «crescita che impoverisce» e «malsviluppo», configurando un «sottosviluppo atipico» o una «categoria peculiare del sottosviluppo mono-esportatore». «Seminare il petrolio», d’altro canto, sin dal lucido ammonimento di Arturo Uslar Pietri nel 1936, è diventato un imperativo redentore ma sfortunato, rivelandosi nella pratica un mantra rituale e seduttore probabilmente inerente all’«ethos rentista» e all’«irrazionalità dell’identità venezuelana», ed allo stesso tempo un’improbabile e frustrante via di fuga contro la paradossale condanna inflitta dall’«escremento del diavolo». In sintesi, «Le conseguenze del predominio del modello rentier nella dinamica economica, sociopolitica, culturale, istituzionale del Paese sono state profonde, contraddittorie e distinte». In cosa consiste essenzialmente il «rentismo»?

In termini politici, si configura sostanzialmente come un modello di relazioni clientelari che si nutre e sostenta della rendita (in spagnolo appunto «renta») che uno Stato capta dal mercato mondiale. Un modello spesso accompagnato da pratiche assistenziali-ste e paternaliste che si sposano bene con stili e metodi di governo populisti o autoritari. Semplificando, questa dinamica perversa e potenzialmente distruttiva è generata dal potere e dall’apparente libertà che la rendita petrolifera, essendo un’entrata economica legata a un bene estratto e non prodotto il cui valore commerciale è fissato dal mercato mondiale, dà allo Stato per distribuirla senza esigere contropartite particolarmente onerose. La dimensione della rendita e la capacità di distribuzione rappresenterebbero quindi i limiti più importanti che affrontano i suoi gestori. 

Lo «Stato magico» nasce in queste condizioni, e così le sue qualità miracolose e l’ipertrofica corte burocratica con il conseguente centralismo, corruzione, verticalismo, improvvisazione, clientelismo e inefficienza. È qui che il ruolo dello Stato venezuelano prende storicamente forma «come elemento istituzionale chiave nel controllo della rendita petrolifera» o, in altri termini, come epicentro della lotta di classe che ruota attorno alla proprietà del petrolio e all’appropriazione della rendita. Le relazioni quanto mai complesse tra la proprietà e la gestione nazionale, straniera o mista delle risorse strategiche non rinnovabili, nella cornice di un sistema mondiale capitalista dipendente dal petrolio, formano parte integrale, probabilmente il nocciolo, di questa lotta. In termini socioeconomici, oltre a riflettersi in un apparato produttivo insignificante, è stato dimostrato che la dipendenza dal petrolio, e in generale, gli effetti del «rentismo», comportano squilibri macroeconomici strutturali e congiunturali costanti, in particolare nei cicli di prezzi (e relative entrate fiscali) alti. La composizione di classe e la sua relativa cultura politica si definiscono, così, mediante negoziazioni e conflitti per l’accesso e il controllo non solo della rendita, ma anche dei flussi monetari che questa genera o, in sua mancanza, dall’intermediazione parassitaria. Si viene conseguentemen-te a formare un immaginario collettivo di «società ricca», modellato dal consumismo effimero e spendaccione, che genera sistematicamente fenomeni di corruzione e scarsissima produttività ed efficienza del lavoro.

In quest’ottica, Víctor Álvarez ha parlato di un «genoma economico del capitalismo rentier […] portatore di potenziali patologie che è necessario comprendere per tenerle sotto controllo». La questione, tuttavia, potrebbe non esser radicata tanto nella comprensione di queste patologie, che nella pratica sono ampiamente conosciute dagli specialisti, quanto, essendo «disfunzioni» di cui centinaia di migliaia di venezuelani hanno beneficiato, spesso in modo fraudolento, persino sotto la bandiera e gli attuali slogan del socialismo del Ventunesimo secolo, nella volontà e capacità politica di tenerle sotto controllo. Uno degli errori più gravi commessi da alcuni dei più importanti e onesti dirigenti chavisti, con il loro ex-leader in testa, nel periodo 2003-2008 – cioè della prima alluvione di petrodollari di questo secolo – probabilmente è stato quello di considerare il progetto bolivariano pressoché immune da queste patologie, confidando ciecamente nell’etica e nella coscienza rivoluzionaria del «bravo pueblo» e nella sua capacità di raccogliere, dalla sera alla mattina, gli improbabili frutti di una frenesia distributiva, rifondatrice e modernizzante.

Per quanto forse ovvio, non riteniamo comunque inutile insistere sul fatto che le relazioni tra l’industria del petrolio, lo Stato e la società civile non costituiscono solamente un angolo privilegiato e imprescindibile per l’osservazione analitica delle dinamiche interne del Venezuela, bensì sono di cruciale importanza per comprendere la sua posizione nel sistema mondiale, il dispiegarsi della sua politica estera, la sua partecipazione ai progetti d’integrazione regionale e di cooperazione internazionale. La «variabile energetica», in altre parole, sembrerebbe in realtà il quid che condiziona, quando non determina, le sue priorità e obiettivi, l’intrinseca sostenibilità e, soprattutto, lo status e il modus delle relazioni del Paese nell’arena internazionale. Se da un lato lo stretto legame tra la condizione di potenza energetica e la posizione assunta nelle relazioni politiche ed economiche internazionali – il vincolo con gli Usa, le grandi compagnie petrolifere o, per esempio, la partecipazione nell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec) – è assolutamente naturale e logico, sebbene non per questo libero da ambiguità e contraddizioni, dall’altro non sono meno rilevanti le interferenze del modello rentier nella formulazione e, soprattutto, nell’agire della politica estera.

Quanto appena detto, intimamente legato alle oscillazioni – non necessariamente rotture – sul piano economico di politica interna, ha conferito all’azione internazionale del Venezuela un carattere in un certo senso discontinuo e irregolare: al di là di un’affabulante retorica continuità, organicità ed efficacia operativa sono state spesso assenze vistose. Per questo, anche quando non sono definite e delimitate in modo univoco, formule vecchie e nuove, come «diplomazia petroliera» o «petrodiplomazia», «petrocooperazione» o «cooperazione a base rentier», esprimono correttamente certe caratteristiche strutturali e pratiche ricorrenti che, con relativa indipendenza dal governo al potere, sono riscontrabili nella politica estera venezuelana.

Ai fini della nostra analisi è utile segnalare un ulteriore aspetto. Ci riferiamo al ruolo che il fattore petrolio e, ancora una volta, il «rentismo», giocano nella definizione di una politica estera orientata all’integrazione regionale. In questo caso, balza agli occhi un’ambivalenza e, come vedremo, una discontinuità abbastanza forte tra il periodo precedente al progetto bolivariano e l’attuale. Ciò è probabilmente connesso alla relazione storica tra il rachitico settore imprenditoriale venezuelano e lo Stato. D’altro canto, le concezioni e le politiche che si riferiscono alla funzione di quest’ultimo nella proprietà e gestione del settore petrolifero sono sicuramente un altro fattore determinante. Dal simultaneo manifestarsi di questa duplice spinta ne viene fuori un continuo oscillare tra un’integrazione regionale pensata in funzione della diversificazione economica nazionale in termini di merci e mercati e un’integrazione funzionale al potenziamento dei vantaggi del Venezuela nel settore degli idrocarburi che rafforza la condizione di Paese monoproduttore «importatore di tutto».

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