Nel tentativo di verificare sul campo le migliori analisi teoriche sulle modalità con cui il Capitale tende ad espandere in continuazione la propria base ri-produttiva, sia in estensione che in intensità, oggi esamino un fenomeno che in Europa fu tipico, ma non lì confinato, dell' epoca dell' accumulazione originaria: l' enclosure delle terre, qui nella peculiare formulazione che assume oggi, ma non da oggi, nel continente nero. Collaterale al cambio di proprietà, la risposta di chi ci smena da questo processo sembrerebbe non cogliere l' inevitabilità della concentrazione dei mezzi di produzione agricola, la creazione di uno sfruttamento economico di scala. Non uso per metodo l' analogia storica ma anche qui, oggi, la protesta -con ONG occidentali come speaker, forse anche proprio grazie a questo- parrebbe essere condotta in nome degli interessi della comunità contadina e pastorale -storicamente radicata contrapposta al Capitale; quella comunità che sovente contiene già la struttura, differita nel tempo e quindi poco appariscente, che porta al suo proprio tramonto, magari accelerato da mani forestiere.
Di seguito un' ottima analisi di Giuliano Martiniello sul fenomeno di espropriazione delle terre - pubblicata sull' ultimo numero di Limes dedicato alla questione africana. Contesto all' autore solo una aspettativa un pò astratta circa il Diritto, da quello locale a quello internazionale.---
Di seguito un' ottima analisi di Giuliano Martiniello sul fenomeno di espropriazione delle terre - pubblicata sull' ultimo numero di Limes dedicato alla questione africana. Contesto all' autore solo una aspettativa un pò astratta circa il Diritto, da quello locale a quello internazionale.---
1. L’8 APRILE 2012, NEL DISTRETTO RURALE di Amuru nell’estremo Nord dell’Uganda, al confine con il Sud Sudan, è scoppiata una veemente protesta, guidata da un nutrito gruppo di donne. A scatenarla, il tentativo del governo di Kampala e della compagnia Sugar Works di avviare i lavori per una piantagione di canna da zucchero di circa 40 mila ettari. Storie analoghe si sono moltiplicate negli ultimi anni, non solo in Africa, spingendo ong internazionali, gruppi di monitoraggio per i diritti umani, organizzazioni di comunità e movimenti sociali a denunciare l’ondata di acquisizioni di terra su larga scala, definendole in termini negativi come «land grabbing». Dall’altro lato della barricata, Stati e istituzioni finanziarie internazionali classificano invece questo processo come un’opportunità di sviluppo, tracciando linee guida non vincolanti per favorire forme di «investimento responsabile».
I media internazionali hanno avuto il merito di aver attirato l’attenzione su temi scottanti come le espropriazioni della terra, le devastazioni ambientali, la sovranità alimentare e la gestione delle risorse idriche. Tuttavia, essa ha contribuito a costruire una narrazione ipersemplificata che impedisce di cogliere la storicità e le specificità del fenomeno delle acquisizioni territoriali.
Nel calderone del land grabbing sono finiti numerosi processi diversi fra loro. Alcuni studiosi hanno rilevato la mancanza di rigore metodologico nello studio del fenomeno e una generalizzata inflazione della sua portata: esiste infatti una discrepanza notevole tra il numero di acquisizioni di terra ufficialmente registrate e la loro effettiva mise en valeur. All’origine di questo iato ci sarebbero problemi burocratici e legislativi, le difficoltà e i rischi intrinseci negli investimenti nel settore agricolo e i conflitti sociali generati dalle trasformazioni indotte dagli investimenti stessi. È esemplare il caso di Procana, un irrealistico investimento multimilionario del Brasile in Mozambico in piantagioni di canna da zucchero su circa sei milioni di ettari, osteggiato dalle comunità locali che ne hanno impedito l’implementazione. In controtendenza con l’idea del land grabbing come manifestazione di un neocolonialismo rampante, i recenti investimenti commerciali nell’agroalimentare si sono mostrati vulnerabili alle difficili condizioni agroecologiche dei territori interessati, in cui intervengono fattori come le mutevoli tendenze del mercato e le specificità della politica locale. Resta, tuttavia, una costante: la perdita di pascoli, terra arabile, foreste e risorse idriche pesa sulle popolazioni locali. Anche se questi investimenti creano benefici di cui si avvantaggiano specifici gruppi locali, spesso i progetti terrieri sono indifferenti alle questioni della legalità e della relativa (in)formalità dei contratti.
Sarebbe però fuorviante citare le difficoltà dei progetti per negare la portata e le implicazioni del processo delle acquisizioni di terra. La Banca mondiale ha stimato che nel 2009, soltanto in Africa, circa 45 milioni di ettari di terra – gestita in precedenza attraverso ordinamenti fondiari consuetudinari – sono stati acquisiti e sottratti al controllo delle comunità locali. Gli investitori globali riservano una grande attenzione alle opportunità d’investimento ad alti tassi di redditività che offre la terra in Africa: si pensa infatti che il continente ospiti il 75% delle risorse fondiarie inutilizzate di tutto il mondo, circa 200 milioni di ettari.
Il prisma del capitale globale riproduce un’immagine distorta del continente africano come tabula rasa. La terra viene classificata come asset inutilizzato, scarsamente utilizzato o non abitato. In questo modo, le istituzioni internazionali finiscono per reificare le costruzioni coloniali imperniate sul principio della terra nullius, utilizzato nel diritto internazionale per descrivere un territorio che, non appartenendo a nessuno, poteva essere reclamato dalla nazione europea che lo occupasse per prima. Spogliata delle sue dimensioni sociali, territoriali, storiche e culturali, la terra diviene oggetto dell’appetito delle corporation transnazionali che operano nel settore dell’agribusiness, di speculatori, broker, trader, holding d’investimento e grandi compagnie estrattive. Per non parlare della dimensione locale, con élite nazionali e apparati militari che la gestiscono in modo patrimonialistico.
2. Sia la narrazione che legittima il land grabbing sia quella che vi si oppone soffrono dunque di grossi limiti. La prima è vittima di una visione armonica dei programmi di investimento, concepiti come portatori di occupazione, infrastrutture e tecnologie. E pertanto tende a negare le nefaste conseguenze sociali e ambientali di questi giganteschi interventi. La seconda, a sua volta, soffre di un’interpretazione manichea dei processi di accaparramento della terra e costruisce la sua trama sul dualismo tra capitale e piccoli produttori, sulla falsariga delle precedenti costruzioni binarie colonizzato-colonizzatore e carnefice-vittima. Ha inoltre il difetto di presentare il fenomeno come una novità, senza menzionare le preesistenti fratture generazionali, di genere, di classe ed etniche nelle comunità rurali. Lungi dall’essere un fenomeno nuovo, il land grabbing ha profonde radici storiche che s’intrecciano con questioni come la schiavitù e il colonialismo.
La narrazione egemonica sul land grabbing tende a caratterizzarlo come una «reazione» al rincaro dei prezzi dei beni agricoli di base da parte dei paesi emergenti – Cina, India, quelli del Golfo, ma non solo – non autosufficienti dal punto di vista alimentare e con popolazioni in crescita. Tale aumento avrebbe spinto questi attori a una corsa per aggiudicarsi il controllo di vaste aree di terra arabile. Quest’interpretazione, che ha primeggiato nel panorama accademico, offre una prospettiva epifenomenica del processo e ne ignora le ramificazioni storiche e la portata sistemica. Il land grabbing va piuttosto visto come saldatura tra varie crisi, da quelle finanziarie a quelle energetiche, fino a quelle alimentari. Philip McMichael, per esempio, lo colloca all’interno delle più ampie trasformazioni del regime alimentare internazionale, del crescente intervento del capitale finanziario in quest’ambito, della «meatification» delle diete e dell’avvento dell’economia delle biomasse.
Imprese monopoliste e potenze mondiali si fronteggiano così in una serrata competizione geopolitica e geoeconomica per la terra e le risorse naturali africane, in una nuova manifestazione dello «scramble for Africa». I suoi precedenti vanno dai piani di aggiustamento strutturale alla finanziarizzazione delle economie nazionali governata dal debito degli anni Ottanta; dalle privatizzazioni di imprese statali e proprietà comunitarie alla silenziosa concentrazione di terra nelle mani di capitale nazionale e straniero degli anni Novanta; dalle guerre per procura nella regione dei Grandi Laghi agli interventi «umanitari» di ex potenze coloniali in territori cruciali nello scacchiere geopolitico continentale (Costa d’Avorio e Libia).
Dopo il decennio della monopotenza statunitense (1990-2001), il (dis)ordine mondiale si muove verso una fase caratterizzata da un accentuato scontro multipolare che spinge il mondo capitalistico verso un instabile caos sistemico. La regione dei Grandi Laghi e l’Africa orientale in generale sono uno degli epicentri di queste contraddizioni geopolitico-economiche. Qui si registra il più alto numero di acquisizioni di terra su larga scala, con un ventaglio di attori coinvolti che va dai paesi occidentali ai Brics, più qualche altro emergente. Insieme, cresce la militarizzazione dell’area, rubricata come «lotta al terrorismo», soprattutto per mano di Africom, il comando regionale statunitense i cui contingenti sono dispiegati in vari paesi (Uganda e Gibuti per fare un esempio). [E non a caso nel Sud Sudan ci sono anche i soldati cinesi, unico caso di dislocazione di truppe regolari fuori dai confini dell Impero di Mezzo, nota mia]
Sarebbe tuttavia un grave errore ritenere il land grabbing un fenomeno che riguarda esclusivamente il capitale estero. Troppo spesso si trascura il ruolo delle élite e dei capitali nazionali, nonché l’esistenza di altri importanti attori e moventi di carattere politico, che si servono delle appropriazioni di terra a fini strategici. In particolare, occorre sondare il ruolo dello Stato nelle sue varie incarnazioni: locali, regionali, nazionali. L’esempio proveniente dal distretto di Amuru in Uganda menzionato in avvio rappresenta un punto d’ingresso privilegiato per dissodare ulteriormente il terreno attorno al land grabbing.
Per il governo e la classe politica nazionale, le vaste appropriazioni terriere sono un modo per innescare vantaggi comparati nella produzione di beni selezionati. Nonché per carpire le opportunità di guadagno del recente – ma congiunturale – rincaro [oggi piuttosto scemato, nota mia] del prezzo delle derrate agricole. Nel linguaggio governativo, le acquisizioni di terra promuovono occupazione, generano infrastrutture e gettito fiscale, mentre le dislocazioni e gli sgomberi che spesso ne derivano sono il prezzo da pagare per garantire la modernizzazione agricola del paese. Nelle parole del presidente ugandese Yoweri Museveni in un discorso del 2012: «Le iniziative agricole su grande scala operate dall’agribusiness e da alcuni grandi e medi produttori nazionali sono la via maestra per usufruire dei vantaggi offerti dall’attuale fase economica. Ogni piantagione di canna da zucchero è un pozzo di petrolio».
In quest’ottica, l’allocazione di 40 mila ettari di terra nel distretto di Amuru alla compagnia Kakira Sugar Works da parte del governo ugandese risponde a un duplice scopo. Primo, stimolare un preciso modello di produzione e sviluppo battendo il ferro dei vantaggi comparati finché caldo. Secondo, sfruttare il monopolio della ripartizione della terra come modo per creare e mantenere network clientelari politico-economici. Non è un caso che il distretto di Amuru sia stato uno degli epicentri delle espropriazioni statali. Sfruttando l’assenza della popolazione – internata in campi di accoglienza in seguito alla ventennale guerra civile tra il National Resistance Movement, diverse formazioni ribelli e altri movimenti politici di carattere etnico – il governo ha illegalmente [?] allocato larghe porzioni di terra fertile a un gruppo ristretto di produttori commerciali, ufficiali militari, leader politici e familiari.
La natura clientelare dell’accordo si evince anche da un’altra circostanza. Al bando emesso dal governo ugandese per lo stabilimento della piantagione di canna da zucchero e dei relativi impianti di raffinazione e produzione di biomassa o elettricità «verde» aveva risposto anche una compagnia canadese, la Nilecan. L’offerta di quest’ultima era persino risultata migliore, sia dal punto di vista finanziario sia in termini di occupazione e impatto sulle popolazioni locali. Ciononostante, il governo ugandese ha deciso di premiare la proposta della Kakira Sugar Works, di proprietà del gruppo Madhvani, una corporation transnazionale il cui portafoglio d’investimenti include settori quali energia, agribusiness, turismo, costruzioni, assicurazioni.
Le motivazioni di questa scelta mettono in luce le relazioni preferenziali tra lo Stato e la classe di affaristi di origine indiana residenti in Uganda – tra cui figura appunto il gruppo Madhvani. Insediatisi nella parte orientale e meridionale del continente, insieme a migliaia di lavoratori migranti indiani nelle piantagioni e nelle miniere, in epoca coloniale essi avevano giocato un ruolo fondamentale nel lubrificare gli ingranaggi dell’estrazione di valore. La nascente classe mercantile e poi proprietaria indiana si è consolidata nel periodo successivo all’indipendenza, offrendosi non solo come intermediario chiave nelle transizioni commerciali, ma anche come partner privilegiato del governo nei settori agroalimentare e manifatturiero.
Espulsi dall’Uganda nel 1972 dal dittatore Idi Amin Dada, che ne aveva confiscato beni e proprietà, i Madhvani sono stati reintegrati a cavallo degli anni Ottanta e Novanta con l’ascesa del National Resistance Movement di Museveni. Assieme ad altre facoltose famiglie di affaristi, come i Mehta, hanno stretto forti rapporti con il nuovo presidente, finanziando generosamente le sue campagne elettorali. Il patto fra regime e affaristi di origine indiana assicura il sostegno politico dei secondi e, per certi versi, della comunità di lavoratori di origini asiatiche. In cambio, da quando Museveni è al potere, il governo ha elargito 95 milioni di dollari – 68 milioni al gruppo Mehta e 27 al gruppo Madhvani – sotto forma di sostegno ad aziende operanti in settori strategici o di strategie di riduzione della povertà.
Nel caso del distretto di Amuru, la politica delle prebende assolve a un’altra funzione, squisitamente geopolitica. Kampala sembra sfruttare i network politico-economici come strumento per consolidare il controllo e la sorveglianza sul Nord del paese, una regione da sempre avversa alle mire espansive dello Stato, quello coloniale prima e quello indipendente poi. La popolazione locale, gli acholi, è infatti generalmente refrattaria ai tentativi del regime di integrarla nei suoi network di patronage.
4. Al di là della natura fraudolenta dell’allocazione a Kakira Sugar Works dei 40 mila ettari nel distretto di Amuru, e dell’evidente carattere coloniale dell’iniziativa – in affitto per 99 anni a costo zero – altri aspetti relativi alla natura contrattuale dell’accordo meritano di essere messi in rilievo. Quello più intricato riguarda il colpevole silenzio sui termini dell’accesso alle acque del Nilo a fini d’irrigazione. Sul tema, i rapporti tra gli Stati rivieraschi sono già tesi: Etiopia – da cui proviene l’85% delle risorse idriche del fiume – Kenya, Tanzania e Uganda contestano le quote di accesso alle acque del Nilo. Per di più, il governo di Kampala promuove – in teoria per lo sviluppo agricolo del paese, in pratica per scopi privati – forme di appropriazione e privatizzazione delle risorse idriche del paese senza alcuna trasparenza.
Un altro spunto fornito dal caso di Kakira Sugar Works sono le contestazioni e le mobilitazioni sociali innescate dal progetto tra le popolazioni locali. Generalmente percepite in termini omogenei e monocromatici, le comunità rurali tendono invece a caratterizzarsi per le molteplici stratificazioni e differenziazioni sociali che le animano. Nonostante la maggioranza della popolazione delle comunità di Kololo e Lakang abbia rappresentato il nocciolo duro della resistenza al progetto, una frazione di esse – costituita da piccoli amministratori locali, salariati urbani, politici e imprenditori – ha invece cercato a tutti i costi un accordo. Potremmo definirla un’élite rurale, povera di risorse monetarie e accesso al credito, che svende la terra al primo offerente.
La frattura all’interno delle comunità poggia su un’idiosincrasia interpretativa della questione «terra». Per molti, la terra comunitaria non è una merce. La sua allocazione, nell’ambito dei sistemi fondiari tradizionali nel Nord dell’Uganda, non equivale a una cessione in termini di proprietà. Questo ovviamente non significa che non esistano mercati fondiari «vernacolari», derivati cioè della parziale commercializzazione e privatizzazione della terra. Piuttosto, la questione mostra come il regime fondiario consuetudinario, per quanto dominato per molti versi da dinamiche patriarcali, rappresenti un elemento centrale nelle strategie di sostentamento degli aggregati domestici rurali. Appartenere a una comunità significa avere accesso alle risorse della terra, concepita come un bene inalienabile. E un accesso sicuro alla terra, dopo la guerra civile e anni di dipendenza dall’aiuto alimentare, rimane il modo migliore per permettere la riproduzione sociale delle comunità domestiche rurali ed evitare la migrazione verso le città.
5. I conflitti che hanno animato le comunità e gli stessi aggregati domestici dopo la guerra civile sono per certi versi legati a questa divergenza sulla dimensione ontologica della terra. La proprietà privata, infatti, rappresenta un attacco al regime fondiario «tradizionale» perché mina alla base la sua funzione sociale, culturale e politica di gestione e distribuzione della terra. Organismi come la Banca mondiale hanno investito ingenti fondi in campagne mediatiche e di sensibilizzazione sulla formalizzazione dei diritti di proprietà terriera e sul suo ruolo nello sviluppo rurale. L’economista peruviano Hernando de Soto sostiene che sia la mancanza di rappresentazione formale della terra a impedire al capitalismo di svilupparsi nei paesi del Sud del mondo. Secondo de Soto, l’assenza di titoli formali di proprietà dissuade gli investimenti rurali del capitale finanziario e limita la generazione di credito rurale. Alla proprietà privata, questa narrazione ascrive il potere magico di «riportare la vita» in «un bene defunto».
Teorie a parte, la maggior parte dei poveri rurali in Uganda sembra prediligere il regime fondiario tradizionale, visto come unico strumento per garantire sicurezza sociale in un precario contesto post-guerra civile. Nel distretto di Amuru, per esempio, il regime fondiario tradizionale garantisce accesso alla terra al 98% della popolazione. L’emissione di titoli di proprietà formali sulla terra si tradurrebbe, secondo Tim Mitchell della Columbia University, in un trasferimento di ricchezza dalle classi meno abbienti a quelle proprietarie. Il noto africanista Mahmood Mamdani ha messo in luce come le riforme e le appropriazioni della terra in Uganda rappresentino solo un momento nella lunga strategia dello Stato coloniale prima e di quello nazionale poi di colonizzare la società ed estendere la logica del Buganda Agreement a tutto il paese.
Il discorso dello Stato ugandese sulla terra reitera gli argomenti usati per giustificare il land grabbing a livello internazionale. Kampala caratterizza la terra come vuota, non utilizzata o scarsamente utilizzata e si attribuisce il potere di espropriarla. I dispositivi e le tecnologie del potere combinano vecchie e nuove strategie (post)coloniali di divide et impera e di «define and rule» (definisci e governa). Nel caso di Amuru, nonostante l’area fosse stata da sempre abitata da popolazioni acholi, lo Stato centrale l’ha definita di sua proprietà, venendo persino suffragato dal dibattimento processuale. Nell’ultimo grado di giudizio, infatti, si è sostenuto che la terra in oggetto, in quanto vuota e non messa a valore, può essere espropriata dallo Stato a fini di sviluppo, se quest’ultimo lo ritiene necessario.
Per stemperare l’avversione al progetto, il regime di Museveni ha spesso elargito doni ai giovani sotto forma di alcool e tabacco, nel tentativo di cooptare i segmenti sociali che si erano dichiarati contrari all’instaurazione della piantagione in luogo delle loro piccole unità di agricoltura familiare. Quanto alle comunità rurali di Kololo e Lakang, hanno combinato differenti strategie di lotta: legali, simboliche, pacifiche, ma anche proteste e altre forme di organizzazione militante volte a mobilitare il consenso della società civile. Riuscendo, infine, a impedire l’attuazione del progetto.
Alla luce dei successi delle mobilitazioni rurali, il prisma delle lotte di resistenza consente di refutare le letture unilineari delle trasformazioni agrarie innescate dal land grabbing e di costruire analisi delle traiettorie e delle politiche di sviluppo rurale partendo dal basso. Tale affrancamento porta al centro della questione la geopolitica della terra. Se, come suggeriamo, essa rappresenta il terreno di lotta sulle norme e sulle regole che gestiscono il controllo, l’allocazione, la produzione e l’uso delle risorse naturali, e sui valori e le idee che la governano, allora la politica delle comunità rurali incorpora le tensioni che derivano dall’accettazione o contestazione di queste idee e norme. Per arrivare a una più approfondita interpretazione del processo – oltre a realizzare come l’appropriazione della terra sia spesso impiegata dalle élite nazionali a scopi politici – è dunque necessario estendere lo studio del land grabbing oltre il perimetro della politica o dell’economia convenzionale. E sondare il terreno opaco e spesso sotterraneo delle lotte ordinarie e quotidiane delle comunità rurali, dall’aggregato domestico al villaggio.
mappa di Laura Canali per Limes on line
Sarebbe però fuorviante citare le difficoltà dei progetti per negare la portata e le implicazioni del processo delle acquisizioni di terra. La Banca mondiale ha stimato che nel 2009, soltanto in Africa, circa 45 milioni di ettari di terra – gestita in precedenza attraverso ordinamenti fondiari consuetudinari – sono stati acquisiti e sottratti al controllo delle comunità locali. Gli investitori globali riservano una grande attenzione alle opportunità d’investimento ad alti tassi di redditività che offre la terra in Africa: si pensa infatti che il continente ospiti il 75% delle risorse fondiarie inutilizzate di tutto il mondo, circa 200 milioni di ettari.
Il prisma del capitale globale riproduce un’immagine distorta del continente africano come tabula rasa. La terra viene classificata come asset inutilizzato, scarsamente utilizzato o non abitato. In questo modo, le istituzioni internazionali finiscono per reificare le costruzioni coloniali imperniate sul principio della terra nullius, utilizzato nel diritto internazionale per descrivere un territorio che, non appartenendo a nessuno, poteva essere reclamato dalla nazione europea che lo occupasse per prima. Spogliata delle sue dimensioni sociali, territoriali, storiche e culturali, la terra diviene oggetto dell’appetito delle corporation transnazionali che operano nel settore dell’agribusiness, di speculatori, broker, trader, holding d’investimento e grandi compagnie estrattive. Per non parlare della dimensione locale, con élite nazionali e apparati militari che la gestiscono in modo patrimonialistico.
2. Sia la narrazione che legittima il land grabbing sia quella che vi si oppone soffrono dunque di grossi limiti. La prima è vittima di una visione armonica dei programmi di investimento, concepiti come portatori di occupazione, infrastrutture e tecnologie. E pertanto tende a negare le nefaste conseguenze sociali e ambientali di questi giganteschi interventi. La seconda, a sua volta, soffre di un’interpretazione manichea dei processi di accaparramento della terra e costruisce la sua trama sul dualismo tra capitale e piccoli produttori, sulla falsariga delle precedenti costruzioni binarie colonizzato-colonizzatore e carnefice-vittima. Ha inoltre il difetto di presentare il fenomeno come una novità, senza menzionare le preesistenti fratture generazionali, di genere, di classe ed etniche nelle comunità rurali. Lungi dall’essere un fenomeno nuovo, il land grabbing ha profonde radici storiche che s’intrecciano con questioni come la schiavitù e il colonialismo.
La narrazione egemonica sul land grabbing tende a caratterizzarlo come una «reazione» al rincaro dei prezzi dei beni agricoli di base da parte dei paesi emergenti – Cina, India, quelli del Golfo, ma non solo – non autosufficienti dal punto di vista alimentare e con popolazioni in crescita. Tale aumento avrebbe spinto questi attori a una corsa per aggiudicarsi il controllo di vaste aree di terra arabile. Quest’interpretazione, che ha primeggiato nel panorama accademico, offre una prospettiva epifenomenica del processo e ne ignora le ramificazioni storiche e la portata sistemica. Il land grabbing va piuttosto visto come saldatura tra varie crisi, da quelle finanziarie a quelle energetiche, fino a quelle alimentari. Philip McMichael, per esempio, lo colloca all’interno delle più ampie trasformazioni del regime alimentare internazionale, del crescente intervento del capitale finanziario in quest’ambito, della «meatification» delle diete e dell’avvento dell’economia delle biomasse.
Imprese monopoliste e potenze mondiali si fronteggiano così in una serrata competizione geopolitica e geoeconomica per la terra e le risorse naturali africane, in una nuova manifestazione dello «scramble for Africa». I suoi precedenti vanno dai piani di aggiustamento strutturale alla finanziarizzazione delle economie nazionali governata dal debito degli anni Ottanta; dalle privatizzazioni di imprese statali e proprietà comunitarie alla silenziosa concentrazione di terra nelle mani di capitale nazionale e straniero degli anni Novanta; dalle guerre per procura nella regione dei Grandi Laghi agli interventi «umanitari» di ex potenze coloniali in territori cruciali nello scacchiere geopolitico continentale (Costa d’Avorio e Libia).
Dopo il decennio della monopotenza statunitense (1990-2001), il (dis)ordine mondiale si muove verso una fase caratterizzata da un accentuato scontro multipolare che spinge il mondo capitalistico verso un instabile caos sistemico. La regione dei Grandi Laghi e l’Africa orientale in generale sono uno degli epicentri di queste contraddizioni geopolitico-economiche. Qui si registra il più alto numero di acquisizioni di terra su larga scala, con un ventaglio di attori coinvolti che va dai paesi occidentali ai Brics, più qualche altro emergente. Insieme, cresce la militarizzazione dell’area, rubricata come «lotta al terrorismo», soprattutto per mano di Africom, il comando regionale statunitense i cui contingenti sono dispiegati in vari paesi (Uganda e Gibuti per fare un esempio). [E non a caso nel Sud Sudan ci sono anche i soldati cinesi, unico caso di dislocazione di truppe regolari fuori dai confini dell Impero di Mezzo, nota mia]
Sarebbe tuttavia un grave errore ritenere il land grabbing un fenomeno che riguarda esclusivamente il capitale estero. Troppo spesso si trascura il ruolo delle élite e dei capitali nazionali, nonché l’esistenza di altri importanti attori e moventi di carattere politico, che si servono delle appropriazioni di terra a fini strategici. In particolare, occorre sondare il ruolo dello Stato nelle sue varie incarnazioni: locali, regionali, nazionali. L’esempio proveniente dal distretto di Amuru in Uganda menzionato in avvio rappresenta un punto d’ingresso privilegiato per dissodare ulteriormente il terreno attorno al land grabbing.
3. In Uganda, tra il 2008 e il 2010 gli accaparramenti di terra su grande scala per mano d’investitori stranieri hanno raggiunto il 14,6% dell’intera area coltivabile. L’ondata di «enclosures» si è manifestata in varie forme: produzione di colture (soia, riso, olio di palma e canna da zucchero) e di biocarburanti per l’esportazione per mano di corporation transnazionali dell’agribusiness; allevamento di bestiame da parte di imprenditori nazionali; riserve naturali e di caccia a scopi turistici; schemi di conservazione o di afforestamento; appropriazioni ad opera di alti ufficiali governativi e militari, soprattutto nelle aree di recente interesse petrolifero nel Nord.
Per il governo e la classe politica nazionale, le vaste appropriazioni terriere sono un modo per innescare vantaggi comparati nella produzione di beni selezionati. Nonché per carpire le opportunità di guadagno del recente – ma congiunturale – rincaro [oggi piuttosto scemato, nota mia] del prezzo delle derrate agricole. Nel linguaggio governativo, le acquisizioni di terra promuovono occupazione, generano infrastrutture e gettito fiscale, mentre le dislocazioni e gli sgomberi che spesso ne derivano sono il prezzo da pagare per garantire la modernizzazione agricola del paese. Nelle parole del presidente ugandese Yoweri Museveni in un discorso del 2012: «Le iniziative agricole su grande scala operate dall’agribusiness e da alcuni grandi e medi produttori nazionali sono la via maestra per usufruire dei vantaggi offerti dall’attuale fase economica. Ogni piantagione di canna da zucchero è un pozzo di petrolio».
In quest’ottica, l’allocazione di 40 mila ettari di terra nel distretto di Amuru alla compagnia Kakira Sugar Works da parte del governo ugandese risponde a un duplice scopo. Primo, stimolare un preciso modello di produzione e sviluppo battendo il ferro dei vantaggi comparati finché caldo. Secondo, sfruttare il monopolio della ripartizione della terra come modo per creare e mantenere network clientelari politico-economici. Non è un caso che il distretto di Amuru sia stato uno degli epicentri delle espropriazioni statali. Sfruttando l’assenza della popolazione – internata in campi di accoglienza in seguito alla ventennale guerra civile tra il National Resistance Movement, diverse formazioni ribelli e altri movimenti politici di carattere etnico – il governo ha illegalmente [?] allocato larghe porzioni di terra fertile a un gruppo ristretto di produttori commerciali, ufficiali militari, leader politici e familiari.
La natura clientelare dell’accordo si evince anche da un’altra circostanza. Al bando emesso dal governo ugandese per lo stabilimento della piantagione di canna da zucchero e dei relativi impianti di raffinazione e produzione di biomassa o elettricità «verde» aveva risposto anche una compagnia canadese, la Nilecan. L’offerta di quest’ultima era persino risultata migliore, sia dal punto di vista finanziario sia in termini di occupazione e impatto sulle popolazioni locali. Ciononostante, il governo ugandese ha deciso di premiare la proposta della Kakira Sugar Works, di proprietà del gruppo Madhvani, una corporation transnazionale il cui portafoglio d’investimenti include settori quali energia, agribusiness, turismo, costruzioni, assicurazioni.
Le motivazioni di questa scelta mettono in luce le relazioni preferenziali tra lo Stato e la classe di affaristi di origine indiana residenti in Uganda – tra cui figura appunto il gruppo Madhvani. Insediatisi nella parte orientale e meridionale del continente, insieme a migliaia di lavoratori migranti indiani nelle piantagioni e nelle miniere, in epoca coloniale essi avevano giocato un ruolo fondamentale nel lubrificare gli ingranaggi dell’estrazione di valore. La nascente classe mercantile e poi proprietaria indiana si è consolidata nel periodo successivo all’indipendenza, offrendosi non solo come intermediario chiave nelle transizioni commerciali, ma anche come partner privilegiato del governo nei settori agroalimentare e manifatturiero.
Espulsi dall’Uganda nel 1972 dal dittatore Idi Amin Dada, che ne aveva confiscato beni e proprietà, i Madhvani sono stati reintegrati a cavallo degli anni Ottanta e Novanta con l’ascesa del National Resistance Movement di Museveni. Assieme ad altre facoltose famiglie di affaristi, come i Mehta, hanno stretto forti rapporti con il nuovo presidente, finanziando generosamente le sue campagne elettorali. Il patto fra regime e affaristi di origine indiana assicura il sostegno politico dei secondi e, per certi versi, della comunità di lavoratori di origini asiatiche. In cambio, da quando Museveni è al potere, il governo ha elargito 95 milioni di dollari – 68 milioni al gruppo Mehta e 27 al gruppo Madhvani – sotto forma di sostegno ad aziende operanti in settori strategici o di strategie di riduzione della povertà.
Nel caso del distretto di Amuru, la politica delle prebende assolve a un’altra funzione, squisitamente geopolitica. Kampala sembra sfruttare i network politico-economici come strumento per consolidare il controllo e la sorveglianza sul Nord del paese, una regione da sempre avversa alle mire espansive dello Stato, quello coloniale prima e quello indipendente poi. La popolazione locale, gli acholi, è infatti generalmente refrattaria ai tentativi del regime di integrarla nei suoi network di patronage.
4. Al di là della natura fraudolenta dell’allocazione a Kakira Sugar Works dei 40 mila ettari nel distretto di Amuru, e dell’evidente carattere coloniale dell’iniziativa – in affitto per 99 anni a costo zero – altri aspetti relativi alla natura contrattuale dell’accordo meritano di essere messi in rilievo. Quello più intricato riguarda il colpevole silenzio sui termini dell’accesso alle acque del Nilo a fini d’irrigazione. Sul tema, i rapporti tra gli Stati rivieraschi sono già tesi: Etiopia – da cui proviene l’85% delle risorse idriche del fiume – Kenya, Tanzania e Uganda contestano le quote di accesso alle acque del Nilo. Per di più, il governo di Kampala promuove – in teoria per lo sviluppo agricolo del paese, in pratica per scopi privati – forme di appropriazione e privatizzazione delle risorse idriche del paese senza alcuna trasparenza.
Un altro spunto fornito dal caso di Kakira Sugar Works sono le contestazioni e le mobilitazioni sociali innescate dal progetto tra le popolazioni locali. Generalmente percepite in termini omogenei e monocromatici, le comunità rurali tendono invece a caratterizzarsi per le molteplici stratificazioni e differenziazioni sociali che le animano. Nonostante la maggioranza della popolazione delle comunità di Kololo e Lakang abbia rappresentato il nocciolo duro della resistenza al progetto, una frazione di esse – costituita da piccoli amministratori locali, salariati urbani, politici e imprenditori – ha invece cercato a tutti i costi un accordo. Potremmo definirla un’élite rurale, povera di risorse monetarie e accesso al credito, che svende la terra al primo offerente.
La frattura all’interno delle comunità poggia su un’idiosincrasia interpretativa della questione «terra». Per molti, la terra comunitaria non è una merce. La sua allocazione, nell’ambito dei sistemi fondiari tradizionali nel Nord dell’Uganda, non equivale a una cessione in termini di proprietà. Questo ovviamente non significa che non esistano mercati fondiari «vernacolari», derivati cioè della parziale commercializzazione e privatizzazione della terra. Piuttosto, la questione mostra come il regime fondiario consuetudinario, per quanto dominato per molti versi da dinamiche patriarcali, rappresenti un elemento centrale nelle strategie di sostentamento degli aggregati domestici rurali. Appartenere a una comunità significa avere accesso alle risorse della terra, concepita come un bene inalienabile. E un accesso sicuro alla terra, dopo la guerra civile e anni di dipendenza dall’aiuto alimentare, rimane il modo migliore per permettere la riproduzione sociale delle comunità domestiche rurali ed evitare la migrazione verso le città.
5. I conflitti che hanno animato le comunità e gli stessi aggregati domestici dopo la guerra civile sono per certi versi legati a questa divergenza sulla dimensione ontologica della terra. La proprietà privata, infatti, rappresenta un attacco al regime fondiario «tradizionale» perché mina alla base la sua funzione sociale, culturale e politica di gestione e distribuzione della terra. Organismi come la Banca mondiale hanno investito ingenti fondi in campagne mediatiche e di sensibilizzazione sulla formalizzazione dei diritti di proprietà terriera e sul suo ruolo nello sviluppo rurale. L’economista peruviano Hernando de Soto sostiene che sia la mancanza di rappresentazione formale della terra a impedire al capitalismo di svilupparsi nei paesi del Sud del mondo. Secondo de Soto, l’assenza di titoli formali di proprietà dissuade gli investimenti rurali del capitale finanziario e limita la generazione di credito rurale. Alla proprietà privata, questa narrazione ascrive il potere magico di «riportare la vita» in «un bene defunto».
Teorie a parte, la maggior parte dei poveri rurali in Uganda sembra prediligere il regime fondiario tradizionale, visto come unico strumento per garantire sicurezza sociale in un precario contesto post-guerra civile. Nel distretto di Amuru, per esempio, il regime fondiario tradizionale garantisce accesso alla terra al 98% della popolazione. L’emissione di titoli di proprietà formali sulla terra si tradurrebbe, secondo Tim Mitchell della Columbia University, in un trasferimento di ricchezza dalle classi meno abbienti a quelle proprietarie. Il noto africanista Mahmood Mamdani ha messo in luce come le riforme e le appropriazioni della terra in Uganda rappresentino solo un momento nella lunga strategia dello Stato coloniale prima e di quello nazionale poi di colonizzare la società ed estendere la logica del Buganda Agreement a tutto il paese.
Il discorso dello Stato ugandese sulla terra reitera gli argomenti usati per giustificare il land grabbing a livello internazionale. Kampala caratterizza la terra come vuota, non utilizzata o scarsamente utilizzata e si attribuisce il potere di espropriarla. I dispositivi e le tecnologie del potere combinano vecchie e nuove strategie (post)coloniali di divide et impera e di «define and rule» (definisci e governa). Nel caso di Amuru, nonostante l’area fosse stata da sempre abitata da popolazioni acholi, lo Stato centrale l’ha definita di sua proprietà, venendo persino suffragato dal dibattimento processuale. Nell’ultimo grado di giudizio, infatti, si è sostenuto che la terra in oggetto, in quanto vuota e non messa a valore, può essere espropriata dallo Stato a fini di sviluppo, se quest’ultimo lo ritiene necessario.
Per stemperare l’avversione al progetto, il regime di Museveni ha spesso elargito doni ai giovani sotto forma di alcool e tabacco, nel tentativo di cooptare i segmenti sociali che si erano dichiarati contrari all’instaurazione della piantagione in luogo delle loro piccole unità di agricoltura familiare. Quanto alle comunità rurali di Kololo e Lakang, hanno combinato differenti strategie di lotta: legali, simboliche, pacifiche, ma anche proteste e altre forme di organizzazione militante volte a mobilitare il consenso della società civile. Riuscendo, infine, a impedire l’attuazione del progetto.
Alla luce dei successi delle mobilitazioni rurali, il prisma delle lotte di resistenza consente di refutare le letture unilineari delle trasformazioni agrarie innescate dal land grabbing e di costruire analisi delle traiettorie e delle politiche di sviluppo rurale partendo dal basso. Tale affrancamento porta al centro della questione la geopolitica della terra. Se, come suggeriamo, essa rappresenta il terreno di lotta sulle norme e sulle regole che gestiscono il controllo, l’allocazione, la produzione e l’uso delle risorse naturali, e sui valori e le idee che la governano, allora la politica delle comunità rurali incorpora le tensioni che derivano dall’accettazione o contestazione di queste idee e norme. Per arrivare a una più approfondita interpretazione del processo – oltre a realizzare come l’appropriazione della terra sia spesso impiegata dalle élite nazionali a scopi politici – è dunque necessario estendere lo studio del land grabbing oltre il perimetro della politica o dell’economia convenzionale. E sondare il terreno opaco e spesso sotterraneo delle lotte ordinarie e quotidiane delle comunità rurali, dall’aggregato domestico al villaggio.
mappa di Laura Canali per Limes on line
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.