Se la minaccia dello Stato Islamico (IS) in Tunisia, Egitto e Libia rende critico il panorama geopolitico del Nordafrica, spostandosi poco più a sud nel continente la situazione non appare più rosea. Sahel e Corno d’Africa presentano una pletora di gruppi armati che rinnovano la minaccia terroristica nelle retrovie dell’Africa settentrionale, rendendo la situazione sul terreno sempre più grave e urgente. Boko Haram (BH) in Nigeria e nei paesi della regione del Lago Ciad, Aqim (al-Qaida nel Maghreb Islamico), al-Mourabitoun e Ansar Eddine fra Mali, Niger, Burkina Faso e Costa D’Avorio, al-Shaabab in Somalia e Kenya. Queste le sigle, senza dimenticare l’esercito di reclute pronte al martirio: migliaia di giovani senza lavoro né prospettive che si trovano costretti a scegliere fra l’“avventura” verso l’Eldorado-Fortezza-Europa e le promesse di giustizia, ricchezza terrena e salvezza ultraterrena del jihad contemporaneo. Sullo sfondo, qui come altrove, si staglia la lotta intestina fra al-Qaida e Daesh che rivaleggiano e si contendono il potere perpetuando insicurezza e destabilizzazione di ampie zone del continente che sfuggono al controllo di stati, dispositivi militari stranieri (Francia e Usa, ma non solo) e fallimentari missioni di pace delle Nazioni Unite.
Quella di BH nella regione del Lago Ciad ricca di petrolio e uranio
è, secondo analisti e diplomatici, la minaccia più impellente che
interessa l’Africa subsahariana. Da quando, ad aprile, è stata
ufficializzata l’affiliazione (bay’a) con Daesh e il gruppo guidato da
Abubakar Shekau ha cominciato a firmarsi “Stato Islamico dell’Africa
occidentale”, gli attentati e gli attacchi al di fuori del nord della
Nigeria – in cui BH è nato, nel lontano 2002, e dove ha dichiarato lo
Stato Islamico nell’agosto 2014 – si sono intensificati, a riprova della
rinascita del gruppo armato dopo una battuta d’arresto a metà anno
causata dall’intervento militare dei paesi del Lago Ciad guidati da
Nigeria e Ciad. Muhammadu Buhari, eletto alla presidenza della Nigeria a
marzo, ha dichiarato che a partire da dicembre 2015 non si sarebbe più
sentito parlare di BH. A fargli eco è stato il suo corrispettivo
ciadiano, Idriss Deby che a fine settembre in visita a Niamey aveva
dichiarato “attaccheremo il quartier generale di BH nella foresta di
Sambisa. La faremo finita entro la fine della stagione delle piogge”. Le
piogge hanno smesso di cadere a ottobre. La forza speciale di 8700
uomini promessa dagli incontri internazionali, la Multinational Joint
Task Force (Mjtf) formata dall’élite degli eserciti di Ciad, Niger,
Nigeria, Camerun e Benin, invece, non è ancora stata dispiegata sul
terreno. Il dispositivo anti-BH non è ancora operativo dopo mesi di
preparativi e trattative a causa di scaramucce fra Ciad e Nigeria sul
comando, come raccontano fonti diplomatiche. Le promesse occidentali
(gli Usa hanno già stanziato circa 45 milioni di dollari per l’Mjtf,
oltre ai 300 uomini e ai droni di sorveglianza già dispiegati in Camerun
e a due aerei regalati al Niger) e i programmi di addestramento di
Francia e Usa per gli eserciti locali non bastano a fronteggiare
l’espansione del cancro del neo-jihadismo che moltiplica le metastasi
locali per prepararsi ad attaccare il nemico lontano. Proprio come
Daesh, infatti, la setta guidata da Shekau e le altre formazioni
jihadiste dell’Africa subsahariana portano avanti lotte regionali ma
continuano a utilizzare un discorso anti-occidentale che ha presa su
molti giovani africani convinti che la colpa della corruzione dei propri
governanti risieda in un ordine mondiale da distruggere, quello
neocoloniale imposto dalle potenze straniere.
Non meno complicata e preoccupante la situazione della fascia
saheliana che va dalla Mauritania fino al sud di Algeria e Libia
attraversando il deserto di Mali e Niger. Qui resta dispiegata la
missione francese Barkhane che, con 3000 uomini, basi e droni, dal 2013
ha militarizzato l’intera regione affiancandosi al dispositivo regionale
americano di Africom nella lotta al terrorismo subsahariano. Nonostante
tale dispiegamento militare, però, i traffici di droga, armi, merci di
contrabbando ed esseri umani che da almeno quindici anni attraversano le
sabbie del Sahel non sono stati interrotti e continuano a sfuggire ai
controlli. Un ingente giro d’affari che ingrassa i gruppi armati
presenti sul territorio. La presa d’ostaggi all’Hotel Radisson Blu di
Bamako del 20 novembre, caduta a una settimana esatta dai fatti di
Parigi, ha riportato i riflettori mediatici sul conflitto maliano che si
protrae dal 2013 senza soluzioni all’orizzonte. Mentre gli accordi di
pace fra il governo e i gruppi indipendentisti tuareg del nord
appoggiati dalla missione Onu (Minusma) continuano a stagnare, l’attacco
è stato rivendicato dal gruppo jihadista al-Mourabitoun. Contrariamente
a quanto ipotizzato da alcuni analisti e giornalisti il gruppo guidato
da Mokhtar Belmokhtar ha recentemente rinnovato la bay’a ad al-Qaida
ribadendo la propria sottomissione e smentendo una volta per tutte le
voci di alleanza con l’IS trapelate a maggio a seguito della defezione
del suo comandante Adnan Abu Walid al-Saharaoui. Anche qui, dunque, si
profila chiaramente la lotta interna al fronte neo-jihadista fra Daesh e
al-Qaida.
Un altro gruppo che continua a impensierire il Mali e i paesi vicini è Ansar EddinE,
guidato dal terrorista maliano Iyad Ag Ghali. Recentemente, infatti,
questa formazione tuareg neo-jihadista fedele ad Aqmi ha firmato
numerosi attacchi al centro (come quello all’hotel di Sevare del 7
agosto) e al sud del paese, arrivando a coinvolgere i confini di Burkina
Faso e Costa D’Avorio. Nel centro-sud del Mali Ag Ghali è appoggiato
dal Movimento di Liberazione di Macina, una formazione di origine peul
nata a inizio anno guidata dal predicatore Amadou Koufa, e dalla katiba
Khalid Ibn Walid, conosciuta anche con il nome di Ansar Eddine Sud
guidata da Suleiman Keita. Ag Ghali e Koufa sono stati membri della
setta internazionale Dawa, considerata da molti (fra cui l’intelligence
americana) all’origine del radicalismo e della deriva violenta del
neo-salafismo in Africa occidentale. Oggi capi jihadisti come Ag Ghali e
Mokhtar Belmokhtar si spostano indisturbati fra i confini porosi della
fascia sahelo-sahariana in barba a droni e raid aerei e tessono preziose
alleanze, dai mujahedin libici ai mercenari reduci della guerra civile
della vicina Costa D’Avorio, espandendo l’incendio del conflitto.
A chiudere questa breve panoramica sulle minacce terroristiche in Africa subsahariana
non poteva mancare il Corno con al-Shaabab. Il gruppo somalo attivo
anche in Kenya ultimamente sta attraversando un momento di crisi dovuta
anche a crescenti divisioni interne. Al-Shaabab, infatti, è il braccio
armato di al-Qaida nell’Africa dell’est dal 2012 ma a fine ottobre
Abdoul Qadir Mumin, capo spirituale della setta, ha giurato fedeltà al
Califfo al-Baghdadi, rispondendo alle sirene di numerosi video di
propaganda indirizzati nel corso dell’anno ai miliziani di al-Shaabab
affinché abbandonassero le fila di al-Qaida per abbracciare il jihad del
sedicente Stato Islamico in Siria, Iraq e Yemen. A tale defezione
“illustre” a cui hanno fatto seguito quelle di decine di miliziani
somali ha risposto un comunicato del gruppo minacciando di tagliare la
gola a chiunque osi tradire il gruppo di Ayman al-Zawahiri. “Il mondo ci
vuole divisi. Ma chiunque voglia aderire a un altro gruppo islamico
deve lasciare il paese per unirsi a questo dove si trova. Giuriamo in
nome di Dio che non tollereremo atti di sabotaggio” hanno tuonato a fine
novembre alcune radio locali. Il Dipartimento di Stato americano fa
notare che al-Shaabab, pur avendo perso terreno recentemente, “conserva
alcune migliaia di membri, incluso un piccolo gruppo di foreign
fighters”, rappresentando il terzo gruppo terroristico per numero di
attacchi (circa 500 nell’arco del solo 2014) dopo l’IS e i talebani
afghani.
In un panorama cupo come quello appena descritto è difficile pensare a scenari futuribili,
ma quello che appare chiaro è quanto la militarizzazione e
l’esternalizzazione della lotta al terrorismo sotto forma di “guerre per
procura” combattute per conto dell’Occidente da eserciti africani
corrotti e sprovveduti stia portando a una radicalizzazione del problema
piuttosto che a una sua soluzione. In questi casi si è soliti citare
educazione e cooperazione internazionale allo sviluppo come retorica
panacea ai mali del continente. Ma soltanto una gioventù nuova e
ritrovata (come dimostrato dall’esempio positivo della “primavera
africana” del Burkina Faso) che attraverso la riscoperta della propria
cultura faccia la pace con i conflitti identitari che affliggono
un’intera generazione può traghettare il continente delle continue
sorprese verso un futuro più luminoso.
Andrea De Georgio, giornalista freelance di base a Bamako, per ISPI on line del 22 12 15
Mappe a cura di Laura Canali per Limesonline
ottimo articolo su una realtà che conosciamo poco
RispondiEliminabenvenuta
RispondiEliminain quest'area del mondo dai mobili confini, si evidenzia che il capitalismo riscrive in continuazione, sotto svariate forme storiche, i propri stessi giochi di potenza, non definiti una volta per tutte
in questa autoreferenza, una nuova possibilità resta lì, in quiescenza