domenica 17 gennaio 2016

I mobili confini dell' area sub sahariana

Il  punto di vista di chi, nel Islam politico storico e oltre, vuole riscrivere i confini, i modi e gli uomini dello Stato, di solito viene bollato come jihadista. Ma siamo certi che partire dalla matrice religiosa sia di aiuto a capire? O forse il controllo delle anime rimanda ad intenti ben più profani? L' attacco di ieri in Burkina-Faso, con la oramai consueta tattica di guerriglia "per saturazione", allarga ancora di più l'area in discussione. 


Se la minaccia dello Stato Islamico (IS) in Tunisia, Egitto e Libia rende critico il panorama geopolitico del Nordafrica, spostandosi poco più a sud nel continente la situazione non appare più rosea. Sahel e Corno d’Africa presentano una pletora di gruppi armati che rinnovano la minaccia terroristica nelle retrovie dell’Africa settentrionale, rendendo la situazione sul terreno sempre più grave e urgente. Boko Haram (BH) in Nigeria e nei paesi della regione del Lago Ciad, Aqim (al-Qaida nel Maghreb Islamico), al-Mourabitoun e Ansar Eddine fra Mali, Niger, Burkina Faso e Costa D’Avorio, al-Shaabab in Somalia e Kenya. Queste le sigle, senza dimenticare l’esercito di reclute pronte al martirio: migliaia di giovani senza lavoro né prospettive che si trovano costretti a scegliere fra l’“avventura” verso l’Eldorado-Fortezza-Europa e le promesse di giustizia, ricchezza terrena e salvezza ultraterrena del jihad contemporaneo. Sullo sfondo, qui come altrove, si staglia la lotta intestina fra al-Qaida e Daesh che rivaleggiano e si contendono il potere perpetuando insicurezza e destabilizzazione di ampie zone del continente che sfuggono al controllo di stati, dispositivi militari stranieri (Francia e Usa, ma non solo) e fallimentari missioni di pace delle Nazioni Unite.


Quella di BH nella regione del Lago Ciad ricca di petrolio e uranio è, secondo analisti e diplomatici, la minaccia più impellente che interessa l’Africa subsahariana. Da quando, ad aprile, è stata ufficializzata l’affiliazione (bay’a) con Daesh e il gruppo guidato da Abubakar Shekau ha cominciato a firmarsi “Stato Islamico dell’Africa occidentale”, gli attentati e gli attacchi al di fuori del nord della Nigeria – in cui BH è nato, nel lontano 2002, e dove ha dichiarato lo Stato Islamico nell’agosto 2014 – si sono intensificati, a riprova della rinascita del gruppo armato dopo una battuta d’arresto a metà anno causata dall’intervento militare dei paesi del Lago Ciad guidati da Nigeria e Ciad. Muhammadu Buhari, eletto alla presidenza della Nigeria a marzo, ha dichiarato che a partire da dicembre 2015 non si sarebbe più sentito parlare di BH. A fargli eco è stato il suo corrispettivo ciadiano, Idriss Deby che a fine settembre in visita a Niamey aveva dichiarato “attaccheremo il quartier generale di BH nella foresta di Sambisa. La faremo finita entro la fine della stagione delle piogge”. Le piogge hanno smesso di cadere a ottobre. La forza speciale di 8700 uomini promessa dagli incontri internazionali, la Multinational Joint Task Force (Mjtf) formata dall’élite degli eserciti di Ciad, Niger, Nigeria, Camerun e Benin, invece, non è ancora stata dispiegata sul terreno. Il dispositivo anti-BH non è ancora operativo dopo mesi di preparativi e trattative a causa di scaramucce fra Ciad e Nigeria sul comando, come raccontano fonti diplomatiche. Le promesse occidentali (gli Usa hanno già stanziato circa 45 milioni di dollari per l’Mjtf, oltre ai 300 uomini e ai droni di sorveglianza già dispiegati in Camerun e a due aerei regalati al Niger) e i programmi di addestramento di Francia e Usa per gli eserciti locali non bastano a fronteggiare l’espansione del cancro del neo-jihadismo che moltiplica le metastasi locali per prepararsi ad attaccare il nemico lontano. Proprio come Daesh, infatti, la setta guidata da Shekau e le altre formazioni jihadiste dell’Africa subsahariana portano avanti lotte regionali ma continuano a utilizzare un discorso anti-occidentale che ha presa su molti giovani africani convinti che la colpa della corruzione dei propri governanti risieda in un ordine mondiale da distruggere, quello neocoloniale imposto dalle potenze straniere.


 
Non meno complicata e preoccupante la situazione della fascia saheliana che va dalla Mauritania fino al sud di Algeria e Libia attraversando il deserto di Mali e Niger. Qui resta dispiegata la missione francese Barkhane che, con 3000 uomini, basi e droni, dal 2013 ha militarizzato l’intera regione affiancandosi al dispositivo regionale americano di Africom nella lotta al terrorismo subsahariano. Nonostante tale dispiegamento militare, però, i traffici di droga, armi, merci di contrabbando ed esseri umani che da almeno quindici anni attraversano le sabbie del Sahel non sono stati interrotti e continuano a sfuggire ai controlli. Un ingente giro d’affari che ingrassa i gruppi armati presenti sul territorio. La presa d’ostaggi all’Hotel Radisson Blu di Bamako del 20 novembre, caduta a una settimana esatta dai fatti di Parigi, ha riportato i riflettori mediatici sul conflitto maliano che si protrae dal 2013 senza soluzioni all’orizzonte. Mentre gli accordi di pace fra il governo e i gruppi indipendentisti tuareg del nord appoggiati dalla missione Onu (Minusma) continuano a stagnare, l’attacco è stato rivendicato dal gruppo jihadista al-Mourabitoun. Contrariamente a quanto ipotizzato da alcuni analisti e giornalisti il gruppo guidato da Mokhtar Belmokhtar ha recentemente rinnovato la bay’a ad al-Qaida ribadendo la propria sottomissione e smentendo una volta per tutte le voci di alleanza con l’IS trapelate a maggio a seguito della defezione del suo comandante Adnan Abu Walid al-Saharaoui. Anche qui, dunque, si profila chiaramente la lotta interna al fronte neo-jihadista fra Daesh e al-Qaida.
Un altro gruppo che continua a impensierire il Mali e i paesi vicini è Ansar EddinE, guidato dal terrorista maliano Iyad Ag Ghali. Recentemente, infatti, questa formazione tuareg neo-jihadista fedele ad Aqmi ha firmato numerosi attacchi al centro (come quello all’hotel di Sevare del 7 agosto) e al sud del paese, arrivando a coinvolgere i confini di Burkina Faso e Costa D’Avorio. Nel centro-sud del Mali Ag Ghali è appoggiato dal Movimento di Liberazione di Macina, una formazione di origine peul nata a inizio anno guidata dal predicatore Amadou Koufa, e dalla katiba Khalid Ibn Walid, conosciuta anche con il nome di Ansar Eddine Sud guidata da Suleiman Keita. Ag Ghali e Koufa sono stati membri della setta internazionale Dawa, considerata da molti (fra cui l’intelligence americana) all’origine del radicalismo e della deriva violenta del neo-salafismo in Africa occidentale. Oggi capi jihadisti come Ag Ghali e Mokhtar Belmokhtar si spostano indisturbati fra i confini porosi della fascia sahelo-sahariana in barba a droni e raid aerei e tessono preziose alleanze, dai mujahedin libici ai mercenari reduci della guerra civile della vicina Costa D’Avorio, espandendo l’incendio del conflitto.

A chiudere questa breve panoramica sulle minacce terroristiche in Africa subsahariana non poteva mancare il Corno con al-Shaabab. Il gruppo somalo attivo anche in Kenya ultimamente sta attraversando un momento di crisi dovuta anche a crescenti divisioni interne. Al-Shaabab, infatti, è il braccio armato di al-Qaida nell’Africa dell’est dal 2012 ma a fine ottobre Abdoul Qadir Mumin, capo spirituale della setta, ha giurato fedeltà al Califfo al-Baghdadi, rispondendo alle sirene di numerosi video di propaganda indirizzati nel corso dell’anno ai miliziani di al-Shaabab affinché abbandonassero le fila di al-Qaida per abbracciare il jihad del sedicente Stato Islamico in Siria, Iraq e Yemen. A tale defezione “illustre” a cui hanno fatto seguito quelle di decine di miliziani somali ha risposto un comunicato del gruppo minacciando di tagliare la gola a chiunque osi tradire il gruppo di Ayman al-Zawahiri. “Il mondo ci vuole divisi. Ma chiunque voglia aderire a un altro gruppo islamico deve lasciare il paese per unirsi a questo dove si trova. Giuriamo in nome di Dio che non tollereremo atti di sabotaggio” hanno tuonato a fine novembre alcune radio locali. Il Dipartimento di Stato americano fa notare che al-Shaabab, pur avendo perso terreno recentemente, “conserva alcune migliaia di membri, incluso un piccolo gruppo di foreign fighters”, rappresentando il terzo gruppo terroristico per numero di attacchi (circa 500 nell’arco del solo 2014) dopo l’IS e i talebani afghani.    

In un panorama cupo come quello appena descritto è difficile pensare a scenari futuribili, ma quello che appare chiaro è quanto la militarizzazione e l’esternalizzazione della lotta al terrorismo sotto forma di “guerre per procura” combattute per conto dell’Occidente da eserciti africani corrotti e sprovveduti stia portando a una radicalizzazione del problema piuttosto che a una sua soluzione. In questi casi si è soliti citare educazione e cooperazione internazionale allo sviluppo come retorica panacea ai mali del continente. Ma soltanto una gioventù nuova e ritrovata (come dimostrato dall’esempio positivo della “primavera africana” del Burkina Faso) che attraverso la riscoperta della propria cultura faccia la pace con i conflitti identitari che affliggono un’intera generazione può traghettare il continente delle continue sorprese verso un futuro più luminoso.

Andrea De Georgio, giornalista freelance di base a Bamako, per ISPI on line del 22 12 15

Mappe a cura di Laura Canali per Limesonline



2 commenti:

  1. ottimo articolo su una realtà che conosciamo poco

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  2. benvenuta

    in quest'area del mondo dai mobili confini, si evidenzia che il capitalismo riscrive in continuazione, sotto svariate forme storiche, i propri stessi giochi di potenza, non definiti una volta per tutte

    in questa autoreferenza, una nuova possibilità resta lì, in quiescenza

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