sabato 28 novembre 2015

Il problema algerino


Recente articolo di Barbara Ciolli apparso su Lettera 43 che pubblico per ricordarmi che la storia, lungi dall' essere un susseguirsi casuale di eventi, ci segnala che le contraddizioni non sono mai sepolte una volta per tutte dal lento progressivo lavorio del tempo: esse invece si ripropongono -con necessaria discontinuità- innanzi a noi dopo essersi accumulate in una certa massa critica. La feroce repressione degli algerini -anche in Francia- durante la guerra d'indipendenza, le troiate fatte con il Fis e nella successiva guerra civile, in cui si coalizzò per la prima volta una sorta di fronte internazionale jihadista, tornano ad allungare la propria ombra sui fatti di quest' autunno.---

La Francia non proclamava lo stato d’emergenza dal 1955: i tempi della guerra d’Algeria. Di origine algerina era uno dei kamikaze delle stragi Parigi del 13 novembre 2015 - come anche diverse vittime degli attentati -, e franco-algerini erano i fratelli Kuachi dell’ attacco al giornale satirico Charlie Hebdo il 7 gennaio. Come il terrorista che, meno di un anno prima, aveva colpito al museo ebraico di Bruxelles.


Di Algeria si parla poco per la lotta all’Isis, perché il numero dei suoi combattenti nel sedicente Stato islamico e tra altri gruppi jihadisti non è alto: meno di un centinaio, secondo il governo, rispetto ai 3 mila della Tunisia e ai circa 1.500 marocchini. Nel nome della stabilità, l’ex colonia francese si è chiusa a riccio rieleggendo, nel 2014, il tre volte presidente e fantoccio dei generali Abdelaziz Bouteflika.

In Algeria, dove non è mai arrivata la primavera araba, i militari reprimono con la forza le cellule fondamentaliste mai sopite, le frontiere con la Tunisia sono chiuse e presidiate dai cecchini ed è stato anche stroncato il flusso di combattenti verso la Siria e l’Iraq. Ma, oltre il Mediterraneo, le sacche di risentimento e devianza tra le terze e quarte generazioni di immigrati parcheggiati nelle banlieue francesi e belghe, molti dei quali di origine algerina, trovano valvole di sfogo e punti di riferimento. Tra le maglie della democrazia, in una precisa e mai sradicata tradizione di radicalismo islamico. La bomba a orologeria riesplode a ogni ondata terroristica, nonostante la collaborazione tra i governi europei (incluso quello l’italiano) e le autorità di Algeri. Silenziosa, ma presente e anche rafforzata negli ultimi mesi.

Insediato a Palazzo Chigi, il premier Matteo Renzi ha per esempio fatto quadrato con l’Algeria, nel solco della stessa politica di sicurezza della mano tesa al generale Abdel Fatah al Sisi, eletto presidente egiziano dopo il colpo di Stato del 2014. Un vertice si è tenuto nel maggio 2015, a Roma, con il premier algerino Abdelmalek Sellal per «affermare valori di civiltà e di lotta al terrorismo» e «collaborare sulla crisi libica» con uno Stato che ha «dimostrato di poter esportare sicurezza», ha dichiarato Renzi. Poi una serie di trilaterali tra Italia, Algeria ed Egitto, per contenere il flusso di jihadisti dal Nord Africa verso il Mediterraneo.

Obolo (anche) di Roma per i rapporti rinsaldati con il Fronte di liberazione nazionale (Fln) di Bouteflika è stato probabilmente l’arresto, ad agosto, al traforo del San Bernardo dell’attivista e avvocato algerino Rachid Mesli. Era ricercato da anni per aver difeso i capi dei movimenti islamisti radicali, vittime di abusi e torture, durante la travagliata storia della repressione, dal colpo di Stato dei militari, del Fronte islamico di salvezza (Fis) vincitore delle elezioni algerine del 1992, repressione che ha acuito la radicalizzazione e alimentato il terrorismo.

Cittadino francese e rifugiato politico a Ginevra, Mesli era stato fermato al passaggio della frontiera con l’Italia, mentre andava in vacanza con la famiglia, durante un normale controllo dei documenti sulla base di un mandato di cattura internazionale per «terrorismo» pendente dal 2000. Meno di un mese dopo, la corte d’Appello di Torino gli ha revocato l’obbligo di dimora in Italia, constatato, come per altri fermi di Mesli in Gran Bretagna e in Germania e come per altri dissidenti ricercati, che le motivazioni dell’estradizione erano «vaghe e incomplete».

Le manette dell’Interpol sono una procedura obbligatoria, come le successive verifiche dei tribunali, di esito scontato alle intimidazioni di Algeri agli oppositori. Ma, come con al Sisi, con l’escalation del terrorismo i rapporti con gli eredi delle giunte militari - Bouteflika ha cambiato la Costituzione nel 2009, per accedere al terzo e al quarto mandato - vanno mantenuti buoni.

L’Algeria è in lotta con gli affiliati all’Isis Jund al Khilafa, che nel 2014 hanno rivendicato la decapitazione della guida francese Herve Gourdel nella Cabilia, problematica regione del Nord-Est algerino. Il gruppo fa proseliti tra i fondamentalisti del disciolto Fis e di al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Nel 2013 il blitz delle forze algerine a In Amenas liberò dall'Aqmi lo stabilimento petrolifero Bp nel deserto e, questa estate, tre soldati algerini sono morti in uno scontro con i jihadisti durante dei rastrellamenti sulle montagne a 150 chilometri da Algeri, covo dagli Anni 90 di bande armate islamiste.

E nella Francia delle carte dei diritti che nel Secondo dopoguerra uccideva gli algerini in rivolta sono oltre 5 milioni gli immigrati della comunità. Molti, come il poliziotto e il correttore di bozze morti nella strage di Charlie Hebdo, sono integrati. Per altri, frustrati ai margini delle banlieue, la guerra non è mai finita. Diversi hanno la doppia cittadinanza, la collaborazione con Algeri è essenziale. Ma, come ha dimostrato la parabola della Fratellanza musulmana in Egitto e anche la questione algerina, comprimere gli islamisti, anziché risolvere, esaspera.



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