domenica 6 maggio 2018

Equilibrio di potenza

Lungo articolo "contrarian" di un ottimo analista di geopolitica in cui emerge la razionalità che sorregge  la tattica trumpiana, entrata infine in dialogo con la strategia più di lungo corso degli apparati di potere che si annidano nello Stato profondo, nei recessi della burocrazia americana, notoriamente impermeabili alla volatilità politica.
 Il mantenimento del equilibrio di potenza oggi si sostanzia nel contrapporre fra loro  elementi regionali in modo atto a mantenere la supremazia ad un piano più alto. Ma la attuale declinazione di questa strategia richiede anche un gigantesco e pericoloso presupposto interno: i twin deficits, federale e commerciale, sono una crepa nelle fondamenta dell' edificio statale e  al contempo il segno indiscusso e lo strumento più efficace della potenza statunitense nella sua proiezione globale.
 Fu, in particolare il disavanzo commerciale, il grosso chip gettato sul tavolo planetario che nei decenni ha condensato attorno a sè la galassia del mercato mondiale, imperniato sulla merce-dollaro. Per contro questa politica di crescita della potenza americana, che sconfisse l' Urss principalmente su questo piano e su quello tecnologico, trova nel lungo termine il suo limite strutturale proprio nell’emersione di nuove potenze.
 Avere un certa quota di controllo sul sistema internazionale dei pagamenti, cioè delle banche depositarie dei titoli statali, può essere molto lucroso e ben più efficace di un intervento armato, al contempo però si è esporti al rischio di flussi globali di capitali che ritengono profittevole posizionarsi contro o la creazione di valute di riserva alternative. Comunque sia, l' operazione richiede molta abilità, tempo e un contesto storico favorevole. Ne sanno qualcosa gli inventori dell' euro e del renimbi.


1. Al cospetto di un mondo in sostanziale movimento, gli americani sono diventati conservatori. Alle prese con gli effetti collaterali della monopotenza, non pensano più di stravolgere la congiuntura internazionale. Confermano lo status quo, ne accettano il dipanarsi. Non solo perché maneggiano i gangli del primato – dal controllo delle vie marittime alla funzione di compratore di ultima istanza, dall’emissione del dollaro all’avanguardia tecnologica. Dopo aver sperimentato le conseguenze negative del proprio avventurismo, le sofferenze causate da una azzardata voglia di rimodellare il creato, intendono scongiurare il ripetersi della storia. Soddisfatti del momento che vive il pianeta, dell’assenza di minacce concrete alla loro supremazia, sono finalmente consapevoli di non poter incidere su ogni dinamica umana. Stretti tra l’impulsiva voglia di ritirarsi dagli affari internazionali e i monumentali sforzi richiesti dalla condizione egemonica, scelgono la manutenzione ordinaria del sistema che presiedono. 



Decisi ad appaltare agli altri manovre che un tempo gestivano in solitudine, a beneficiare dell’incrociata ostilità esistente tra i loro antagonisti. Così Donald Trump, che pensava di rifondare la nazione, ha finito per confermarne la natura imperiale. Al contatto con il governo, la sua imprevedibile eccentricità s’è fatta convenzionale prassi. Capace di spiazzare interlocutori ed elettori, non di incidere sull’attitudine della superpotenza. La naturale ingerenza degli apparati, istituzionalmente deputati a gestire la macchina federale, ha convertito un potenziale colpo di Stato in difesa dell’attuale. Al termine di plateali scontri intestini, lo strumentario della politica estera è rimasto intonso. Perfino in ambito tattico. Con alcune variazioni determinate da fattori esterni.

Nonostante le intemperanze della Casa Bianca, Washington ha continuato a ordire il contenimento terrestre della Russia e quello marittimo della Cina. Senza ripensare i rispettivi rapporti bilaterali, senza temere una convergenza tra i suoi rivali. Ha conservato una crescente ostilità nei confronti delle ambizioni tedesche e una strumentale sintonia con la Francia. Senza derubricare come secondaria la questione europea.

La trumpiana promessa di ridurre la sovraesposizione del paese si è realizzata esclusivamente al di sotto della soglia strategica. I dazi sono stati approvati soltanto se incapaci di estinguere il deficit commerciale, se funzionali al perseguimento di superiori obiettivi geopolitici. Mentre a determinare gli unici accorgimenti di politica estera, anziché la Casa Bianca, è stata l’iniziativa degli avversari.

L’evolversi in favore dell’Iran della guerra civile siriana ha indotto gli Stati Uniti a rivedere i piani mediorientali, a pensare di annullare l’accordo sul nucleare. Con le agenzie federali intenzionate a muoversi in anticipo, invece di attendere la parallela ascesa della Turchia, da giocare contro Teheran nel medio periodo. Fino a lanciare segnali agli ayatollah attraverso scenografici bombardamenti della Siria.

Quindi il realizzarsi del programma atomico nordcoreano ha costretto la superpotenza a tollerare la svolta, industriandosi per impedire che il forzato riavvicinamento tra P’yŏngyang e Seoul estrometta gli americani dalla penisola. Fino ad accettare un possibile incontro tra Trump e Kim Jong-un. Per attività altrui, non per capriccio presidenziale.Nella consapevolezza che è impossibile rinnegare la propria dimensione imperiale, né pensarsi rivoluzionari sine die. Nel timore che le dinamiche interne alla società americana vanifichino tanta sobrietà. 


2. L’attuale strategia degli Stati Uniti è stata distillata al termine della guerra fredda, quando si inaugurò la supremazia solitaria. Da allora [in realtà è dal fatidico 1971, nota mia] l’America persegue un massiccio deficit commerciale per creare dipendenza tra sé e i suoi satelliti e mantenere globale la sua moneta. Accoglie milioni di immigrati per arrestare il cronico invecchiamento della popolazione e custodire la vocazione guerriera della nazione. Preserva il controllo delle rotte marittime globali attraverso lo strapotere della sua Marina e si muove per impedire che qualsiasi soggetto autoctono domini il continente d’appartenenza. Benché rimasta immutata sul piano generale, negli ultimi anni la sua azione ha adottato una nuova declinazione tattica. Per cui la superpotenza tuttora realizza il contenimento degli sfidanti più insidiosi, fornisce deterrenza ai suoi clientes, colpisce e sostiene attraverso la finanza. Ma non agisce più per distruggere gli equilibri, per battezzare una nuova èra. 

Al contrario, lascia agli altri l’incombenza di correggere la contemporaneità, aderente ai suoi interessi. Provata da errori dispendiosi commessi per hybris e dalle esigenze anti-economiche del suo status, si spende per favorire lo scontro tra i suoi rivali, per costringerli a concentrarsi sull’estero vicino. Si mantiene nel mondo, senza lasciarsi risucchiare nei suoi anfratti. Frutto di un recente compromesso tra la voglia di disimpegno della popolazione e le inaggirabili esigenze dell’impero. Per sommo stupore degli osservatori internazionali che non ne comprendono l’inedita ritrosia, spesso scambiata per declino o, peggio ancora, per smarrimento. 

Come previsto dalla grammatica istituzionale, tale utilitaristica visione è oggi incarnata dagli apparati federali (dipartimento di Stato, Pentagono, Cia, Nsa eccetera). Ingrossati da funzionari di nomina obamiana, simultaneamente convinti della pericolosità del pianeta e della superiorità degli Stati Uniti. Determinati a puntellare il sistema internazionale, senza trascendere la discrezione richiesta dall’impresa. Schierati contro Trump che vorrebbe adottare un semi-isolazionismo, per obbligare l’America a ripudiare il ruolo di compratore di ultima istanza e di magnete per l’immigrazione. E che vorrebbe perseguire interessi esclusivamente commerciali, alleandosi con la Russia, oppure ostracizzando l’Iran per ragioni ideologiche e non geopolitiche. Convinto di alleggerire i suoi cittadini del fardello imperiale. Senza curarsi di rinunciare alla monopotenza.

Nel tempo tali antitetiche posizioni hanno provocato un violento confronto tra le parti, prevedibilmente risolto nella normalizzazione della visione trumpiana. Con lo Stato profondo che per confermare la tattica applicata si è servito della propria interferenza e dell’inchiesta sui presunti contatti tra il Cremlino e l’amministrazione in carica. Offensiva cui Trump ha inizialmente risposto con interessata condiscendenza, prima di rassegnarsi agli eventi. Così, in seguito alle dimissioni del consigliere per la Sicurezza nazionale, Michael Flynn, accusato d’essere al soldo dei russi, e all’allontanamento del capo di Gabinetto, Reince Priebus, lo scorso anno il presidente ha nominato due generali in entrambi i ruoli, Herbert McMaster e John Kelly. Ai quali si aggiungeva James Mattis, generale dei Marines e segretario alla Difesa fin dal principio. 

L’esecutivo si tramutava in una sorta di junta militare di matrice sudamericana, intrinseca al Pentagono. Con l’obiettivo di utilizzare le Forze armate per blandire lo Stato profondo e acquisire libertà di movimento. Abbandonando il dipartimento di Stato a se stesso, perché dispensatore della propaganda globalista. Affidando la Cia alle cure del deputato del Kansas Mike Pompeo, incaricato di persuadere l’agenzia della buona fede presidenziale

Ma gli apparatčik restano indifferenti agli umori esterni, specie se elevati ai massimi uffici dell’esecutivo. Nel corso dei mesi si sono susseguiti gli scontri tra il presidente e i suoi ministri sui principali temi dell’azione di governo: dalla politica mediorientale all’immigrazione, dal contenzioso con la Russia fino all’approccio commerciale. Convinto della necessità per gli Stati Uniti di accogliere un massiccio numero di immigrati, John Kelly ha sovente espresso la propria contrarietà a qualsiasi sospensione degli arrivi. Provocando la violenta reazione di Trump, quando lo ha ascoltato spiegare in diretta su Fox News che la Casa Bianca avrebbe un approccio semplicistico all’immigrazione. «Dopo aver convocato Kelly nel suo ufficio, il presidente ha urlato talmente forte che le grida si sentivano attraverso la porta», ha riferito una fonte anonima.

Favorevole a rivedere l’accordo sul nucleare siglato con l’Iran ma senza abbandonarlo, Herbert McMaster s’è invece industriato per impedire che il magnate newyorkese seguisse i suoi impulsi. Consultandosi spesso con Susan Rice, suo omologo nella precedente amministrazione e artefice del compromesso con Teheran. Abbastanza per attirare a sua volta le imprecazioni di Trump, che dopo averlo sorpreso al telefono con la clinto-obamiana s’è sfogato con i suoi: «Chiedeva consigli alla Rice! Ma vi rendete conto?!» Proprio mentre l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale comunicava anonimamente ai media il suo dissenso per la scelta della Casa Bianca di congratularsi con Vladimir Putin, vittorioso alle ultime elezioni russe.

Perfino Rex Tillerson, uomo estraneo agli apparati, scelto come segretario di Stato per estromettere il ministero dal processo decisionale, ha finito per opporsi alla linea nazionalista del commander-in-chief. Specie dopo aver compreso d’essere divenuto irrilevante come i suoi sottoposti. Ne è scaturita una disputa personale dai toni clamorosi. Con Tillerson che ha platealmente definito «cretino» il suo capo e Trump che durante la cena di Stato organizzata a Pechino da Xi Jinping lo ha obbligato davanti agli altri commensali a mangiare l’insalata che non voleva per sé

Tanta distonia, tradotta in una convenzionale visione del mondo, ha persuaso il presidente della necessità d’abbandonare la filiera militare, nel tentativo di recuperare terreno. Se non fosse che, privo di una propria fazione all’interno dello Stato profondo, ha finito per affidarsi ai fautori di una geopolitica antitetica alla sua e ormai altrettanto di minoranza, oppure a chi può servire soltanto a temperare la furia dei burocrati. 

Lo scorso marzo McMaster è stato sostituito da John Bolton, neoconservatore della prima ora, di pura educazione mondialista. Già ambasciatore presso le Nazioni Unite con Bush figlio, sostenitore dell’intervento in Iraq nel 2003 e di un cambio di regime in Iran, il luterano del Maryland è perfettamente estraneo alla cultura economicistica. Piuttosto vorrebbe risolvere con la forza numerose questioni astrategiche. Per questo sarebbe sua intenzione espellere dal National Security Council tanto i funzionari di nomina obamiana (obamians), perché ritenuti infidi, quanto i flynnstones tuttora legati a Michael Flynn, perché di ispirazione isolazionista, ovvero trumpian

Non a caso è stato soprannominato «diavolo incarnato» dal resto della macchina federale, che lo percepisce estraneo agli attuali sentimenti dello Stato profondo. Rex Tillerson è stato rimpiazzato da Mike Pompeo, altrettanto interventista ancorché vicino al presidente. Il deputato è stato scelto nell’ambito di un piano di retroguardia. Sebbene incapace di opporsi alla volontà dell’intelligence di muoversi unilateralmente, durante il periodo a Langley è riuscito a convincere i sottoposti a non scagliarsi preventivamente contro la Casa Bianca. Ora è chiamato a mitigare l’astio dei diplomatici, emarginati da Trump ma ritenuti utili in vista dei prossimi negoziati con Corea del Nord e Iran. A tal fine ha già annunciato d’aver inaugurato un canale di comunicazione con i softies del dipartimento di Stato (le feluche convinte della preminenza del negoziato sulla guerra). Con una mossa strumentale che serve a rilanciare la stessa burocrazia che si voleva scardinare e a reintegrare elementi ostili alla presidenza. Per assenza di alternative.


3. La preminenza degli apparati ha confermato il conservativo approccio della superpotenza alle questioni internazionali, tendente a perpetuare se stesso in tempi di normale andamento amministrativo. Nonostante i rumorosi tentativi, Trump non è riuscito a scalfire la posizione delle agenzie federali. A partire dal dossier russo. Non solo i burocrati hanno respinto ogni apertura in favore del Cremlino. Si sono rifiutati di discutere del ruolo da attribuire a Mosca in una possibile triangolazione con Pechino. Nella loro interpretazione, Putin non parteciperebbe mai al soffocamento della Repubblica Popolare e sarebbe da ritenersi impossibile la nascita di una lega sino-russa di matrice anti-americana. Informati da una miscela di immutabile ideologia e razionale analisi, restano convinti sia necessario condurre Mosca verso il collasso, perché relativamente poco costoso e utile a coagulare l’Europa centro-orientale attorno alla superpotenza. Qualsiasi distensione bilaterale è equiparata a pericoloso anatema. La volontà della Casa Bianca di intendersi con Putin bollata come un pericoloso tradimento degli ideali statunitensi.

Piuttosto nel corso dei mesi è stato rilanciato l’accerchiamento dell’(ex) nemico della guerra fredda. Attraverso l’inchiesta riguardante la presunta collusione tra lo staff trumpiano e il Cremlino. Perdurante manovra a bassa intensità, disinteressata all’impeachment, che tiene sospeso il presidente, impedendogli di vivere e di morire. Sicché al momento risultano indagati o incriminati cinque membri attuali e passati del suo entourage, con l’ex responsabile della campagna elettorale Paul Manafort, il suo vice, Rick Gates, e il consulente per la politica estera, George Papadopoulos, finiti in manette.

In sintonia con il proposito di coinvolgere maggiormente i clientes nelle campagne statunitensi, l’assalto alla Federazione Russa è stato appaltato ai paesi dell’Europa centro-orientale, attraverso il collocamento in Romania, dal 2015, e in Polonia, dal 2020, di cruciali batterie missilistiche e il ruolo di avanguardia diplomatica riconosciuto alle cancellerie baltiche. Mentre il Pentagono ha continuato a misconoscere sul fronte europeo i successi registrati in Siria dalle truppe del Cremlino, ideatore di una campagna mediorientale pensata per ottenere la finlandizzazione dell’Ucraina e costretto ad accontentarsi di un conflitto congelato nel Donbas. Quindi nell’ultimo anno il Congresso ha approvato ulteriori sanzioni economiche contro soggetti ed enti russi. Costringendo la Casa Bianca a introdurre elle-même penalità economiche ai danni di esponenti del cerchio putiniano, per convincere della propria lealtà coloro che ne hanno dimidiato le prerogative.

Nello stesso periodo è stato rinnovato il contenimento della Cina. Elaborato dal dipartimento di Stato durante il primo mandato obamiamo come calco marittimo di quello russo, è stato trasmesso a Trump per bocca dei militari. Ne è derivata l’attuale opera di seduzione nei confronti di alcune cruciali nazioni asiatiche (Filippine, Vietnam, Brunei, Malaysia, Thailandia), dipendenti economicamente dalla Cina ma restie a lasciarsi dominare sul terreno geopolitico dall’ingombrante vicino. Progetto cui partecipa convintamente lo stesso il presidente, soddisfatto di relazionarsi con uomini forti cui vorrebbe assomigliare, da Rodrigo Duterte a Prayut Chan-o-cha. Con Giappone e Australia che hanno intensificato il loro coinvolgimento nella campagna a guida statunitense, decise a sacrificare (parzialmente) il legame commerciale con l’Impero del Centro in nome dei propri interessi strategici. Unica variazione sul tema, ancorché potenzialmente decisiva, è il tentativo di guadagnare l’India alla causa, sfruttandone la naturale avversione per la sfera di influenza cinese e per le immaginate vie della seta. Al punto da ribattezzare indo-asiatico il perno obamiano. 

In Europa è invece cresciuta l’avversione americana per la volontà tedesca di costruire un proprio nucleo nel cuore del continente, tanto nella zona euro quanto in una futuribile Kerneuropa. Cominciata ai tempi di Obama, quando la teutonica urgenza di acquisire sovranità si è fatta patente, l’aggressione economica e diplomatica ai danni di Berlino è proseguita sul piano fattuale e retorico, attraverso il lancio del Trimarium, schema polacco concepito per creare distanza tra tedeschi e russi, e gli strali di Trump contro i suoi «parassitari» antenati. Cui si è sommato lo strumentale sostegno fornito dalla superpotenza al prospetto francese di ribilanciamento dell’asse renano, frustrato dall’ascesa degli europei centro-orientali che non riconoscono in Parigi un legittimo interlocutore ma che dipendono da Washington per la loro sopravvivenza.

Così l’approvazione di dazi contro alleati e antagonisti, pensata per costringere gli altri a pagare maggiormente la partecipazione al sistema americano, è stata vidimata dallo Stato profondo perché incapace di annullare il deficit commerciale intrinseco allo status di egemone. Né l’utilizzo di misure protezionistiche può essere raccontato come inedito, giacché utilizzato negli anni da numerose amministrazioni statunitensi. Nella percezione degli apparati una parziale riduzione del carico economico, che non tramuti gli Stati Uniti in una nazione convenzionale, può servire a mitigare lo scoramento dell’opinione pubblica. Purché non stravolga il sistema internazionale e si inserisca in un disegno più ampio, elaborato per danneggiare la dimensione strategica degli antagonisti.

Lungi dall’essere una mera questione commerciale, i provvedimenti annunciati contro la Cina perseguono il rallentamento dello sviluppo tecnologico del rivale. Dazi del 25% su 1.300 prodotti dal notevole valore aggiunto: dai motori per le automobili ai laser; dagli strumenti per le telecomunicazioni alle turbine per aerei; dalle parti anatomiche artificiali alle macchine a raggi X. Con lo scopo di ricacciare indietro la Repubblica Popolare, determinata a ridurre il gap con la superpotenza. Medesima profondità che, ancorché con obiettivi diversi, informa le misure protezionistiche elaborate ai danni delle nazioni europee, scientificamente intrecciate alla questione iraniana. Tra i rari dossier in cui si è registrata una trasformazione della condotta statunitense. Per ragioni di esclusiva natura esogena.


4. Come previsto dalla strategia nazionale, in Medio Oriente l’America è da tempo impegnata a scongiurare che Turchia, Iran e Arabia Saudita ascendano all’egemonia regionale. Sebbene convinta che nel medio periodo saranno gli ex imperi ottomano e persiano a tramutarsi nei soggetti strutturalmente più insidiosi, da alcuni anni la superpotenza si concentra sulle aspirazioni della Repubblica Islamica, decisa a costruire una sfera di influenza che attraverso Iraq e Siria dovrebbe estendersi dall’altopiano iranico al mediterraneo libanese. Anche grazie al rovesciamento del regime di Saddam Hussein da parte statunitense, che nel 2003 innescò l’avanzata iraniana.

Per questo all’inizio della guerra civile siriana Washington scelse di sostenere surrettiziamente i ribelli sunniti schierati in armi contro il regime di Damasco, storico cliente di Teheran, nel tentativo di distruggere le ambizioni degli ayatollah. Nel corso degli anni il rovinoso andamento della guerra, con il regime baatista apparentemente destinato a soccombere, convinse gli statunitensi della prossima sconfitta degli iraniani, massicciamente occupati a puntellare sul terreno una minoritaria autocrazia. Su impulso del dipartimento di Stato, nel 2015 l’amministrazione Obama trattò con la Repubblica Islamica da posizione di forza, mettendo sul tavolo la sospensione delle sanzioni economiche, in cambio del congelamento del programma nucleare. L’idea era rinviare lo scontro frontale a una fase successiva, quando la Turchia avrebbe involontariamente partecipato all’offensiva per profittare dell’altrui arretramento. Al termine di un negoziato cui parteciparono anche Russia e Cina (oltre a Gran Bretagna, Francia e Germania), Washington e Teheran siglarono uno specifico accordo che consentiva agli iraniani di rilanciare la propria economia e agli americani di guadagnare tempo.

Finché l’intervento della Russia nel conflitto siriano non ha alterato i calcoli dei burocrati d’Oltreoceano. Scongiurando il crollo del regime, Putin ha mantenuto Damasco nella mezzaluna sciita di matrice persiana. Abbastanza per indurre la superpotenza a cambiare tattica. Certificata l’incapacità dei ribelli di rovesciare il regime baatista e l’afflato jihadista di molti gruppi che afferiscono alla loro galassia, oggi vorrebbe puntare sulla vocazione imperiale della Turchia per spezzare i sogni di gloria iraniani. Al punto da accogliere favorevolmente il recente ingresso di Ankara nell’agone siriano, a dispetto di una retorica condanna. Ma Erdoğan non è ancora disposto a disputare militarmente il controllo della Siria. Piuttosto preferirebbe raggiungere un compromesso, in attesa dell’inevitabile dipartita dei russi e dell’affinarsi delle capacità delle sue Forze armate, da decenni soltanto teoriche.

Infine, il principale mutamento della tattica statunitense si è verificato sullo scacchiere orientale. Distratta da quanto capitava in altre regioni del pianeta e ignara della repentina accelerazione nelle capacità tecnologiche del regime nordcoreano, lo scorso autunno la superpotenza ha scoperto che P’yŏngyang dispone di un notevole arsenale nucleare, non ancora utile per colpire il territorio nordamericano ma abbastanza cospicuo per fungere da deterrente. Dopo aver immaginato di trasferire sulla terra il contenimento della Cina attraverso l’implosione del Regno eremita e il successivo raggiungimento del fiume Yalu da parte dei circa 30 mila soldati statunitensi presenti nella penisola coreana, le agenzie federali sono state chiamate a decidere se intervenire militarmente contro il regime, oppure rassegnarsi a quanto accaduto. 

Contrariamente a qualche anno fa, dopo molto riflettere hanno stabilito di accettare lo sviluppo avverso, poiché sarebbe stato troppo oneroso attaccare le istallazioni nordcoreane e per evitare che un’azione unilaterale causasse l’ulteriore scadimento delle relazioni con la Corea del Sud, assai contraria alla soluzione militare. Privo di opzioni migliori, in primavera Trump ha accolto l’invito di Kim Jong-un a incontrarsi, nel tentativo di posticipare il contraccolpo mediatico. Gli americani non rinunciano al proposito strategico di soffocare l’ascesa della Repubblica Popolare e nei prossimi anni cercheranno di raggiungere il confine cinese da un’altra regione del continente. Probabilmente in Indocina. Eppure oggi ritengono troppo rischioso lanciarsi in una campagna militare che stravolgerebbe un favorevole assetto geopolitico. Da consumati attori della scena internazionale. 


5. L’attuale misura statunitense è frutto di un mutamento genetico. Per questo incomprensibile ai più. Dopo aver considerato a lungo il disordine una pericolosa minaccia al primato globale, adesso Washington tollera e favorisce una moderata dose di caos. Dopo aver pensato di imporsi in ogni crisi, ha compreso che l’entropia può rivelarsi utile. Specie se convogliata nei teatri in cui sono attivi i suoi rivali. Perché può palesarne le incongruenze, inquinarne la traiettoria, costringerli a impantanarsi in sua vece. Consapevolezza tipica di un egemone di lungo corso, contemporaneamente contento del proprio successo e affaticato dallo sforzo profuso. Così da soggetto revisionista, l’America si è tramutata in esponente dell’ancien régime. Da imperialista si è fatta imperiale. In formula: ha smesso di fare la guerra semplicemente perché può, scegliendo di intervenire soltanto quando deve, ovvero quando è in pericolo la sua supremazia. Il resto è lasciato alla cura o all’imperizia degli altri. Con gli apparati che, esautorati nelle loro prerogative soltanto in tempi straordinari, in epoca di gestione ordinaria aumentano l’ingerenza sull’esecutivo federale. 

Maturazione netta, fisiologica eppure criptica, in grado di prolungare l’epopea statunitense. A patto che la superpotenza sappia confermare tanto distacco, senza lasciarsi travolgere dalla propria ancestrale natura o dalla depressione del suo ventre. Riuscendo a trattenere il suo intrinseco militarismo, tendente all’azione anche in contesti astrategici, e a combattere la diffusa apatia dell’opinione pubblica, tendenzialmente incline a guardarsi l’ombelico. Compito che nei prossimi anni sarà ulteriormente complicato da una popolazione che diminuisce di età e che per inerzia cercherà nell’impresa bellica la valvola di sfogo alla propria esuberanza. Nonché dagli sconvolgimenti interni che tali dinamiche demografiche produrranno e che potrebbero trasferire la guerra proprio sul territorio nazionale. Quando gli Stati Uniti necessiteranno della loro proverbiale disciplina sociale per respingere gli impulsi sovversivi e mantenere la rotta. Per restare reazionari, senza ritirarsi dal mondo.

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