Lungo articolo "contrarian" di un ottimo analista di geopolitica in cui emerge la razionalità che sorregge la tattica trumpiana, entrata infine in dialogo con la strategia più di lungo corso degli apparati di potere che si annidano nello Stato profondo, nei recessi della burocrazia americana, notoriamente impermeabili alla volatilità politica.
Il mantenimento del equilibrio di potenza oggi si sostanzia nel contrapporre fra loro elementi regionali in modo atto a mantenere la supremazia ad un piano più alto. Ma la attuale declinazione di questa strategia richiede anche un gigantesco e pericoloso presupposto interno: i twin deficits, federale e commerciale, sono una crepa nelle fondamenta dell' edificio statale e al contempo il segno indiscusso e lo strumento più efficace della potenza statunitense nella sua proiezione globale.
Fu, in particolare il disavanzo commerciale, il grosso chip gettato sul tavolo planetario che nei decenni ha condensato attorno a sè la galassia del mercato mondiale, imperniato sulla merce-dollaro. Per contro questa politica di crescita della potenza americana, che sconfisse l' Urss principalmente su questo piano e su quello tecnologico, trova nel lungo termine il suo
limite strutturale proprio nell’emersione di nuove potenze.
Avere un certa quota di controllo sul sistema internazionale dei pagamenti, cioè delle banche depositarie dei titoli statali, può essere molto lucroso e ben più efficace di un intervento armato, al contempo però si è esporti al rischio di flussi globali di capitali che ritengono profittevole posizionarsi contro o la creazione di valute di riserva alternative. Comunque sia, l' operazione richiede molta abilità, tempo e un contesto storico favorevole. Ne sanno qualcosa gli inventori dell' euro e del renimbi.
1. Al cospetto di un mondo in sostanziale movimento, gli americani sono diventati conservatori. Alle prese con gli effetti collaterali della monopotenza,
non pensano più di stravolgere la congiuntura internazionale.
Confermano lo status quo, ne accettano il dipanarsi. Non solo perché
maneggiano i gangli del primato – dal controllo delle vie marittime alla
funzione di compratore di ultima istanza, dall’emissione del dollaro
all’avanguardia tecnologica. Dopo aver sperimentato le conseguenze
negative del proprio avventurismo, le sofferenze causate da una
azzardata voglia di rimodellare il creato, intendono scongiurare il
ripetersi della storia. Soddisfatti del momento che vive il pianeta,
dell’assenza di minacce concrete alla loro supremazia, sono finalmente consapevoli di non poter incidere su ogni dinamica umana.
Stretti tra l’impulsiva voglia di ritirarsi dagli affari internazionali
e i monumentali sforzi richiesti dalla condizione egemonica, scelgono
la manutenzione ordinaria del sistema che presiedono.
Decisi ad
appaltare agli altri manovre che un tempo gestivano in solitudine, a
beneficiare dell’incrociata ostilità esistente tra i loro antagonisti.
Così Donald Trump, che pensava di rifondare la nazione,
ha finito per confermarne la natura imperiale. Al contatto con il
governo, la sua imprevedibile eccentricità s’è fatta convenzionale
prassi. Capace di spiazzare interlocutori ed elettori, non di incidere
sull’attitudine della superpotenza. La naturale ingerenza degli
apparati, istituzionalmente deputati a gestire la macchina federale, ha
convertito un potenziale colpo di Stato in difesa dell’attuale. Al
termine di plateali scontri intestini, lo strumentario della politica
estera è rimasto intonso. Perfino in ambito tattico. Con alcune
variazioni determinate da fattori esterni.
Nonostante le
intemperanze della Casa Bianca, Washington ha continuato a ordire il
contenimento terrestre della Russia e quello marittimo della Cina. Senza
ripensare i rispettivi rapporti bilaterali, senza temere una
convergenza tra i suoi rivali. Ha conservato una crescente ostilità nei
confronti delle ambizioni tedesche e una strumentale sintonia con la
Francia. Senza derubricare come secondaria la questione europea.
La trumpiana
promessa di ridurre la sovraesposizione del paese si è realizzata
esclusivamente al di sotto della soglia strategica. I dazi sono stati
approvati soltanto se incapaci di estinguere il deficit commerciale, se
funzionali al perseguimento di superiori obiettivi geopolitici. Mentre a
determinare gli unici accorgimenti di politica estera, anziché la Casa
Bianca, è stata l’iniziativa degli avversari.
L’evolversi in favore
dell’Iran della guerra civile siriana ha indotto gli Stati Uniti a
rivedere i piani mediorientali, a pensare di annullare l’accordo sul
nucleare. Con le agenzie federali intenzionate a muoversi in anticipo,
invece di attendere la parallela ascesa della Turchia, da giocare contro
Teheran nel medio periodo. Fino a lanciare segnali agli ayatollah
attraverso scenografici bombardamenti della Siria.
Quindi il realizzarsi
del programma atomico nordcoreano ha costretto la superpotenza a
tollerare la svolta, industriandosi per impedire che il forzato
riavvicinamento tra P’yŏngyang e Seoul estrometta gli americani dalla penisola. Fino ad accettare un possibile incontro tra Trump e Kim Jong-un. Per attività altrui, non per capriccio presidenziale.Nella consapevolezza che è impossibile rinnegare la propria dimensione imperiale, né pensarsi rivoluzionari sine die. Nel timore che le dinamiche interne alla società americana vanifichino tanta sobrietà.
2. L’attuale strategia degli Stati Uniti è stata distillata al termine della guerra fredda,
quando si inaugurò la supremazia solitaria. Da allora [in realtà è dal fatidico 1971, nota mia] l’America
persegue un massiccio deficit commerciale per creare dipendenza tra sé e
i suoi satelliti e mantenere globale la sua moneta. Accoglie milioni di
immigrati per arrestare il cronico invecchiamento della popolazione e
custodire la vocazione guerriera della nazione. Preserva il controllo
delle rotte marittime globali attraverso lo strapotere della sua Marina e si muove per impedire che qualsiasi soggetto autoctono domini il continente d’appartenenza. Benché rimasta immutata sul piano generale, negli ultimi anni la sua
azione ha adottato una nuova declinazione tattica. Per cui la
superpotenza tuttora realizza il contenimento degli sfidanti più
insidiosi, fornisce deterrenza ai suoi clientes, colpisce e sostiene attraverso la finanza. Ma non agisce più per distruggere gli equilibri, per battezzare una nuova èra.
Al contrario,
lascia agli altri l’incombenza di correggere la contemporaneità,
aderente ai suoi interessi. Provata da errori dispendiosi commessi per hybris
e dalle esigenze anti-economiche del suo status, si spende per favorire
lo scontro tra i suoi rivali, per costringerli a concentrarsi
sull’estero vicino. Si mantiene nel mondo, senza lasciarsi risucchiare
nei suoi anfratti. Frutto di un recente compromesso tra la voglia di
disimpegno della popolazione e le inaggirabili esigenze dell’impero. Per
sommo stupore degli osservatori internazionali che non ne comprendono
l’inedita ritrosia, spesso scambiata per declino o, peggio ancora, per
smarrimento.
Come previsto
dalla grammatica istituzionale, tale utilitaristica visione è oggi
incarnata dagli apparati federali (dipartimento di Stato, Pentagono,
Cia, Nsa eccetera). Ingrossati da funzionari di nomina obamiana,
simultaneamente convinti della pericolosità del pianeta e della
superiorità degli Stati Uniti. Determinati a puntellare il sistema
internazionale, senza trascendere la discrezione richiesta dall’impresa.
Schierati contro Trump che vorrebbe adottare un semi-isolazionismo, per
obbligare l’America a ripudiare il ruolo di compratore di ultima
istanza e di magnete per l’immigrazione. E che vorrebbe perseguire
interessi esclusivamente commerciali, alleandosi con la Russia, oppure
ostracizzando l’Iran per ragioni ideologiche e non geopolitiche.
Convinto di alleggerire i suoi cittadini del fardello imperiale. Senza
curarsi di rinunciare alla monopotenza.
Nel tempo
tali antitetiche posizioni hanno provocato un violento confronto tra le
parti, prevedibilmente risolto nella normalizzazione della visione
trumpiana. Con lo Stato profondo che per confermare la tattica applicata
si è servito della propria interferenza e dell’inchiesta sui presunti
contatti tra il Cremlino e l’amministrazione in carica. Offensiva cui
Trump ha inizialmente risposto con interessata condiscendenza, prima di
rassegnarsi agli eventi. Così, in seguito alle dimissioni del
consigliere per la Sicurezza nazionale, Michael Flynn, accusato d’essere
al soldo dei russi, e all’allontanamento del capo di Gabinetto, Reince
Priebus, lo scorso anno il presidente ha nominato due generali in
entrambi i ruoli, Herbert McMaster e John Kelly. Ai quali si aggiungeva
James Mattis, generale dei Marines e segretario alla Difesa fin dal
principio.
L’esecutivo si tramutava in una sorta di junta militare
di matrice sudamericana, intrinseca al Pentagono. Con l’obiettivo di
utilizzare le Forze armate per blandire lo Stato profondo e acquisire
libertà di movimento. Abbandonando il dipartimento di Stato a se stesso,
perché dispensatore della propaganda globalista. Affidando la Cia alle
cure del deputato del Kansas Mike Pompeo, incaricato di persuadere
l’agenzia della buona fede presidenziale
Ma gli apparatčik
restano indifferenti agli umori esterni, specie se elevati ai massimi
uffici dell’esecutivo. Nel corso dei mesi si sono susseguiti gli scontri
tra il presidente e i suoi ministri sui principali temi dell’azione di
governo: dalla politica mediorientale all’immigrazione, dal contenzioso
con la Russia fino all’approccio commerciale. Convinto della necessità
per gli Stati Uniti di accogliere un massiccio numero di immigrati, John
Kelly ha sovente espresso la propria contrarietà a qualsiasi
sospensione degli arrivi. Provocando la violenta reazione di Trump,
quando lo ha ascoltato spiegare in diretta su Fox News che la
Casa Bianca avrebbe un approccio semplicistico all’immigrazione. «Dopo
aver convocato Kelly nel suo ufficio, il presidente ha urlato talmente
forte che le grida si sentivano attraverso la porta», ha riferito una
fonte anonima.
Favorevole a
rivedere l’accordo sul nucleare siglato con l’Iran ma senza
abbandonarlo, Herbert McMaster s’è invece industriato per impedire che
il magnate newyorkese seguisse i suoi impulsi. Consultandosi spesso con
Susan Rice, suo omologo nella precedente amministrazione e artefice del
compromesso con Teheran. Abbastanza per attirare a sua volta le
imprecazioni di Trump, che dopo averlo sorpreso al telefono con la clinto-obamiana s’è sfogato con i suoi: «Chiedeva consigli alla Rice! Ma vi rendete conto?!».
Proprio mentre l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale comunicava
anonimamente ai media il suo dissenso per la scelta della Casa Bianca di
congratularsi con Vladimir Putin, vittorioso alle ultime elezioni russe.
Perfino Rex Tillerson,
uomo estraneo agli apparati, scelto come segretario di Stato per
estromettere il ministero dal processo decisionale, ha finito per
opporsi alla linea nazionalista del commander-in-chief. Specie
dopo aver compreso d’essere divenuto irrilevante come i suoi sottoposti.
Ne è scaturita una disputa personale dai toni clamorosi. Con Tillerson
che ha platealmente definito «cretino» il suo capo e Trump
che durante la cena di Stato organizzata a Pechino da Xi Jinping lo ha
obbligato davanti agli altri commensali a mangiare l’insalata che non
voleva per sé
Tanta
distonia, tradotta in una convenzionale visione del mondo, ha persuaso
il presidente della necessità d’abbandonare la filiera militare, nel
tentativo di recuperare terreno. Se non fosse che, privo di una propria
fazione all’interno dello Stato profondo, ha finito per affidarsi ai
fautori di una geopolitica antitetica alla sua e ormai altrettanto di
minoranza, oppure a chi può servire soltanto a temperare la furia dei
burocrati.
Lo scorso
marzo McMaster è stato sostituito da John Bolton, neoconservatore della
prima ora, di pura educazione mondialista. Già ambasciatore presso le
Nazioni Unite con Bush figlio, sostenitore dell’intervento in Iraq nel
2003 e di un cambio di regime in Iran, il luterano del Maryland è
perfettamente estraneo alla cultura economicistica. Piuttosto vorrebbe
risolvere con la forza numerose questioni astrategiche. Per questo
sarebbe sua intenzione espellere dal National Security Council tanto i
funzionari di nomina obamiana (obamians), perché ritenuti infidi, quanto i flynnstones tuttora legati a Michael Flynn, perché di ispirazione isolazionista, ovvero trumpian
Non a caso è stato soprannominato «diavolo incarnato» dal resto della
macchina federale, che lo percepisce estraneo agli attuali sentimenti
dello Stato profondo. Rex Tillerson
è stato rimpiazzato da Mike Pompeo, altrettanto interventista ancorché
vicino al presidente. Il deputato è stato scelto nell’ambito di un piano
di retroguardia. Sebbene incapace di opporsi alla volontà
dell’intelligence di muoversi unilateralmente, durante il periodo a
Langley è riuscito a convincere i sottoposti a non scagliarsi
preventivamente contro la Casa Bianca. Ora è chiamato a mitigare l’astio
dei diplomatici, emarginati da Trump ma ritenuti utili in vista dei
prossimi negoziati con Corea del Nord e Iran. A tal fine ha già
annunciato d’aver inaugurato un canale di comunicazione con i softies del dipartimento di Stato (le
feluche convinte della preminenza del negoziato sulla guerra). Con una
mossa strumentale che serve a rilanciare la stessa burocrazia che si
voleva scardinare e a reintegrare elementi ostili alla presidenza. Per
assenza di alternative.
3. La preminenza degli apparati ha confermato il conservativo approccio della superpotenza
alle questioni internazionali, tendente a perpetuare se stesso in tempi
di normale andamento amministrativo. Nonostante i rumorosi tentativi,
Trump non è riuscito a scalfire la posizione delle agenzie federali. A
partire dal dossier russo. Non solo i burocrati hanno respinto ogni
apertura in favore del Cremlino. Si sono rifiutati di discutere del
ruolo da attribuire a Mosca in una possibile triangolazione con Pechino.
Nella loro interpretazione, Putin non parteciperebbe mai al
soffocamento della Repubblica Popolare e sarebbe da ritenersi
impossibile la nascita di una lega sino-russa di matrice anti-americana.
Informati da una miscela di immutabile ideologia e razionale analisi,
restano convinti sia necessario condurre Mosca verso il collasso, perché
relativamente poco costoso e utile a coagulare l’Europa
centro-orientale attorno alla superpotenza. Qualsiasi distensione
bilaterale è equiparata a pericoloso anatema. La volontà della Casa
Bianca di intendersi con Putin bollata come un pericoloso tradimento
degli ideali statunitensi.
Piuttosto nel
corso dei mesi è stato rilanciato l’accerchiamento dell’(ex) nemico
della guerra fredda. Attraverso l’inchiesta riguardante la presunta
collusione tra lo staff trumpiano e il Cremlino. Perdurante manovra a bassa intensità, disinteressata all’impeachment,
che tiene sospeso il presidente, impedendogli di vivere e di morire.
Sicché al momento risultano indagati o incriminati cinque membri attuali
e passati del suo entourage, con l’ex responsabile della campagna
elettorale Paul Manafort, il suo vice, Rick Gates, e il consulente per
la politica estera, George Papadopoulos, finiti in manette.
In sintonia con il proposito di coinvolgere maggiormente i clientes
nelle campagne statunitensi, l’assalto alla Federazione Russa è stato
appaltato ai paesi dell’Europa centro-orientale, attraverso il
collocamento in Romania, dal 2015, e in Polonia, dal 2020, di cruciali
batterie missilistiche e il ruolo di avanguardia diplomatica
riconosciuto alle cancellerie baltiche. Mentre il Pentagono ha
continuato a misconoscere sul fronte europeo i successi registrati in
Siria dalle truppe del Cremlino, ideatore di una campagna mediorientale
pensata per ottenere la finlandizzazione dell’Ucraina e costretto ad
accontentarsi di un conflitto congelato nel Donbas. Quindi nell’ultimo
anno il Congresso ha approvato ulteriori sanzioni economiche contro
soggetti ed enti russi. Costringendo la Casa Bianca a introdurre elle-même
penalità economiche ai danni di esponenti del cerchio putiniano, per
convincere della propria lealtà coloro che ne hanno dimidiato le
prerogative.
Nello stesso
periodo è stato rinnovato il contenimento della Cina. Elaborato dal
dipartimento di Stato durante il primo mandato obamiamo come calco
marittimo di quello russo, è stato trasmesso a Trump per bocca dei
militari. Ne è derivata l’attuale opera di seduzione nei confronti di
alcune cruciali nazioni asiatiche (Filippine, Vietnam, Brunei, Malaysia,
Thailandia), dipendenti economicamente dalla Cina ma restie a lasciarsi
dominare sul terreno geopolitico dall’ingombrante vicino. Progetto cui
partecipa convintamente lo stesso il presidente, soddisfatto di
relazionarsi con uomini forti cui vorrebbe assomigliare, da Rodrigo
Duterte a Prayut Chan-o-cha. Con Giappone e Australia che hanno
intensificato il loro coinvolgimento nella campagna a guida
statunitense, decise a sacrificare (parzialmente) il legame commerciale
con l’Impero del Centro in nome dei propri interessi strategici. Unica
variazione sul tema, ancorché potenzialmente decisiva, è il tentativo di
guadagnare l’India alla causa, sfruttandone la naturale avversione per
la sfera di influenza cinese e per le immaginate vie della seta. Al
punto da ribattezzare indo-asiatico il perno obamiano.
In Europa è
invece cresciuta l’avversione americana per la volontà tedesca di
costruire un proprio nucleo nel cuore del continente, tanto nella zona
euro quanto in una futuribile Kerneuropa. Cominciata ai tempi di Obama,
quando la teutonica urgenza di acquisire sovranità si è fatta patente,
l’aggressione economica e diplomatica ai danni di Berlino è proseguita
sul piano fattuale e retorico, attraverso il lancio del Trimarium,
schema polacco concepito per creare distanza tra tedeschi e russi, e gli
strali di Trump contro i suoi «parassitari» antenati. Cui si è sommato
lo strumentale sostegno fornito dalla superpotenza al prospetto francese
di ribilanciamento dell’asse renano, frustrato dall’ascesa degli
europei centro-orientali che non riconoscono in Parigi un legittimo
interlocutore ma che dipendono da Washington per la loro sopravvivenza.
Così
l’approvazione di dazi contro alleati e antagonisti, pensata per
costringere gli altri a pagare maggiormente la partecipazione al sistema
americano, è stata vidimata dallo Stato profondo perché incapace di
annullare il deficit commerciale intrinseco allo status di egemone. Né
l’utilizzo di misure protezionistiche può essere raccontato come
inedito, giacché utilizzato negli anni da numerose amministrazioni
statunitensi. Nella percezione degli apparati una parziale riduzione del
carico economico, che non tramuti gli Stati Uniti in una nazione
convenzionale, può servire a mitigare lo scoramento dell’opinione
pubblica. Purché non stravolga il sistema internazionale e si inserisca
in un disegno più ampio, elaborato per danneggiare la dimensione
strategica degli antagonisti.
Lungi dall’essere una mera questione commerciale, i provvedimenti annunciati contro la Cina perseguono il rallentamento dello sviluppo tecnologico del rivale.
Dazi del 25% su 1.300 prodotti dal notevole valore aggiunto: dai motori
per le automobili ai laser; dagli strumenti per le telecomunicazioni
alle turbine per aerei; dalle parti anatomiche artificiali alle macchine
a raggi X. Con lo scopo di ricacciare indietro la Repubblica Popolare,
determinata a ridurre il gap con la superpotenza. Medesima profondità
che, ancorché con obiettivi diversi, informa le misure protezionistiche
elaborate ai danni delle nazioni europee, scientificamente intrecciate
alla questione iraniana. Tra i rari dossier in cui si è registrata una
trasformazione della condotta statunitense. Per ragioni di esclusiva
natura esogena.
4. Come previsto dalla strategia nazionale, in Medio Oriente l’America è da tempo impegnata
a scongiurare che Turchia, Iran e Arabia Saudita ascendano all’egemonia
regionale. Sebbene convinta che nel medio periodo saranno gli ex imperi
ottomano e persiano a tramutarsi nei soggetti strutturalmente più
insidiosi, da alcuni anni la superpotenza si concentra sulle aspirazioni
della Repubblica Islamica, decisa a costruire una sfera di influenza
che attraverso Iraq e Siria dovrebbe estendersi dall’altopiano iranico
al mediterraneo libanese. Anche grazie al rovesciamento del regime di
Saddam Hussein da parte statunitense, che nel 2003 innescò l’avanzata
iraniana.
Per questo
all’inizio della guerra civile siriana Washington scelse di sostenere
surrettiziamente i ribelli sunniti schierati in armi contro il regime di
Damasco, storico cliente di Teheran, nel tentativo di distruggere le
ambizioni degli ayatollah. Nel corso degli anni il rovinoso andamento
della guerra, con il regime baatista apparentemente destinato a
soccombere, convinse gli statunitensi della prossima sconfitta degli
iraniani, massicciamente occupati a puntellare sul terreno una
minoritaria autocrazia. Su impulso del dipartimento di Stato, nel 2015
l’amministrazione Obama trattò con la Repubblica Islamica da posizione
di forza, mettendo sul tavolo la sospensione delle sanzioni economiche,
in cambio del congelamento del programma nucleare. L’idea era rinviare
lo scontro frontale a una fase successiva, quando la Turchia avrebbe
involontariamente partecipato all’offensiva per profittare dell’altrui
arretramento. Al termine di un negoziato cui parteciparono anche Russia e
Cina (oltre a Gran Bretagna, Francia e Germania), Washington e Teheran
siglarono uno specifico accordo che consentiva agli iraniani di
rilanciare la propria economia e agli americani di guadagnare tempo.
Finché l’intervento della
Russia nel conflitto siriano non ha alterato i calcoli dei burocrati
d’Oltreoceano. Scongiurando il crollo del regime, Putin ha mantenuto
Damasco nella mezzaluna sciita di matrice persiana. Abbastanza per
indurre la superpotenza a cambiare tattica. Certificata l’incapacità dei
ribelli di rovesciare il regime baatista e l’afflato jihadista di molti
gruppi che afferiscono alla loro galassia, oggi vorrebbe puntare sulla
vocazione imperiale della Turchia per spezzare i sogni di gloria
iraniani. Al punto da accogliere favorevolmente il recente ingresso di
Ankara nell’agone siriano, a dispetto di una retorica condanna. Ma Erdoğan
non è ancora disposto a disputare militarmente il controllo della
Siria. Piuttosto preferirebbe raggiungere un compromesso, in attesa
dell’inevitabile dipartita dei russi e dell’affinarsi delle capacità
delle sue Forze armate, da decenni soltanto teoriche.
Infine, il
principale mutamento della tattica statunitense si è verificato sullo
scacchiere orientale. Distratta da quanto capitava in altre regioni del
pianeta e ignara della repentina accelerazione nelle capacità
tecnologiche del regime nordcoreano, lo scorso autunno la superpotenza
ha scoperto che P’yŏngyang
dispone di un notevole arsenale nucleare, non ancora utile per colpire
il territorio nordamericano ma abbastanza cospicuo per fungere da
deterrente. Dopo aver immaginato di trasferire sulla terra il
contenimento della Cina attraverso l’implosione del Regno eremita e il
successivo raggiungimento del fiume Yalu da parte dei circa 30 mila
soldati statunitensi presenti nella penisola coreana, le agenzie
federali sono state chiamate a decidere se intervenire militarmente
contro il regime, oppure rassegnarsi a quanto accaduto.
Contrariamente a qualche anno
fa, dopo molto riflettere hanno stabilito di accettare lo sviluppo
avverso, poiché sarebbe stato troppo oneroso attaccare le istallazioni
nordcoreane e per evitare che un’azione unilaterale causasse l’ulteriore
scadimento delle relazioni con la Corea del Sud, assai contraria alla
soluzione militare. Privo di opzioni migliori, in primavera Trump ha
accolto l’invito di Kim Jong-un a incontrarsi, nel tentativo di
posticipare il contraccolpo mediatico. Gli americani non rinunciano al
proposito strategico di soffocare l’ascesa della Repubblica Popolare e
nei prossimi anni cercheranno di raggiungere il confine cinese da
un’altra regione del continente. Probabilmente in Indocina. Eppure oggi
ritengono troppo rischioso lanciarsi in una campagna militare che
stravolgerebbe un favorevole assetto geopolitico. Da consumati attori
della scena internazionale.
5. L’attuale misura statunitense è frutto di un mutamento genetico.
Per questo incomprensibile ai più. Dopo aver considerato a lungo il
disordine una pericolosa minaccia al primato globale, adesso Washington
tollera e favorisce una moderata dose di caos. Dopo aver pensato di
imporsi in ogni crisi, ha compreso che l’entropia può rivelarsi utile.
Specie se convogliata nei teatri in cui sono attivi i suoi rivali.
Perché può palesarne le incongruenze, inquinarne la traiettoria,
costringerli a impantanarsi in sua vece. Consapevolezza tipica di un
egemone di lungo corso, contemporaneamente contento del proprio successo
e affaticato dallo sforzo profuso. Così da soggetto revisionista,
l’America si è tramutata in esponente dell’ancien régime. Da
imperialista si è fatta imperiale. In formula: ha smesso di fare la
guerra semplicemente perché può, scegliendo di intervenire soltanto
quando deve, ovvero quando è in pericolo la sua supremazia. Il resto è
lasciato alla cura o all’imperizia degli altri. Con gli apparati che,
esautorati nelle loro prerogative soltanto in tempi straordinari, in
epoca di gestione ordinaria aumentano l’ingerenza sull’esecutivo
federale.
Maturazione
netta, fisiologica eppure criptica, in grado di prolungare l’epopea
statunitense. A patto che la superpotenza sappia confermare tanto
distacco, senza lasciarsi travolgere dalla propria ancestrale natura o
dalla depressione del suo ventre. Riuscendo a trattenere il suo
intrinseco militarismo, tendente all’azione anche in contesti
astrategici, e a combattere la diffusa apatia dell’opinione pubblica,
tendenzialmente incline a guardarsi l’ombelico. Compito che nei prossimi
anni sarà ulteriormente complicato da una popolazione che diminuisce di
età e che per inerzia cercherà nell’impresa bellica la valvola di sfogo
alla propria esuberanza. Nonché dagli sconvolgimenti interni che tali
dinamiche demografiche produrranno e che potrebbero trasferire la guerra
proprio sul territorio nazionale. Quando gli Stati Uniti necessiteranno
della loro proverbiale disciplina sociale per respingere gli impulsi
sovversivi e mantenere la rotta. Per restare reazionari, senza ritirarsi
dal mondo.
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