Non passerà molto che anche i M5s proveranno l' ebbrezza di non riuscire a tenere insieme gli stessi segmenti sociali che li compongono, fenomeno che investe regolarmente, nel giro di sempre meno tempo, le aggregazioni che vanno al governo. I 5S si stanno logicamente premurando.
Alla voce "interesse generale nazionale" (cioè piccolo borghese) -declinato rigorosamente in maniera generica- se la giocano loro e la Lega, ognuno in abbastanza definiti limiti geografici: il gap nord-sud non finisce di alimentare il frazionamento politico.
Purtroppo per entrambi loro quei pochi decimi di PIL e di disoccupazione recuperati ultimamente non giocano a favore, anche se conseguiti unicamente sulla scia di cause esogene e per nulla percepiti ai piani bassi. Ma il plebeo è portato a sperare.
Scrivevo queste poche righe l' ultimo giorno dello scorso anno, un pò azzeccandoci un pò toppando nelle dimensioni della disfatta dei due principali partiti della seconda repubblica. La speranza ha portato gli italiani a votare in massa contro l' assetto istituzionale che reggeva da 25 anni. Non è cosa da poco per il moderatismo italico. Per gli astensionisti tignosi come il sottoscritto bisognerà aspettare la seconda gamba della crisi.
La domanda di assistenzialismo immediato al sud (quindi dove si sostituisce statalismo a statalismo) e flat tax assieme alla promessa di un paese più veloce al nord rappresentano bene l' accelerazione di una specifica crisi interna - all' interno di una crisi generale che ancora ha da esprimersi pienamente-. In più il miraggio della impossibile, nel concreto, abolizione della legge Fornero ha portato verso i vincenti un bel pò degli elettori anziani e di mezza età, praticamente quelli che ancora votavano PD.
Non ho trovato neanche un articolo che fosse di mio gradimento nel commentare le elezioni di una settimana fa: tutti impegnati nel poco appassionante gioco del toto-governo. Buttare immediatamente nel cesso le ragioni socio-economiche è il fiore all' occhiello dell' intellettualità nostrana, e così non rimane loro che la ragioneria politica. Quello che segue almeno prova ad aggiungere qualche motivo di sviluppo storico della piccola borghesia settentrionale e meridionale al risultato del voto.---
Il Mezzogiorno è a 5Stelle per il reddito di cittadinanza? Forse
no. E per il Settentrione (e tutto il Paese) ricordate la lezione di
Miglio. Michele Magno e Lorenzo Castellani su e giù in sidecar
nell' Italia spaccata dal voto.
Nord e Sud. L'eterno irrisolto italiano, le due
facce della stessa medaglia: l'unità cominciata male e mai finita
peggio, il limbo istituzionale, politico e culturale di un Paese che è
un'eterna speranza che non si realizza. Il voto del 4 marzo ha
consegnato ai disegnatori di mappe un'Italia spaccata in due: la Lega al
Nord, il Movimento 5Stelle al Sud. Si potrebbe dire che non c'è in
fondo nessuna novità, che questa separazione è storica e no news good news.
Non è così, perché quel voto ha aumentato la distanza, messo nell'urna
due mondi che chiedono all'unisono una sola cosa: non di essere governati,
ma di essere ascoltati e seguiti. Il Sud ha bisogno di lavoro,
istruzione, legge, ordine, cioè dei pilastri dello Stato che servono a
fare impresa; il Nord desidera un fisco dal volto umano, sviluppo
tecnologico, una politica europea. L'antropologia italiana è questo
incastro di visioni, emozioni, attenzioni e disattenzioni. Tra questi
due poli, il titolare di List sulla scacchiera piazza uno strano pezzo
che ha regole del gioco tutte sue: Roma, la Capitale, il suo non-essere
guida del Paese, ma epicentro della sua dissoluzione in entità in fuga.
Michele Magno e Lorenzo Castellani in questo duetto pongono domande,
vedono dissoluzioni e soluzioni. Il voto è finito, non possiamo andare
in pace. Buona lettura.
Sud. Non è il reddito di cittadinanza
Siamo proprio sicuri che il plebiscito ottenuto dai
Cinquestelle nel Mezzogiorno sia ascrivibile, come si ripete a sinistra,
soprattutto all’offerta di un nuovo assistenzialismo? Io non lo sono
affatto. Certo, l’idea del reddito di cittadinanza ha pesato. Poco
importa che esso, nella sua formulazione concreta, somigli al vecchio
assegno di disoccupazione. La proposta ha comunque “bucato” lo schermo
dell’immaginario collettivo, anche perché aveva il pregio delle
soluzioni semplici per i problemi complessi. Ma percentuali di voto in
taluni casi quasi bulgare non si possono spiegare soltanto con il
fascino che promana da una somma di denaro concessa “a prescindere”,
come direbbe Totò. C’è qualcosa di più, e di più profondo.
La verità è che in questi anni sul Sud è calato un
silenzio surreale, interrotto brevemente solo da qualche discussione
accademica sui Rapporti della Svimez. Ad eccezione della voce isolata di
alcuni studiosi di rango, i governi della passata legislatura non hanno
affrontato con la necessaria determinazione quello che è il nocciolo
della questione meridionale moderna. Mi riferisco al fatto che nel
Mezzogiorno il mercato e i diritti sociali, il merito e il rispetto per
l’ambiente hanno subìto la tirannide di una dimensione del “pubblico”
pervasiva e parassitaria, la quale ha nutrito affaristi, corporazioni
politiche e burocrazie amministrative, consorterie mafiose e criminali. È
cioè quella coalizione della rendita che rappresenta il principale
ostacolo allo sviluppo economico e civile delle regioni meridionali.
Nel Mezzogiorno il mercato e i diritti sociali, il merito e il rispetto per l’ambiente hanno subìto la tirannide di una dimensione del “pubblico” pervasiva e parassitaria.
Occorre ammetterlo senza ipocrisie: l’intervento
statale nel Mezzogiorno si è trasformato da soluzione in problema.
Livelli di spesa svedesi e civismo latino-americano hanno convertito la
politica locale in una macchina del consenso, attraverso la massiccia
elargizione di benefici discrezionali. Clientelismo e assistenzialismo
hanno foraggiato un “capitalismo politico” che spiazza chi vuole operare
nella legalità. Nel Mezzogiorno non manca la volontà di fare impresa,
ma essa è stata frustrata da una politica che chiedeva agli imprenditori
di essere altro da sé: di non essere imprenditori, se vogliono fare gli
imprenditori. In altri termini, se un’ora spesa per acquisire qualche
incentivo pubblico è più redditizia di un’ora spesa in laboratorio per
sperimentare un nuovo prodotto, a emergere saranno sempre i maestri
nell’uso delle normative, tanto a loro agio negli uffici regionali e
ministeriali quanto lontani dai valori della competizione e della
concorrenza.
L’intervento statale nel Mezzogiorno si è trasformato da soluzione in problema.
Il Sud, quindi, non ha bisogno di un sistema di
incentivi che ha distorto sia la crescita sia la selezione delle classi
dirigenti. Ha bisogno, invece, di tornare a vedere lo Stato impegnato
nelle sue funzioni essenziali e solo in esse: amministrare la giustizia,
garantire la sicurezza e l’ordine pubblico, fornire servizi sanitari ed
educativi decenti, infrastrutturare il territorio. Ha bisogno, inoltre,
di utilizzare i finanziamenti europei in primo luogo per l’innovazione
industriale e il risanamento urbano.
A questo punto, mi domando: non è che nelle urne di
Napoli come di Palermo o della Sardegna, più che la richiesta di un
reddito e di un lavoro garantito, hanno dilagato sentimenti di sfiducia e
di stanchezza dopo decenni di retorica meridionalistica e sprechi
enormi di risorse della collettività? Sentimenti che accomunano ormai
sia i ceti popolari, che chiedono più protezione, sia i ceti borghesi
che chiedono più progetti d’investimento utili all’intero Paese, ponendo
un argine alla speculazione fondiaria e agli appalti pubblici
controllati dai malavitosi. Fino a quando, del resto, il Sud sarà
considerato un Nord mancato, continuerà a campeggiare nei programmi dei
partiti in termini di soldi e provvidenze varie, magari tirate a lucido
con la litania della solidarietà.
È il caso di riflettere bene sul significato del
voto dei meridionali. Perché forse si sono convinti che non è il
Mezzogiorno il problema dell’Italia, ma l’Italia il problema del
Mezzogiorno.
Nord. Ricordare la lezione di Miglio
Il voto di domenica scorsa non ha solo ribaltato il
sistema politico italiano assicurando ai partiti anti-establishment
oltre metà del voto popolare, ma ha mostrato una spaccatura di cui si è
al corrente dal principio della storia d’Italia: quella tra Nord e Sud
del Paese. Il Settentrione d’Italia ha votato, a larga maggioranza, per
la coalizione di centrodestra caratterizzata dalla doppia promessa di
meno tasse e meno immigrazione. Il Meridione ha dimostrato di fornire
enorme fiducia alla proposta del reddito di cittadinanza effettuata dal
Movimento 5 Stelle.
Le elezioni hanno rimesso la Repubblica di fronte
alla realtà: l’enorme divario economico, sociale e soprattutto culturale
tra i due estremi d’Italia. L’Italia fredda e l’Italia calda continuano
ad essere divise e caratterizzate da opposti interessi. Pochi sono
stati i pensatori italiani capaci di riflettere sulle soluzioni
istituzionali tali da ordinare questo conflitto e colmare questa
distanza che, dopo oltre 150 anni di vita dello Stato italiano, appare
incolmabile. Tra questi uno dei più significativi, e quello che ha
fornito gli spunti più anticonformisti, è stato sicuramente Gianfranco
Miglio di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita. Sebbene
sia noto al grande pubblico sostanzialmente come l’ideologo della Lega,
elaboratore concettuale del federalismo e della secessione, lo studioso
lariano è stato molto più di questo. Nella sua carriera accademica
Gianfranco Miglio si è confrontato con una moltitudine d’interessi: la
storia del pensiero politico, la storia amministrativa, la filosofia
politica, la scienza politica con escursioni in campi affini allo studio
delle società come la biologia, l’antropologia, le neuroscienze. Il
politologo andava alla ricerca delle regolarità della politica, cioè
quei comportamenti tipizzati, consuetudinari, che si potevano
rintracciare nello snodarsi della storia. Da realista, e senza mai
perdere l’approccio positivista, Miglio cercava le leggi, gli arcana imperii,
della dinamica politica per poter non solo interpretare il presente, ma
predire a lungo termine le mutazioni politiche ed istituzionali. In
tutti gli scritti del Professore si rintracciano molteplici riferimenti
alla storia, sia classica che moderna, a sostegno dei propri schemi
concettuali e dell’analisi degli smottamenti politici del politica
postideologica.
Miglio comprendeva, già alla fine degli anni Settanta, che il privato avrebbe trionfato sul pubblico, almeno per una certa fase storica.
Alla base della teoria neofederalista di Miglio c’è
senza dubbio un’assunzione fondamentale: la crisi e il necessario
superamento dello Stato moderno, ovvero di quel percorso di
razionalizzazione del potere politico iniziato alla fine del 1500 e
culminato nella Rivoluzione Francese. Uno Stato che poi si è fatto
prevalentemente amministrazione, strumento di supporto ai processi di
industrializzazione dell’Ottocento, e successivamente Stato burocratico e
del welfare nel Novecento. L’alto magistero di Max Weber, che per primo
mise in guardia l’opinione riguardo la trasformazione del potere
politico in regolazione burocratica e centralista, non verrà mai
dimenticato da Gianfranco Miglio. Uno Stato che nel periodo tra la Prima
e la Seconda guerra mondiale si trasformerà in una macchina di
oppressione e morte.
Sul far degli anni Ottanta l’allora Preside della
facoltà di Scienze Politiche della Cattolica orienterà i propri studi
proprio sull’ingegneria istituzionale, sulla necessità di disegnare una
nuova Costituzione che si adeguasse ai cambiamenti della storia e
superasse il vecchio modello statuale considerato oramai inefficiente
nell’organizzare un potere che andava sempre più disperdendosi sia
orizzontalmente, cioè verso la globalizzazione, sia verticalmente, cioè
verso l’individuo nel mercato. Egli scriveva nel 1990 sul Sole 24 Ore:
“Dobbiamo convincerci che lo Stato, il "grande" Stato nazionale, dalle
precise frontiere - come azienda un tempo ottimale per soddisfare i
bisogni degli uomini - è superato: che al suo posto si affermerà sempre
più un tessuto, senza confini precostituiti, di convenzioni e relative
autorità - costruite in vista dei concreti bisogni degli uomini - ed
esteso dalla pluralità delle modeste aggregazioni naturali "di
base" (Stati-Regione) fino alle intese condizionali per vaste aree (di
carattere soprattuto economico).” Miglio comprendeva, già alla fine
degli anni Settanta, che il privato avrebbe trionfato sul pubblico,
almeno per una certa fase storica. In questo senso egli considerava
superato il prevalere dell’obbligazione politica, imperituro vincolo
d’obbedienza allo Stato moderno e caratteristica fondamentale dello
stesso, a favore delle forme contrattuali e pattizie, sia a livello
economico che politico.
"Dobbiamo convincerci che lo Stato, il "grande" Stato nazionale, dalle precise frontiere - come azienda un tempo ottimale per soddisfare i bisogni degli uomini - è superato".
Il politologo immaginava una Repubblica nuova,
mediterranea, adatta a tutti gli italiani perché basata su patti di
collaborazione tra diverse aree regionali. Non, dunque, uno Stato
accentrato dominato da due squilibri, quello fiscale al Nord e quello
della spesa pubblica al Sud, ma una unione federale su modello svizzero.
In particolare egli credeva che la Penisola andasse divisa in tre
macro-regioni: Nord, Centro, Sud in cui ogni territorio avesse ampio
spazio amministrativo e finanziario. Reputava, non a torto, lo Stato
italiano come un’opera incompiuta e irriformabile dal centro poiché
scarsamente legittimato agli occhi dei cittadini. Visto da Sud come
fornitore di sussidi e posti di lavoro da colonizzare e dal Nord come
uno spietato esattore fiscale e moloch burocratico. In questa situazione
Miglio intravedeva ciò che sarebbe successo progressivamente vent’anni
dopo con l’ingresso nelle nuove regole europee: il trionfo del disordine
politico a causa della riduzione dei contributi pubblici rispetto al
passato nel meridione e l’aumento della pressione fiscale nel
centro-nord. Due fatti che si verificheranno puntualmente e porteranno
ad un lungo periodo d’instabilità politica, e scontento popolare,
dapprima nel 1992 e poi a partire dal 2013.
In questo scenario Miglio considerava la riforma
della Costituzione in senso federale come l’unica possibile per
risolvere le contraddizioni interne al sistema politico e per permettere
agli italiani di convivere pacificamente secondo gli usi e costumi di
ogni latitudine geografica. Ciò avrebbe permesso di ridurre
l’oppressione fiscale nel Nord e di asciugare le sacche di clientelismo
al Sud. E, anche qualora ciò non fosse accaduto, egli prevedeva la
possibilità di rescindere il patto alla base della federazione
permettendo a ciascuna macro-regione di rendersi indipendente. Con
queste posizioni così eterodosse il Professore rimase una voce unica,
isolata, spesso anche da suo partito, ma sempre capace di esprimere un
certo anticonformismo accademico e politico volto ad alimentare un
dibattito privo delle barriere del politicamente corretto.
Miglio considerava la riforma della Costituzione in senso federale come l’unica possibile per risolvere le contraddizioni interne al sistema politico.
Profetici furono i pensieri di Miglio anche rispetto
all’Unione Europea così, infatti, egli scriveva nel 1993: “L’Europa di
domani avrà tutt’altro aspetto. Sarà plasmata dai rapporti economici,
l’unica parte vitale della costruzione europea” e ancora “è evidente che
oggi in Europa i rapporti di potenza si basano su altri fattori,
essenzialmente economici e culturali. È qui che sta la forza della
Germania, non certo nelle sue divisioni corazzate di un tempo.” Aspirava
ad una Europa autenticamente federale, ma in un senso diverso dalla
vulgata comune volta ad immaginare l’Europa Unita come un super-Stato
europeo: “Ecco la radice del neofederalismo. La sua vittoria è la
vittoria del contratto sul patto politico, sullo ius publicum europeaum
dell’Europa statalista. E’ l’affermazione di una pluralità di sovranità
contro l’idea della sovranità assoluta. È un’idea molto democratica,
perché fondata sulla libera volontà di stare insieme.” Ritornano ancora
le regolarità ricercate da Gianfranco Miglio, ovvero la storia come
pendolo che oscilla tra l’obbligazione politica dello Stato moderno e il
contratto; e l’ideologo leghista individuava nel passaggio tra
ventesimo e ventunesimo secolo, in Italia come in Europa, una fase di
prevalenza del contratto sull’obbligazione politica e del patto federale
sul vecchio Stato centralizzato e burocratico. Per questo motivo egli
non risparmierà critiche all’Unione Europea nell’ultima parte della sua
vita, quando i più si atteggiavano ad imbizzarriti europeisti,
sostenendo come questa non dovesse diventare una grande Stato
sovranazionale, ma una vera federazione in grado di abbattere le ultime
resistenze degli Stati nazionali. Le irriducibili diversità dei popoli
europei, sosteneva Miglio, non potevano essere omogeneizzate e
ricondotte all’unità poiché l’ordine politico sarebbe deflagrato. Anche
questa divenne una profezia che la storia sta tutt’ora sfiorando. Egli
immaginava, piuttosto, un’Europa delle città e delle regioni connesse
tra loro dal mercato comune e dalla scelta volontaria di mettere in
comune alcune competenze su materie non riducibili su scala locale come
le infrastrutture, l’energia e l’ambiente.
"In Europa i rapporti di potenza si basano su altri fattori, essenzialmente economici e culturali. È qui che sta la forza della Germania, non certo nelle sue divisioni corazzate di un tempo".
Da ultimo Gianfranco Miglio aveva messo in conto,
nelle sue teorie, anche l’avvento di movimenti politici populisti e di
un clima culturale con crescenti livelli di irrazionalità. Il politologo
comasco era consapevole che la politica potesse avere, con una certa
regolarità storica, effetti disordinanti sull’ordine politico. Un
sistema poteva indebolirsi, decadere e collassare. Questo perché le
regole non possono imbrigliare la politica in quanto il conflitto
politico è sempre irriducibile al giuridico. Per questo egli non
considerava mai i sistemi costituzionali come eterni, ma sempre esposti
alla tempesta delle trasformazioni politiche e per questo sempre
rivedibili ad ogni cambio di generazione. Allo stesso tempo, egli
sosteneva, anche il diritto non poteva mai essere fatto coincidere con
lo Stato perché il patto e il contratto contesteranno sempre il
monopolio del potere al Leviatano. Il pendolo della storia, insomma,
avrebbe continuato ad oscillare tra le sue regolarità.
Una grande lezione che, come si può notare, risulta
ancora una bussola fondamentale per orientarsi nella politica odierna.
Tanto in Italia quanto in Europa.
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