Articolo di un anno fa su una serie tv che ho amato molto e scritto da un blogger che ho frequentato in rete e di cui sto leggendo il primo libro, i cui temi e tesi sono stati sviluppati lungamente sul blog in questione: eschaton.---
Per cinque stagioni, dal 2008 al 2013, una serie
televisiva ha raccontato quell’America disperata che si preparava a
votare Donald Trump: si tratta di Breaking Bad. Ovvero la
storia di un insegnante scolastico di chimica che, non potendosi pagare
le cure per il cancro, inizia a produrre e spacciare droga. Ma è proprio
in questo stringatissimo riassunto — e nel rapporto di causa ed effetto
che suggerisce — che sta tutta l’ambiguità della serie, nonché il suo
contributo alla comprensione del fenomeno-Trump. Perché in realtà Walter
White, il protagonista, quelle cure potrebbe benissimo pagarsele.
Potrebbe se accettasse di rivolgersi a un medico convenzionato con
la sua assicurazione, potrebbe se per puro orgoglio non avesse
rifiutato una certa offerta di lavoro, e soprattutto potrebbe se il suo
stile di vita non prevedesse una villa con piscina (come quindici milioni di famiglie negli Stati Uniti) e una moglie casalinga da mantenere. Uno stile di vita, la cosiddetta american way of life,
che sulla scala delle disuguaglianze mondiali costituisce un
irraggiungibile modello di benessere. Di fatto la povertà di Walt è una
povertà relativa. Proprio come quella di molti americani che hanno votato Trump.
Che sia stato “il Popolo” a votare massicciamente il candidato
repubblicano alle presidenziali americane, come sostenuto in un primo
momento da giornalisti pigri al traino della moda gentista, è stato
ormai ampiamente smentito dai dati socio-demografici. Non soltanto Trump ha perso
contro Hillary Clinton nel cosiddetto “voto popolare” (e vinto invece
sulla base del sistema del collegio elettorale) ma inoltre il suo
elettorato non è assolutamente costituito dalla fascia più povera della
popolazione. La maggioranza degli elettori che guadagnano meno di
cinquantamila dollari all’anno, tra cui ovviamente molti neri, ha votato
Clinton, che da parte sua rispetto a Obama ha perso sei milioni di
voti. Ma in fondo tutti quanti gli americani, bianchi e neri, per quanto
poveri sono in qualche modo “azionisti” della supremazia commerciale,
militare e monetaria della loro nazione. La rabbia che sale dal cuore
dell’America, insomma, non è precisamente la rabbia degli ultimi. È una
rabbia molto più violenta e distruttiva: è la rabbia dei declassati.
Bisogna ricordarlo a tutti coloro che vorrebbero arruolare Trump alla
causa dell’anticapitalismo (peraltro in aperta contraddizione con il suo
programma) quando invece quella che hanno di fronte è la rivolta del 10 per cento più ricco del pianeta che fa i conti con la crisi del suo modello di sviluppo.
Il male che affligge Walter White, ovvero l’americano medio, è tutto
sociale. Lui si sente un fallito in una società di «cacciatori di
prestigio», come li chiamava il sociologo Vance Packard negli anni
Sessanta. La sua discesa negli inferi del narcotraffico non è altro che
il prodotto di una rivalità mimetica con il cognato poliziotto, con i
colleghi, con i vicini. Quando la signora White propone al marito di
mettersi a lavorare per aiutarlo a pagarsi le cure, lui scaccia via
l’assurda ipotesi senza nemmeno discutere. Ma insomma cos’è questo, un
film di Alberto Sordi? Proprio così : una specie di remake del Maestro di Vigevano o del Boom,
film che raccontavano le patologie della cosiddetta società affluente.
«Mia moglie non deve lavorare!» è precisamente quello che esclama
Antonio Mombelli, insegnante elementare in una scuola di Vigevano,
quando per arrotondare le entrate la moglie propone di farsi impiegare
in fabbrica. Nel Boom, invece, il protagonista Giovanni Alberti decide addirittura di vendere un occhio
pur di continuare a garantire il proprio dispendioso stile di vita.
Quella di Walter White, come quella di Mombelli e Alberti, è una
tragedia borghese.
Non c’è da ironizzare sul malessere sociale che può portare un
individuo a vendere un organo, spacciare droga o votare un politico che
promette cose impossibili. D’altronde è un destino che noi, classe disagiata presa nella spirale del declassamento,
conosciamo bene. Con calcolato buonsenso politici d’ogni sponda
invitano ora a tenere in considerazione quel disagio, la “mucca nel
corridoio” come direbbe Pierluigi Bersani. Ma invece di alimentare il
risentimento della classe media, che gioverà soltanto ai partiti
populisti, sarebbe più onesto ricordare che questo disagio si fonda
innanzitutto su un doloroso malinteso. Bisognerebbe cioè avere il
coraggio di dire agli elettori, come ha fatto Michael Land su Politico.com: «Sorry, Trump, America Can’t Be Great Again». Perché, come ha mostrato l’economista Robert Gordon nel suo recente libro The Rise and Fall of American Growth, il grandioso ciclo industriale inaugurato nella seconda metà dell’Ottocento è semplicemente concluso.
Perché, come predica da qualche anno l’ex-segretario del Tesoro Larry
Summers, potrebbe essere iniziata una stagnazione secolare delle
economie avanzate. Perché, come insegna persino la dottrina marxista, i
cicli del capitalismo sono minati da contraddizioni insanabili che
presto o tardi arrivano a maturazione.
La grande menzogna dei politici populisti è di lasciar
credere ai loro elettori che a essere perdenti nella divisione del
lavoro internazionale siano i Paesi occidentali. In realtà se davvero
Donald Trump chiuderà le frontiere sarà proprio l’attività del povero
Walter White la prima a farne le spese. Perché l’immensa ricchezza che
l’ex insegnante di chimica ha accumulato cucinando metanfetamine non
dipende soltanto dalle sue competenze e dal suo lavoro, né dal design e
dal branding come direbbero quelli di Apple, ma da un fattore di
produzione di cui in Breaking Bad si parla poco: la materia
prima. L’ingrediente principale della ricetta di White si chiama
pseudoefedrina, un alcaloide usato in medicina come decongestionante
delle mucose nasali. Nel 2012, gli Stati Uniti ne importavano 180.000 kg soprattutto dalla Germania, dalla Cina e dall’India.
Arrivando in coda della catena del valore, lo Steve Jobs della droga è
in grado di decuplicare, anzi centuplicare il return on investment sulle sue materie prime. Perché il benessere delle economie avanzate, come mostrò l’economista sudafricano Hosea Jaffe,
regge sullo sfruttamento della forza-lavoro mondiale. L’attuale crisi
sorge insomma dall’incapacità di spremere ulteriormente un plusvalore
che si assottiglia al ritmo delle contrazioni del capitalismo,
dell’evoluzione tecnologica e della concorrenza internazionale. In
questo senso l’Occidente non ha vissuto sopra le proprie possibilità;
semmai sopra quelle degli altri.
Che cosa può dunque portare una potenza imperiale come gli Stati Uniti a sognare con Trump la strada dell’isolazionismo? Accade in America la stessa cosa che sta accadendo in Italia, Francia, Inghilterra: la classe transnazionale che per decenni, spesso senza nemmeno accorgersene, ha indirettamente goduto dei benefici della globalizzazione, di fronte ai rendimenti decrescenti del sistema ha elaborato un vigoroso risentimento e partorito un’ideologia sovranista che mima grottescamente il socialismo. Ma si tratta del socialismo allucinatorio della borghesia declassata. Nella sua precedente incarnazione storica, lo si era chiamato fascismo. Una droga molto più pesante della meth.
Che cosa può dunque portare una potenza imperiale come gli Stati Uniti a sognare con Trump la strada dell’isolazionismo? Accade in America la stessa cosa che sta accadendo in Italia, Francia, Inghilterra: la classe transnazionale che per decenni, spesso senza nemmeno accorgersene, ha indirettamente goduto dei benefici della globalizzazione, di fronte ai rendimenti decrescenti del sistema ha elaborato un vigoroso risentimento e partorito un’ideologia sovranista che mima grottescamente il socialismo. Ma si tratta del socialismo allucinatorio della borghesia declassata. Nella sua precedente incarnazione storica, lo si era chiamato fascismo. Una droga molto più pesante della meth.
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