Angelona nostra l'ha detto chiaro chiaro: "io mi prendo i siriani" che per contro significa anche "vedete un pò che riuscite a fare con gli altri". Essere al centro dell' Europa ha i suoi vantaggi in termini di esposizione dei confini. Un colpo da maestro quello della cancelliera a mettere in difficoltà i leader di economie nazionali messe molto peggio della sua. Dai colloqui con Tsipras la Merkel sembra essersi disinibita in quanto a leadership, più conscia del proprio potere, rispetto agli altri governanti europei.Vedremo come la piglierà la società civile di cui è espressione.
Qui propongo un articolo recentissimo di Aspeniaonline (titolo:"Le rotte dei migranti e l'Europa senza bussola") che illustra come la crisi migratoria intersechi le tensioni fra gli stati della zona balcanica. L' autore chiude con la lamentazione per la mancanza di iniziativa paneuropea; a mio avviso l' unica iniziativa valida sarebbe l'uscita dall' europa capitalista e la costruzione della comunità umana europea, avanguardia di quella mondiale.---
La crisi dei profughi che sta investendo i Balcani ha
portato alla luce le conseguenze delle mancate soluzioni ad alcune
criticità dell’agenda internazionale – a partire naturalmente dalla
Siria – e non può essere ridotta, alla locuzione “la nuova rotta dei
migranti”. Anzi, questa stessa idea di novità è un falso clamoroso.
I
profughi, in prevalenza siriani e afghani, ammassati al confine
macedone non sono dei volenterosi che hanno scovato, appunto, una nuova
rotta; è sufficiente uno sguardo alla mappa per capire come la strada in
questione sia la direttrice principale, se non quella obbligata, per
chi voglia raggiungere il nord Europa fuggendo dal Medioriente.
Ma
allora cosa è cambiato? Perché migliaia di profughi hanno iniziato a
premere con più insistenza sul confine della Macedonia e da lì sono
passati in Serbia e quindi in Ungheria, innescando tragedie umanitarie
che purtroppo non resteranno isolate e che hanno nelle analoghe tragedie
del Mar Mediterraneo un lugubre parallelo?
È accaduto che la
Turchia, e soprattutto la Grecia, hanno interrotto la loro funzione di
filtro dei migranti in costante arrivo dallo scenario siriano (ma anche
afghano), e questa condotta – ovviamente deliberata – ha innescato la
reazione a catena che ha investito i Balcani. Viceversa dovremmo credere
che 100.000 profughi nelle ultime settimane d’agosto siano partiti
dalla Siria per raggiungere il confine macedone non visti e non
intercettati da alcuna autorità turca o greca per oltre 2.000
chilometri.
Se la rotta turca può in parte essere aggirata via
mare, il territorio greco rimane un approdo obbligato. Occorre tuttavia
darsi un po’ di prospettiva storica per capire come Atene sia stata il
fattore scatenante della crisi attuale. Per posizione geografica la
Grecia, con l’Italia, rappresenta la porta meridionale dell’Europa e nel
corso degli ultimi cinque anni è stata il paese che maggiormente ha
dovuto subire flussi migratori innescati dalle crisi regionali (Siria,
Iraq) e dalla pressione demografica (Afghanistan, Pakistan, Bangladesh).
Dal
fiume Evros, al confine con la Turchia, prima che per volere di Atene e
della UE venisse eretto un muro, le stime ufficiali indicavano in
50.000 all’anno i migranti entrati (e mai usciti) in Grecia. Come il
paese abbia saputo, o potuto, gestire quest’emergenza umanitaria è
purtroppo noto. Le condanne che la Corte di Strasburgo ha inflitto anche
di recente ad Atene per le costanti violazioni dei diritti umani sono
la conferma penale di una condizione carceraria (il 60% dei 12.000
detenuti sono stranieri) inimmaginabile per gli standard europei, come a dir poco drammatico è il degrado dei centri di detenzione per i migranti sparsi nel paese.
La
crisi dell’euro ha dato il colpo di grazia a quest’emergenza, tanto che
nel corso degli ultimi anni si era verificata una circostanza
paradossale: Atene, insolvente e inaffidabile in termini economici verso
i creditori e più volte sull’orlo del baratro finanziario, per una
sorta di compensazione non scritta tutelava i partner europei trattenendo migliaia di migranti in condizioni impietose, impendendogli di proseguire il viaggio in cerca d’asilo.
Si
era al rodaggio di Dublino II (accordo varato nel 2003) e i migranti,
impossibilitati a tornare indietro, sono via via rimasti bloccati in
Grecia dove le autorità non hanno rilasciato le carte che permettessero
al loro viaggio di continuare. Atene e le principali città greche
divennero così, e sono tutt’ora, una sorta di prigione a cielo aperto
abitate da apolidi senza più patria.
Arriviamo così all’ultimo
salvataggio finanziario, che ha sì evitato il default greco (anche se a
questo punto occorrerebbe intendersi su cosa sia davvero un default…) ma
ha causato l’ennesima frattura nelle forze politiche interne portando
alle elezioni anticipate del 20 settembre In questo scenario di grande
frustrazione nazionale, anche negli ambienti delle élite con
importanti ruoli di sicurezza, è altamente probabile che sui migranti
sia venuta temporaneamente meno quella implicita tutela verso il salotto
buono d’Europa cui si accennava pocanzi.
Girando la testa
dall’altra parte Atene ha mandato un segnale forte all’Europa che, in
tema migranti, non è stata in grado di decidere in maniera chiara,
durante la primavera scorsa (al solito in un clima d’emergenza emotiva
dopo l’ennesima ecatombe nel Mediterraneo), come distribuire tra i
diversi paesi le 40,000 unità che, complessivamente, Italia e Grecia
avevano sino a quel momento gestito in autonomia. Peraltro, sulla
verosimiglianza di queste cifre (probabilmente troppo modeste) è lecito
nutrire non pochi dubbi.
Sul piano regionale, inoltre, la Grecia è
riuscita a mettere in difficoltà la Macedonia, con la quale i rapporti
sono da sempre a dir poco precari. Il governo di Skopje, già travolto da
diversi scandali e alle prese con il crescente problema etnico della
minoranza albanese, si è quindi trovato impreparato rispetto al flusso
proveniente dalla Grecia.
Il contenzioso tra i due vicini verte
attorno al nome di Macedonia che i greci rivendicano per sé e che
costituisce il principale ostacolo all’entrata nella NATO della
Repubblica di Macedonia (nome ufficiale FYROM, Former Yugoslav Republic
of Macedonia), dal momento che la Grecia ha sinora fatto valere il suo
diritto di veto. Questo problema si sta rivelando l’ennesimo fattore di
divisione, perché spinge il governo di Gruevski a rafforzare i legami
con Mosca, sia sul piano identitario del panslavismo in chiave
anti-albanese, sia su quello diplomatico dato appunto il veto di Atene
all’ingresso nell’alleanza atlantica.
Alla luce di queste tre
enormi criticità – collasso economico-finanziario, posizione geografica
sensibile, rapporti diplomatici regionali – appare chiaro come la Grecia
sia oggi un paese-chiave soprattutto in senso negativo. Ma, ovviamente,
è soltanto un anello della catena. Proseguendo l’odissea balcanica, i
profughi una volta superato a fatica il confine macedone hanno trovato
la totale collaborazione delle forze serbe che li hanno scortati sino al
confine con l’Ungheria, dove rimane ancora aperto l’ultimo piccolo
varco nel muro voluto dal governo conservatore di Budapest per frenare
le ondate di esuli – a ulteriore conferma che la rotta di questo agosto
non sia affatto “nuova.”
L’idea che la crisi dei migranti possa
incendiare i già precari equilibri balcanici è probabilmente
un’esagerazione, dal momento che la Serbia, come la Macedonia, è alle
prese con un problema inter-etnico – quello degli gli albanesi del
Kosovo – le cui implicazioni riguardano sì il quadro regionale, ma
appaiono storia distinta dal tema dei flussi.
Nell’Ungheria
guidata da Viktor Orbán, la sorte dei migranti appare invece più incerta
mentre nel cuore dell’elegante Mitteleuropa austriaca (dove il
cappuccino si chiama melange), 71 profughi possono morire
soffocati in un camion abbandonato in autostrada. I ministri degli
Esteri rilasciano le dichiarazioni di rito ma la domanda sul cosa fare è
sempre più imperativa; le risposte, purtroppo, sembrano esserlo molto
meno.
Come abbiamo visto, i problemi vengono principalmente da
due quadranti: quello asiatico con Siria e Afghanistan, snodo in
Turchia, e impatto sui Balcani a partire dalla Grecia; quello africano
con Eritrea e Nigeria, snodo in Libia, e impatto sul Mediterraneo a
partire dall’Italia. Ciascuno di questi quadranti si compone di crisi
recenti e di crisi croniche. Recente quella siriana, cronica quella
afgana (il paese, è interessante ricordare, è l’unico non africano tra i
primi 20 al mondo per indice di natalità); recente la crisi della
Nigeria alle prese con corruzione e minaccia islamista di Boko Haram,
cronica la situazione del Corno d’Africa.
Ora, pensare che
un’Europa in difficoltà nel gestire la collocazione di 40.000 migranti
(ma probabilmente molti di più) possa influire sulle cause scatenanti
dei flussi è illusorio. Certo, sul piano diplomatico si potrebbe fare di
più: senza il via libera della Russia – esclusa inspiegabilmente
dall’ultimo vertice sull’Ucraina convocato da Merkel e Hollande a
Berlino il 24 agosto scorso (inviato Poroshenko e non Putin) – è
impossibile ad esempio qualsiasi azione sotto bandiera ONU contro i
trafficanti in Libia. Sempre senza la Russia sarà inverosimile trovare
una soluzione alla guerra in Siria, la cui ultima e fallimentare
conferenza di pace risale addirittura al febbraio 2014 (Ginevra II).
Sul
piano pratico, infine, la solidarietà europea è di fatto lasciata
all’iniziativa nazionale: ovvio che l’efficace risposta tedesca o
svedese, in termini di risorse e di organizzazione, non può essere
paragonata a quella spagnola, italiana o greca che scarseggia in
entrambe le voci. È certo però che senza un reale coordinamento il
problema è davvero ingestibile, per la sua stessa natura fluida e
transfrontaliera.
L’Europa sembra quindi nuda: l’ennesima
riunione dei responsabili UE convocata per il 14 settembre ha i
caratteri formali dell’urgenza, ma è fissata a due settimane di distanza
– a conferma di una specie di distonia tra l’alta politica e i fatti
sul terreno. E non dimentichiamo che per la “redistribuzione volontaria”
dei 40.000 serve ancora un passaggio in aula all’Europarlamento, prima
che divenga esecutiva de iure.
Insomma, purtroppo resta
una conclusione amara: l’Europa deve gestire una crisi umanitaria
probabilmente troppo complessa per l’attuale capacità della sua governance collettiva.
Grazie della segnalazione, ottimo articolo infatti.
RispondiEliminaCondivido in pieno la tua ultima frase introduttiva, disperando.
grazie a te delle parole
RispondiElimina