S&P ha declassato il debito brasiliano al livello più alto della categoria junk. Un enorme paese con enormi ricchezze che però possono diventare enormi problemi. Lo status quo prodotto dall' abbondanza di commodities osta al passaggio ad un capitalismo più evoluto e meno legato all' esportazione di materie prime. Qui propongo un esauriente articolo di Carlo Crauti pubblicato su Limes di qualche mese fa che trovai piuttosto utile per approfondire il rapporto ambiguo e difficile fra intervento statale in economia e competizione sistemica globale, una competizione che vede sempre più non le economie ma le società civili borghesi in concorrenza reciproca.---
Il Brasile è un paese tropicale, abitato da bestie pericolose e feroci.
Ma l’animale che i politici e gli economisti brasiliani temono di più non è un cobra velenoso, uno squalo o una onça (un giaguaro). È la gallina. O meglio, è il volo della gallina. È questo il nome, denigratorio, usato per descrivere le performance dell’economia del Brasile nell’ultimo secolo.
Ma l’animale che i politici e gli economisti brasiliani temono di più non è un cobra velenoso, uno squalo o una onça (un giaguaro). È la gallina. O meglio, è il volo della gallina. È questo il nome, denigratorio, usato per descrivere le performance dell’economia del Brasile nell’ultimo secolo.
Crescite del pil repentine – addirittura a doppia cifra per alcuni anni; poi un tonfo secco, con il ritorno a una stagnazione o recessione pluriannuale. Una traiettoria simile a quella di una gallina, che compie un salto in alto ma che viene riportata a terra, nella polvere, dal suo peso, dalle sue limitazioni fisiche e dall’incapacità di volare. Le limitazioni croniche del Brasile lo hanno portato, ancora una volta, a compiere il balzo della gallina e a rientrare in recessione.
Dopo un decennio di crescita sostenuta, ormai è ufficiale: il Brasile ha smesso di crescere. L’Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística (Ibge), l’Istat brasiliano, ha recentemente comunicato che nel 2014 il suo pil è cresciuto solo dello 0,1%, una distanza siderale dal 7,5% registrato nel 2010. Anche le potenze emergenti non sfuggono alla grande recessione.
Il rallentamento non è stato improvviso. Dal 2011 al 2013 il pil brasiliano ha infatti registrato timide espansioni, rispettivamente del 2,7%, 1% e 2,5%, molto lontane dai ritmi del decennio 2000-2010, quando, pur dovendo affrontare due crisi finanziarie internazionali, la crescita media era stata del 3,7% all’anno.
Il governo della presidente Dilma Rousseff ha finora cercato di minimizzare le deludenti performance economiche. Ma all’annuncio del Ibge anche l’esecutivo ha dovuto ammettere che il paese è in una situazione complessa. “Mi piacerebbe che il Brasile crescesse a un ritmo più veloce”, è arrivata a dichiarare Dilma, che ha sottolineato “è stato fatto di tutto per stimolare l’economia”. I dati negativi l’hanno portata a promettere un cambio di passo e qualche modifica nella squadra di governo. Spicca tra queste la scelta del nuovo ministro dell’Economia: è Joaquim Levy, un Chicago Boy dalle idee molto ortodosse, che riesce a mandare su tutte le furie i parlamentari del Partido dos Trabalhadores (Pt) ogni volta che dichiara le sue intenzioni di modificare la politica economica nazionale.
Un chiaro segnale agli operatori del mercato, che ormai a cadenza mensile continuano a rivedere al ribasso le prospettive di crescita del Brasile per il 2015. Secondo la Confederazione nazionale delle imprese (Cni), la Confindustria brasiliana, quest’anno il pil registrerà una contrazione di circa l’1,2%. Una recessione in piena regola, con un crollo della produzione industriale dell’8% nel 2014 rispetto al 2008, che sta provocando conseguenze molto gravi sia sul fronte della disoccupazione – schizzata all’8% da meno del 5% registrato nel 2013 – sia sul fronte dei conti pubblici e delle politiche sociali del governo del Pt, costrette a una brusca virata restrittiva. Il cosiddetto “riaggiustamento fiscale”.
Il governo ha attribuito la frenata al contesto internazionale sfavorevole a un’ondata di “pessimismo”. Un pessimismo in parte motivato da questioni politiche interne, in parte aizzato dalla stampa brasiliana, considerata “ostile” dall’esecutivo. Per Brasilia la colpa dei dati negativi del 2014 è anche da ricondursi all’eccessivo numero di giorni festivi proclamati durante la Coppa del Mondo di calcio e al conseguente calo dell’attività in settori quali la vendita al dettaglio e l’industria. Una spiegazione abbastanza curiosa per un governo che per anni ha propagandato il Mundial come un volano per l’economia brasiliana. Per gli economisti, gli analisti del mercato e le società di consulenza, invece, le cause dell’attuale crisi sono legate alla cattiva conduzione della politica economica da parte del governo. Un modello espansivo fondato su spesa pubblica eccessiva, clientelismo, inefficienza della pubblica amministrazione e interventi pubblici nell’economia.
Tuttavia, non esiste una singola causa che possa spiegare l’attuale momento di difficoltà economica del Brasile.
Il rallentamento non è stato improvviso. Dal 2011 al 2013 il pil brasiliano ha infatti registrato timide espansioni, rispettivamente del 2,7%, 1% e 2,5%, molto lontane dai ritmi del decennio 2000-2010, quando, pur dovendo affrontare due crisi finanziarie internazionali, la crescita media era stata del 3,7% all’anno.
Il governo della presidente Dilma Rousseff ha finora cercato di minimizzare le deludenti performance economiche. Ma all’annuncio del Ibge anche l’esecutivo ha dovuto ammettere che il paese è in una situazione complessa. “Mi piacerebbe che il Brasile crescesse a un ritmo più veloce”, è arrivata a dichiarare Dilma, che ha sottolineato “è stato fatto di tutto per stimolare l’economia”. I dati negativi l’hanno portata a promettere un cambio di passo e qualche modifica nella squadra di governo. Spicca tra queste la scelta del nuovo ministro dell’Economia: è Joaquim Levy, un Chicago Boy dalle idee molto ortodosse, che riesce a mandare su tutte le furie i parlamentari del Partido dos Trabalhadores (Pt) ogni volta che dichiara le sue intenzioni di modificare la politica economica nazionale.
Un chiaro segnale agli operatori del mercato, che ormai a cadenza mensile continuano a rivedere al ribasso le prospettive di crescita del Brasile per il 2015. Secondo la Confederazione nazionale delle imprese (Cni), la Confindustria brasiliana, quest’anno il pil registrerà una contrazione di circa l’1,2%. Una recessione in piena regola, con un crollo della produzione industriale dell’8% nel 2014 rispetto al 2008, che sta provocando conseguenze molto gravi sia sul fronte della disoccupazione – schizzata all’8% da meno del 5% registrato nel 2013 – sia sul fronte dei conti pubblici e delle politiche sociali del governo del Pt, costrette a una brusca virata restrittiva. Il cosiddetto “riaggiustamento fiscale”.
Il governo ha attribuito la frenata al contesto internazionale sfavorevole a un’ondata di “pessimismo”. Un pessimismo in parte motivato da questioni politiche interne, in parte aizzato dalla stampa brasiliana, considerata “ostile” dall’esecutivo. Per Brasilia la colpa dei dati negativi del 2014 è anche da ricondursi all’eccessivo numero di giorni festivi proclamati durante la Coppa del Mondo di calcio e al conseguente calo dell’attività in settori quali la vendita al dettaglio e l’industria. Una spiegazione abbastanza curiosa per un governo che per anni ha propagandato il Mundial come un volano per l’economia brasiliana. Per gli economisti, gli analisti del mercato e le società di consulenza, invece, le cause dell’attuale crisi sono legate alla cattiva conduzione della politica economica da parte del governo. Un modello espansivo fondato su spesa pubblica eccessiva, clientelismo, inefficienza della pubblica amministrazione e interventi pubblici nell’economia.
Tuttavia, non esiste una singola causa che possa spiegare l’attuale momento di difficoltà economica del Brasile.
Contesto internazionale
Senza dubbio il panorama internazionale non ha aiutato il Brasile negli ultimi anni, a differenza di ciò che è avvenuto nel primo decennio del XXI secolo. Il governo, tuttavia, attribuisce a questo fattore un peso maggiore di quello reale. Effettivamente, nel 2010, anno in cui il Brasile è cresciuto del 7,5%, l’espansione economica internazionale era stata del 5,2%. Nel 2014, invece, la crescita mondiale è stata del 3,4%, mentre nel 2013 solo del 3%. Questo cambiamento ha avuto un innegabile impatto sull’economia brasiliana, influendo sul livello delle esportazioni, sull’attrazione di investimenti diretti esteri e sull’aspettativa degli investitori nazionali.
Il Brasile sta soffrendo gli effetti indiretti del rallentamento dell’economia cinese e del crollo del prezzo delle commodities sul mercato internazionale. Basti pensare ai due principali beni esportati dal Brasile, i minerali ferrosi e la soia. Nel primo caso la quotazione è passata da 180 US$/dmt del 2010 a circa 40 US$/dmt nell’aprile del 2015. Per quanto riguarda la soia, il crollo è stato del 32% solo nell’ultimo anno. Per non parlare del prezzo del petrolio, che è passato da oltre 100 dollari al barile a meno di 50 dollari in circa sei mesi, creando non pochi problemi alla statale petrolifera Petrobras, impegnata nelle attività di esplorazione dei giacimenti ultra-profondi del Pré-Sal, che richiedono un prezzo del barile minimo superiore ai 70 dollari per essere redditizi. Il crollo dei prezzi delle commodities ha quindi avuto un effetto importante nel rallentamento dell’economia brasiliana, ancora fortemente dipendente dalle esportazioni di materie prime. Tuttavia, è necessario considerare i limiti dell’influenza dello scenario esterno.
Mentre il Brasile annaspava, altri paesi latinoamericani continuavano a registrare risultati considerevoli. Dal 2011 al 2013, il pil dei paesi latinoamericani è aumentato in media del 3,4% l’anno. La media dei paesi dell’Alleanza del Pacifico – Colombia, Perù, Cile e Messico – è stata del 4,9%. Quella degli emergenti addirittura oltre il 5%. Nello stesso periodo il Brasile è cresciuto solo del 2%.
Non tutti i mali dell’economia brasiliana, quindi, possono essere ricondotti alla riduzione del prezzo delle materie prime.
Deterioramento delle aspettative
Un’altra ipotesi che spiega in parte l’attuale situazione riguarda le “aspettative negative” che appiattiscono gli investimenti. Il Brasile ha storicamente registrato bassi tassi di investimento, di molto inferiori alle necessità della sua economia. Anche negli anni di euforia, il tasso di investimenti non riusciva a superare il 18% del pil, mentre secondo diversi analisti e ambienti di governo avrebbero dovuto essere almeno il 20-25%. Con l’attuale clima di sfiducia nei confronti delle performance economiche, il tasso di investimenti rischia di ridursi ulteriormente, pregiudicando la crescita attuale e futura del paese.
Secondo il governo, questo “pessimismo” sarebbe politicamente motivato, istigato dalle opposizioni e dalla “grande stampa”, che non perderebbe occasione per gettare benzina sul fuoco. Dall’altro lato, diversi analisti attribuiscono questo clima negativo alle incertezze prodotte dalla politica economica di Brasilia.
Dilma è intervenuta più volte a gamba tesa nei settori economici più disparati: da quello elettrico a quello stradale e ferroviario, fino ai beni di prima necessità della cosiddetta “cesta básica”, imponendo una riduzione dei prezzi per cercare di comprimere l’inflazione, che durante tutti gli anni dei suoi due mandati ha costantemente superato l’obiettivo fissato dalla Banca centrale. Queste decisioni hanno provocato una vera e propria rivolta negli ambienti imprenditoriali, soprattutto nello Stato di San Paolo, motore della crescita del paese.
Gli imprenditori hanno smesso di investire semplicemente perché è venuta a mancare la certezza di un ritorno economico dei loro investimenti. Gli interventi del governo, motivati da ragioni politiche e ideologiche, hanno portato a un clima di insicurezza e di aspettative negative. Di conseguenza, il rischio politico di perdere gli utili ha portato il settore privato alla riduzione delle proprie attività.
Abbandono del “treppiede macroeconomico”
Ulteriore ragione che contribuisce a spiegare questa situazione di crisi economica è stata la decisione del governo Dilma di abbandonare il “treppiede macroeconomico”, ovvero il regime di controllo dell’inflazione, cambio flessibile e rigore fiscale. A partire dal 2009-2010 l’esecutivo di Brasilia ha deciso di accantonare questa ricetta, che dagli anni Novanta aveva garantito al Brasile un certo grado di stabilità economica, per adottare una politica economica espansiva e misure di stimolo al consumo.
Si è trattato della cosiddetta “nuova matrice economica” di Dilma, tradotta in misure come la compressione forzata delle tariffe energetiche e delle accise per stimolare la domanda interna e creare consenso elettorale, o l’erogazione massiccia di finanziamenti molto agevolati della banca pubblica di investimenti, Bndes, a favore di imprese nazionali. Questa politica non ha però generato la crescita sperata, anzi ha portato a un gigantesco deficit dei conti correnti, 32,5 miliardi di reais, a un aumento dell’indebitamento pubblico e a un’inflazione fuori controllo, che quest’anno ha sfondato quota 8%. Senza contare la cosiddetta “contabilità creativa”, un maquillage dei conti pubblici brasiliani attuato dal ministero dell’Economia fino al 2014 per migliorare gli indicatori macroeconomici e dare un’impressione di controllo dei conti pubblici.
Con un’inflazione così alta, i redditi delle famiglie vengono inevitabilmente corrosi e si riduce il loro potere d’acquisto; con manovre del genere, gli imprenditori si sentono insicuri ed esitano a investire. Non solo, l’intervento del governo ha provocato una serie di squilibri e la disorganizzazione di interi settori economici. Molte aziende hanno dovuto far fronte a costi di produzione in continuo rialzo senza poterli trasferire sui prezzi finali, con un conseguente dissanguamento dei loro bilanci.
Anche gli investitori stranieri hanno lasciato in massa il Brasile. Nel solo mese di dicembre 2014 il flusso di capitali in uscita è stato di 14,542 miliardi di dollari. Un record mai registrato neanche durante il picco delle crisi del 2008 e del 1999. Non è un caso che il cambio tra euro e real (R$) sia passato da 3 R$ nel maggio 2014 a 3,50 R$ nel maggio 2015, mentre con il dollaro si è passati da un cambio quasi alla pari a 1,35 R$ per dollaro. Il crollo della valuta brasiliana ha avuto un impatto notevole sull’inflazione, ma non ha aiutato le esportazioni nazionali. Sintomo che le cause della crisi sono molto profonde e non risolvibili con una svalutazione competitiva.
La conseguenza di questa situazione di caos è stata la decisione della Banca centrale di aumentare i tassi di interesse al 13,25%, tornati ad essere così i più alti del mondo. Una misura decisa sia per combattere l’inflazione sia per attrarre investimenti esteri. Ma questa decisione ha, allo stesso tempo, ulteriormente scoraggiato gli investimenti nazionali, stroncato la domanda di credito al consumo, gettato il settore immobiliare e automotive in una seria crisi e aggravato il servizio sul debito. Per alcuni è la prova del fallimento definitivo della “nuova matrice macroeconomica” di Dilma.
Fine del modello di crescita brasiliano?
In sostanza, il Brasile è cresciuto a ritmi sostenuti a partire dal 2000 grazie a un modello basato sul consumo. Un sistema fondato sull’export di commodities a prezzi sempre più alti, che ha permesso di incamerare ingenti risorse con cui finanziare generose politiche sociali e redistributive, le quali hanno stimolato il mercato interno.
Le politiche espansive e gli interventi del governo nei diversi settori economici sono stati sopportati dal settore privato grazie alla bonanza del momento. Ma ora che le quotazioni delle materie prime sono crollate, l’inflazione è fuori controllo, il deficit continua ad aumentare e l’indebitamento pubblico è in rapido aumento, questo sistema mostra tutti i suoi limiti.
Il decennio di forte crescita, conciso con l’amministrazione Lula, non é stato sfruttato dal Brasile per rendere più efficiente la sua economia, aprirsi alla concorrenza internazionale, realizzare le infrastrutture indispensabili, investire in capitale umano, aumentare la produttività e la competitività complessiva del sistema paese. Il governo ha ritenuto che usando la leva pubblica per stimolare i consumi gli investimenti privati sarebbero naturalmente seguiti. Non è successo. Il risultato è un’inflazione da domanda, dovuta alla carenza di prodotti.
In un primo momento le misure espansive del credito e delle spese del governo hanno contribuito a evitare che il Brasile venisse colpito duramente dalla crisi internazionale del 2008. Tuttavia, oggi questo modello sembra aver finito la sua forza propulsiva. Le misure di stimolo avrebbero dovuto essere interrotte quando l’economia brasiliana ha iniziato a riprendersi, nel 2010. Se il governo avesse rapidamente fatto marcia indietro per concentrarsi sul surplus fiscale i tassi di interesse e l’inflazione sarebbero oggi più bassi e il Brasile crescerebbe di più.
Problemi strutturali
Il problema è dunque pensare non a cosa il governo ha fatto in questi anni, ma a cosa non ha fatto. L’unico modo per garantire la crescita del pil nel medio e lungo termine sarebbe stata quella di ridurre i problemi strutturali che incidono sulla competitività delle imprese brasiliane – come l’intricata burocrazia e il cervellotico sistema fiscale, le carenze infrastrutturali, scarsità di manodopera qualificata e la poca concorrenza.
Senza risolvere questioni come i seri problemi logistici o l’anacronistico codice di diritto del lavoro – una traduzione della Carta del lavoro di Mussolini in vigore dagli anni ’30, mai modificata – sarà difficile che il Brasile faccia progressi nella produttività della sua economia. Ma tutte queste riforme sono molto dolorose in termini di occupazione e hanno un alto prezzo politico, colpendo proprio la base elettorale del Partido dos Trabalhadores, che ha vinto le ultime elezioni con pochi decimali di vantaggio sulle opposizioni.
Ma se le riforme strutturali necessarie continueranno a essere rimandate e gli investimenti non saliranno, il Brasile potrà abbandonare il suo sogno di diventare un paese sviluppato. Non si può costruire una potenza emergente crescendo al massimo il 3% negli anni considerati positivi.
Dilma ha ragione quando dice che il governo ha esaurito le misure possibili per stimolare la crescita. Una crescita ottenuta negli ultimi anni puntando tutto sui consumi, usando massicciamente la leva della spesa pubblica, ingerendo pesantemente nella formazione dei prezzi, aprendo il rubinetto del credito. Il tutto finanziato dalle risorse provenienti dalla vendita di materie prime ma trascurando investimenti, produttività e formazione del capitale umano.
Oggi assistiamo alla fine di questo modello di crescita. La grande sfida che il Brasile si trova davanti sarà quella di elaborarne un altro.
Senza dubbio il panorama internazionale non ha aiutato il Brasile negli ultimi anni, a differenza di ciò che è avvenuto nel primo decennio del XXI secolo. Il governo, tuttavia, attribuisce a questo fattore un peso maggiore di quello reale. Effettivamente, nel 2010, anno in cui il Brasile è cresciuto del 7,5%, l’espansione economica internazionale era stata del 5,2%. Nel 2014, invece, la crescita mondiale è stata del 3,4%, mentre nel 2013 solo del 3%. Questo cambiamento ha avuto un innegabile impatto sull’economia brasiliana, influendo sul livello delle esportazioni, sull’attrazione di investimenti diretti esteri e sull’aspettativa degli investitori nazionali.
Il Brasile sta soffrendo gli effetti indiretti del rallentamento dell’economia cinese e del crollo del prezzo delle commodities sul mercato internazionale. Basti pensare ai due principali beni esportati dal Brasile, i minerali ferrosi e la soia. Nel primo caso la quotazione è passata da 180 US$/dmt del 2010 a circa 40 US$/dmt nell’aprile del 2015. Per quanto riguarda la soia, il crollo è stato del 32% solo nell’ultimo anno. Per non parlare del prezzo del petrolio, che è passato da oltre 100 dollari al barile a meno di 50 dollari in circa sei mesi, creando non pochi problemi alla statale petrolifera Petrobras, impegnata nelle attività di esplorazione dei giacimenti ultra-profondi del Pré-Sal, che richiedono un prezzo del barile minimo superiore ai 70 dollari per essere redditizi. Il crollo dei prezzi delle commodities ha quindi avuto un effetto importante nel rallentamento dell’economia brasiliana, ancora fortemente dipendente dalle esportazioni di materie prime. Tuttavia, è necessario considerare i limiti dell’influenza dello scenario esterno.
Mentre il Brasile annaspava, altri paesi latinoamericani continuavano a registrare risultati considerevoli. Dal 2011 al 2013, il pil dei paesi latinoamericani è aumentato in media del 3,4% l’anno. La media dei paesi dell’Alleanza del Pacifico – Colombia, Perù, Cile e Messico – è stata del 4,9%. Quella degli emergenti addirittura oltre il 5%. Nello stesso periodo il Brasile è cresciuto solo del 2%.
Non tutti i mali dell’economia brasiliana, quindi, possono essere ricondotti alla riduzione del prezzo delle materie prime.
Deterioramento delle aspettative
Un’altra ipotesi che spiega in parte l’attuale situazione riguarda le “aspettative negative” che appiattiscono gli investimenti. Il Brasile ha storicamente registrato bassi tassi di investimento, di molto inferiori alle necessità della sua economia. Anche negli anni di euforia, il tasso di investimenti non riusciva a superare il 18% del pil, mentre secondo diversi analisti e ambienti di governo avrebbero dovuto essere almeno il 20-25%. Con l’attuale clima di sfiducia nei confronti delle performance economiche, il tasso di investimenti rischia di ridursi ulteriormente, pregiudicando la crescita attuale e futura del paese.
Secondo il governo, questo “pessimismo” sarebbe politicamente motivato, istigato dalle opposizioni e dalla “grande stampa”, che non perderebbe occasione per gettare benzina sul fuoco. Dall’altro lato, diversi analisti attribuiscono questo clima negativo alle incertezze prodotte dalla politica economica di Brasilia.
Dilma è intervenuta più volte a gamba tesa nei settori economici più disparati: da quello elettrico a quello stradale e ferroviario, fino ai beni di prima necessità della cosiddetta “cesta básica”, imponendo una riduzione dei prezzi per cercare di comprimere l’inflazione, che durante tutti gli anni dei suoi due mandati ha costantemente superato l’obiettivo fissato dalla Banca centrale. Queste decisioni hanno provocato una vera e propria rivolta negli ambienti imprenditoriali, soprattutto nello Stato di San Paolo, motore della crescita del paese.
Gli imprenditori hanno smesso di investire semplicemente perché è venuta a mancare la certezza di un ritorno economico dei loro investimenti. Gli interventi del governo, motivati da ragioni politiche e ideologiche, hanno portato a un clima di insicurezza e di aspettative negative. Di conseguenza, il rischio politico di perdere gli utili ha portato il settore privato alla riduzione delle proprie attività.
Abbandono del “treppiede macroeconomico”
Ulteriore ragione che contribuisce a spiegare questa situazione di crisi economica è stata la decisione del governo Dilma di abbandonare il “treppiede macroeconomico”, ovvero il regime di controllo dell’inflazione, cambio flessibile e rigore fiscale. A partire dal 2009-2010 l’esecutivo di Brasilia ha deciso di accantonare questa ricetta, che dagli anni Novanta aveva garantito al Brasile un certo grado di stabilità economica, per adottare una politica economica espansiva e misure di stimolo al consumo.
Si è trattato della cosiddetta “nuova matrice economica” di Dilma, tradotta in misure come la compressione forzata delle tariffe energetiche e delle accise per stimolare la domanda interna e creare consenso elettorale, o l’erogazione massiccia di finanziamenti molto agevolati della banca pubblica di investimenti, Bndes, a favore di imprese nazionali. Questa politica non ha però generato la crescita sperata, anzi ha portato a un gigantesco deficit dei conti correnti, 32,5 miliardi di reais, a un aumento dell’indebitamento pubblico e a un’inflazione fuori controllo, che quest’anno ha sfondato quota 8%. Senza contare la cosiddetta “contabilità creativa”, un maquillage dei conti pubblici brasiliani attuato dal ministero dell’Economia fino al 2014 per migliorare gli indicatori macroeconomici e dare un’impressione di controllo dei conti pubblici.
Con un’inflazione così alta, i redditi delle famiglie vengono inevitabilmente corrosi e si riduce il loro potere d’acquisto; con manovre del genere, gli imprenditori si sentono insicuri ed esitano a investire. Non solo, l’intervento del governo ha provocato una serie di squilibri e la disorganizzazione di interi settori economici. Molte aziende hanno dovuto far fronte a costi di produzione in continuo rialzo senza poterli trasferire sui prezzi finali, con un conseguente dissanguamento dei loro bilanci.
Anche gli investitori stranieri hanno lasciato in massa il Brasile. Nel solo mese di dicembre 2014 il flusso di capitali in uscita è stato di 14,542 miliardi di dollari. Un record mai registrato neanche durante il picco delle crisi del 2008 e del 1999. Non è un caso che il cambio tra euro e real (R$) sia passato da 3 R$ nel maggio 2014 a 3,50 R$ nel maggio 2015, mentre con il dollaro si è passati da un cambio quasi alla pari a 1,35 R$ per dollaro. Il crollo della valuta brasiliana ha avuto un impatto notevole sull’inflazione, ma non ha aiutato le esportazioni nazionali. Sintomo che le cause della crisi sono molto profonde e non risolvibili con una svalutazione competitiva.
La conseguenza di questa situazione di caos è stata la decisione della Banca centrale di aumentare i tassi di interesse al 13,25%, tornati ad essere così i più alti del mondo. Una misura decisa sia per combattere l’inflazione sia per attrarre investimenti esteri. Ma questa decisione ha, allo stesso tempo, ulteriormente scoraggiato gli investimenti nazionali, stroncato la domanda di credito al consumo, gettato il settore immobiliare e automotive in una seria crisi e aggravato il servizio sul debito. Per alcuni è la prova del fallimento definitivo della “nuova matrice macroeconomica” di Dilma.
Fine del modello di crescita brasiliano?
In sostanza, il Brasile è cresciuto a ritmi sostenuti a partire dal 2000 grazie a un modello basato sul consumo. Un sistema fondato sull’export di commodities a prezzi sempre più alti, che ha permesso di incamerare ingenti risorse con cui finanziare generose politiche sociali e redistributive, le quali hanno stimolato il mercato interno.
Le politiche espansive e gli interventi del governo nei diversi settori economici sono stati sopportati dal settore privato grazie alla bonanza del momento. Ma ora che le quotazioni delle materie prime sono crollate, l’inflazione è fuori controllo, il deficit continua ad aumentare e l’indebitamento pubblico è in rapido aumento, questo sistema mostra tutti i suoi limiti.
Il decennio di forte crescita, conciso con l’amministrazione Lula, non é stato sfruttato dal Brasile per rendere più efficiente la sua economia, aprirsi alla concorrenza internazionale, realizzare le infrastrutture indispensabili, investire in capitale umano, aumentare la produttività e la competitività complessiva del sistema paese. Il governo ha ritenuto che usando la leva pubblica per stimolare i consumi gli investimenti privati sarebbero naturalmente seguiti. Non è successo. Il risultato è un’inflazione da domanda, dovuta alla carenza di prodotti.
In un primo momento le misure espansive del credito e delle spese del governo hanno contribuito a evitare che il Brasile venisse colpito duramente dalla crisi internazionale del 2008. Tuttavia, oggi questo modello sembra aver finito la sua forza propulsiva. Le misure di stimolo avrebbero dovuto essere interrotte quando l’economia brasiliana ha iniziato a riprendersi, nel 2010. Se il governo avesse rapidamente fatto marcia indietro per concentrarsi sul surplus fiscale i tassi di interesse e l’inflazione sarebbero oggi più bassi e il Brasile crescerebbe di più.
Problemi strutturali
Il problema è dunque pensare non a cosa il governo ha fatto in questi anni, ma a cosa non ha fatto. L’unico modo per garantire la crescita del pil nel medio e lungo termine sarebbe stata quella di ridurre i problemi strutturali che incidono sulla competitività delle imprese brasiliane – come l’intricata burocrazia e il cervellotico sistema fiscale, le carenze infrastrutturali, scarsità di manodopera qualificata e la poca concorrenza.
Senza risolvere questioni come i seri problemi logistici o l’anacronistico codice di diritto del lavoro – una traduzione della Carta del lavoro di Mussolini in vigore dagli anni ’30, mai modificata – sarà difficile che il Brasile faccia progressi nella produttività della sua economia. Ma tutte queste riforme sono molto dolorose in termini di occupazione e hanno un alto prezzo politico, colpendo proprio la base elettorale del Partido dos Trabalhadores, che ha vinto le ultime elezioni con pochi decimali di vantaggio sulle opposizioni.
Ma se le riforme strutturali necessarie continueranno a essere rimandate e gli investimenti non saliranno, il Brasile potrà abbandonare il suo sogno di diventare un paese sviluppato. Non si può costruire una potenza emergente crescendo al massimo il 3% negli anni considerati positivi.
Dilma ha ragione quando dice che il governo ha esaurito le misure possibili per stimolare la crescita. Una crescita ottenuta negli ultimi anni puntando tutto sui consumi, usando massicciamente la leva della spesa pubblica, ingerendo pesantemente nella formazione dei prezzi, aprendo il rubinetto del credito. Il tutto finanziato dalle risorse provenienti dalla vendita di materie prime ma trascurando investimenti, produttività e formazione del capitale umano.
Oggi assistiamo alla fine di questo modello di crescita. La grande sfida che il Brasile si trova davanti sarà quella di elaborarne un altro.
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