Per quel che ne so, non si è votato sul pessimo programma del Labour ma sul "finiamo questa storia: prima usciamo e poi vediamo". In ogni caso la Gran Bretagna non ne esce bene -la grana scozzese aspetta solo le prossime elezioni 2021 per scoppiare- e persino i Tory, inglobando ora tanto voto working class, ne uscirà totalmente trasformato. Nel loro programma si è preventivamente sorvolato sulla spesa pubblica.Il progetto EU ne esce anche peggio.Dalla tradizione di sinistra non solo è opportuno congedarsi ma occorre congedarsi velocemente pure dal congedo stesso. Se il termine di paragone rimane la sinistra borghese, variamente mutaforma e invariabilmente al fianco dello status quo sociale -mentre avversa senza vittorie quello politico, si vivrà oscillando fra "prima era meglio" e "un altro capitalismo è possibile", un opportunismo strutturale insomma, respingendo ciò che è inusitato in questo tempo feroce.
Questo è un mio commento scritto a proposito della vittoria di Bojo alle elezioni nel Regno Unito e della speculare disfatta dei laburisti. Sotto invece articolo di Limes in cui si ricapitolano le tappe che portarono al progetto europeo, argomento già trattato abbondantemente nel blog, tanto per ribadire quanto poco ci sia da confidare nel futuro del vecchio continente, tra un pò ci sarà anche il tweettarolo a darsi da fare---
Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro della disintegrazione. Potenti tendenze centrifughe
scuotono oggi dalle fondamenta l’Unione Europea, oscurando il solare e
ingenuo ottimismo di quanti all’alba del nuovo millennio avevano
salutato l’introduzione dell’euro e l’allargamento verso est come l’annuncio di un’Europa ormai geopoliticamente e culturalmente unita. L’Unione, questo si diceva, non solo si stava affacciando sulle grandi questioni di sicurezza e difesa,
ma con l’affermazione della sovranità monetaria su diversi paesi
europei aveva raggiunto un monopolio finora riconosciuto solo agli Stati
nazionali. La cultura politica del totale ottimismo, come l’ha definita
Majone 1, dominava il dibattito politico, accademico e
mediatico. «L’Europa ha garantito cinquant’anni di stabilità, pace e
prosperità economica», diventando «un modello di integrazione regionale
in tutto il mondo», dichiarava trionfalmente il Libro bianco sulla «governance europea» della Commissione (2001).
2. Lo scoppio delle guerre in Jugoslavia fu il primo, emblematico segnale della contraddizione
tra le speranze di unità e la realtà di un’Europa al suo interno
profondamente divisa: e questo proprio quando, con la firma del trattato
di Maastricht, l’Europa di matrice atlantica si accingeva a varcare
(sulla carta) i confini dell’alta politica, con il cambio di nome da
Comunità a Unione Europea. Ma nonostante i numerosi tentativi di
sottolineare come l’unità finalmente raggiunta non fosse solo
un’espressione giuridica – tra cui l’invio nel 1991 di un team
ministeriale della Comunità europea nei Balcani, con esiti impalpabili –
l’entusiasmo per la neonata Unione fu subito spento dal gelido soffio
della realtà.
L’Ue e le sue varie agenzie si dimostrarono del tutto impotenti a fronteggiare la crisi jugoslava,
essendo i suoi stessi membri divisi tra coloro che, come la Germania e
l’Austria, appoggiavano le repubbliche secessioniste e coloro che,
guidati dalla Francia, volevano conservare i confini esistenti e che per
questa ragione non erano del tutto insensibili alle posizioni serbe.
Come noto, dopo vari massacri in cui le forze di peacekeeping europee
stettero a guardare, e dopo che l’impotenza dell’Europa ad agire nel
cortile di casa propria risultò non più tollerabile, fu l’America di
Clinton a prendere prepotentemente il controllo della situazione,
annientando con bombardamenti aerei la capacità serba di compiere
ulteriori danni.
Se l’unità che l’Europa ambiva a proiettare esternamente si rivelò fin dal suo primo apparire
una tragica farsa, ben più drammatica fu però la divisione che la fine
della guerra fredda scongelò all’interno della Comunità, tra gli stessi
paesi che dagli anni Cinquanta avevano solennemente proclamato di
tendere a un’«unione sempre più stretta» (trattato di Roma, 1957).
Rivelando che, a dispetto di decenni di «realizzazioni concrete» e
integrazione materiale, diffidenza e ostilità tra i popoli d’Europa
erano rimasti dove lo scontro bipolare li aveva congelati.
Sentimenti ampiamente riscontrabili in occasione della prospettiva della riunificazione tedesca.
È storia che François Mitterrand e Margaret Thatcher, incapaci di
nascondere il loro orrore al pensiero della riunificazione della
Germania, fecero del loro meglio per trovare una strategia comune al
fine di evitarla, in questo moralmente sostenuti da Andreotti («amo
tanto la Germania che ne preferisco due»). È stato lo shock della
riunificazione della Germania, e la conseguente minaccia di uno
squilibrio nel rapporto franco-tedesco, la scintilla che ha alimentato
il processo che avrebbe condotto a quel risultato geopoliticamente
insostenibile ed economicamente fallimentare che è stato la moneta
unica.
L’euro, presentato come grande successo dell’integrazione, non nasce come il prodotto di disinteressato
europeismo, ma come la sintesi, tragicamente incompleta, di sotterranee
logiche di potere alimentate da latenti sentimenti di ostilità e
sospetto tra gli stessi membri della Comunità («Il trattato di
Maastricht è un trattato di Versailles senza guerra», titolava la prima
pagina del quotidiano Le Figaro il 18 settembre 1992).
Affetti non proprio fraterni, che sono riemersi violentemente con lo scoppio della crisi finanziaria
e dei debiti sovrani, rivelando il grande bluff codificato nel trattato
di Maastricht: la virulenza della crisi economica, il riaccendersi di
fiammate di inimicizia e conflittualità tra i popoli europei e
l’esplosione delle recriminazioni reciproche tra i virtuosi Übermenschen
teutonici e le cicale latine non solo hanno messo in luce
l’inconsistenza del culmine del processo d’integrazione, che proprio
tali conflitti avrebbe dovuto trascendere, ma hanno anche sconfessato
alla radice la premessa del metodo comunitario, per decenni
contrabbandato come «metodo per la pace»: l’idea secondo cui
l’integrazione tecnico-economica si autososterrebbe e condurrebbe da
ultimo all’emergere di una comunità politica. Un amaro risveglio per
molti sonnambuli profeti del sogno europeo, convinti che dal seme della
moneta sarebbe sbocciato l’albero dell’unione politica.
3. Eppure la crisi è tutto fuorché accidentale. Essa è l’esito ultimo di quel processo di disintegrazione
europea inaugurato dal crollo del Muro di Berlino e dall’improvvisa
evaporazione dello scopo strategico per cui l’integrazione dell’Europa
fu, in primo luogo, avviata.
È impossibile, infatti, comprendere perché l’Unione si sia rivelata, all’inizio degli anni Novanta,
un guscio vuoto, senza risalire alle origini geopolitiche e alle
motivazioni profonde che hanno sostenuto, nel dopoguerra, l’avvio del
processo d’integrazione: quale sia la reale natura dell’europeismo lo si
può intuire solo immergendosi nelle torbide acque della storia.
A ben vedere, il persistente disaccordo sul significato e sul fine (telos) del processo d’integrazione
(o «unione sempre più stretta», a cui i leader europei si professano
liturgicamente devoti) trova origine nel fatto che i veri architetti
dell’unità dell’Europa non furono affatto gli europei: furono gli
americani. È un mito quello secondo cui il progetto europeo sarebbe nato
dai «padri dell’Europa» Monnet e Schuman. Il progetto fu avviato dagli
americani in larga misura contro la volontà e i desideri degli europei.
Le stremate nazioni europee, che avevano appena scongiurato che si compiesse il disegno imperiale hitleriano, già accarezzato dal Kaiser 2,
di cancellare il sistema degli Stati, e con esso il principio di
autodeterminazione dei popoli, difficilmente sarebbero state ansiosi di
«cedere» la loro residua sovranità, così faticosamente riconquistata, in
nome di vaghi e inquietanti progetti di unificazione politica: l’aborto
della Comunità Europea di Difesa nel 1954 ne è testimonianza.
Dove però non poteva l’idealismo degli europei, potevano la politica estera americana
e i suoi persuasivi mezzi. È noto che dopo il repentino cambiamento di
linea verso l’ex alleato sovietico – le cui prosaiche intenzioni erano
state illustrate a Washington nel febbraio 1946 dal lungo telegramma
proveniente da Mosca, firmato da George Kennan – gli Stati Uniti furono
costretti a ripensare l’architettura di sicurezza, d’impianto
decisamente wilsoniano, che in tempo di guerra Roosevelt aveva
immaginato per la pace. E iniziarono a rivedere la strategia per
l’Europa alla luce della necessità di «contenere la Russia sovietica».
I consiglieri di Truman temevano che la mancanza di unità (e prosperità) in Europa
avrebbe potuto condurre alla conquista sovietica o alla sovversione
interna di matrice comunista. Per questo motivo, il presidente pose come
precondizione per gli aiuti del piano Marshall (giugno 1947) che i
paesi europei agissero in modo coordinato: esigenza per soddisfare la
quale nacque nel 1948 l’Organizzazione per la Cooperazione Economica
Europea (oggi Ocse). Per usare le parole stesse di George Kennan nel
citato telegramma: «Nel lungo periodo ci possono essere solo tre
possibilità per il futuro dell’Europa occidentale e centrale. La prima è
il dominio tedesco. Un’altra è la dominazione russa. La terza è
un’Europa federata».
Con la prospettiva della rinascita economica e militare della Germania entro strutture euro-atlantiche
svaniva per la Francia l’illusione di aver trovato nel piano
Morgenthau, discusso da Roosevelt e Churchill nella seconda conferenza
di Québec (settembre 1944), la soluzione definitiva al problema tedesco:
convertire la Germania «in un paese a vocazione eminentemente agricola e
pastorale».
Jean Monnet, che de Gaulle nominò nel 1945 capo della Commissione di pianificazione industriale
del governo francese (Commissariat du Plan), fu il primo a rendersi
conto che, se era impossibile impedire la rinascita economica e
industriale tedesca, era nell’interesse nazionale francese stringere la
Germania in un abbraccio che avrebbe consentito alla Francia di
contenere l’antico rivale, sottraendo ai tedeschi il controllo delle
risorse della Ruhr con metodi meno spicciativi di quelli adottati nel
1923. Così diventando la prima fra le nazioni europee e bilanciando al
contempo il dominio americano. Per farlo, riadattò la logica
funzionalista al servizio del federalismo europeo, nei cui ideali,
professati da uno sparuto, iperminoritario gruppo di intellettuali, la
Francia vide il manto ideale con cui coprire e legittimare la tutela dei
propri interessi nazionali 3.
Fu così che Monnet presentò a Konrad Adenauer, sul piatto della Dichiarazione Schuman (1950),
un piano che prevedeva la gestione del carbone e dell’acciaio europeo
(leggi: tedesco) da parte di un’alta autorità sovranazionale – plasmata e
dominata dalla burocrazia francese, ça va sans dire. Nasceva
così, con il trattato di Parigi del 1951, la Comunità Europea del
Carbone e dell’Acciaio (Ceca). Se gli Stati Uniti avevano bisogno di
un’Europa coesa per contenere l’Unione Sovietica – e non è un caso che
le teorie neofunzionaliste che hanno accompagnato il processo
d’integrazione europea siano nate in America, dove il Dipartimento di
Stato agiva come instancabile patrono dell’idea di «Europa» – la Francia
usò l’integrazione europea come strumento per contenere la Germania. Al
di là del Reno, la Repubblica Federale Germania battezzata nel 1949
come protettorato americano di fatto, intravvide nella prospettiva
dell’integrazione un’opportunità per riacquisire legittimità geopolitica
e, in prospettiva, sovranità, consapevole che l’unico modo per farlo
era la profonda integrazione nell’Europa occidentale, via Alleanza
Atlantica, sempre tendendo verso l’America.
4. L’approccio funzionalista, come capirono benissimo Monnet e Schuman,
poteva essere usato per mascherare le contraddizioni dell’Europa
post-bellica, divisa da rivalità storiche e immersa in profondi vincoli
geopolitici. Il funzionalismo, inoltre, lasciava intendere che la
cooperazione materiale, affidata a una burocrazia sovranazionale,
avrebbe di per sé neutralizzato i conflitti e condotto un giorno
all’emergere di una comunità politica. Nelle parole della Dichiarazione
Schuman: «L’Europa non si farà tutta in una volta, ma attraverso
realizzazioni concrete che creeranno una solidarietà di fatto».
Trova qui origine il credo fondativo dell’europeismo storico, secondo cui l’integrazione tecnico-economica
– e quindi la proliferazione di apparati burocratici a essa preposti
(le istituzioni «comuni») – rappresenterebbe la via maestra verso il
sogno dell’Europa unita. È precisamente a questo livello concettuale che
si annida però il fraintendimento più profondo, coltivato da tanta
parte della classe dirigente italiana, per cui il «processo»
d’integrazione avrebbe come telos la terra promessa dell’unione politica.
Al di là dell’inconsistenza concettuale, ampiamente dimostrata dalla storia, dei presupposti logici
e filosofici di un simile approccio, per smentire alla radice decenni
di vuoti dibattiti accademici e politici sul tema è sufficiente
ricordare ciò che i diplomatici impegnati nei duri negoziati a Bruxelles
sperimentano ogni giorno: ovvero che, nonostante le tendenze alla
formazione di una società internazionale maggiormente integrata in
Europa (questo il senso storico reale del processo d’integrazione),
nessun governo europeo si è mai sognato, né mai si sognerà, di mettere
in agenda l’abolizione del sistema degli Stati e l’installazione, al suo
posto, di una singola autorità politica al cuore dell’Ue.
Se c’è una costante nella storia europea dall’alba della modernità è che il sistema degli Stati,
variamente coalizzato, ha sempre respinto ogni tentativo di
unificazione politica dell’Europa sotto un unico centro di potere, tale
da pregiudicare l’autonomia delle altre parti del sistema. Anche al
culmine del loro potere, né la Spagna né la Francia né tantomeno la
Germania sono riuscite a stabilire un impero continentale. Benché più
volte l’esistenza del sistema degli Stati in Europa sia apparsa prossima
alla fine, ogni volta le forze che tendevano a preservarne l’equilibrio
hanno prevalso su quelle che volevano rovesciarlo. Ed è indicativo che
tale sforzo di resistenza sia stato chiamato «liberazione».
Difatti, benché l’Europa abbia certamente formato per gran parte della sua storia un’unità culturale, economica e in senso lato politica (come Res Publica Christiana),
tale unità si è sempre espressa sotto specie dell’irriducibile
molteplicità di entità, storie, tradizioni e linguaggi in dialogo e
competizione tra loro. Ricchezza e dinamicità che secondo gli storici
sono il segreto dello straordinario successo culturale, economico e
politico del continente. Per farne ancora oggi lo spazio geopolitico
decisivo nel mondo. Come spiega Henry Kissinger: «Differenti dinastie e
nazioni in competizione erano percepite non come una forma di “caos” da
eliminare ma come un intricato meccanismo tendente a un equilibrio
capace di tutelare gli interessi, l’integrità e l’autonomia di ciascun
popolo. Per oltre mille anni (…) l’ordine è derivato dall’equilibrio, e
l’identità dalla resistenza all’autorità universale» 4.
Per questo, assente in partenza ogni volontà di dare vita a un’autentica unione politica,
il concetto di «unione sempre più stretta» evocato dai trattati europei
era solo destinato a ingenerare crescente confusione sul senso
autentico del processo d’integrazione. Confusione pienamente emersa con
la caduta del Muro, che scongelò torrenti geopolitici rimasti ghiacciati
per quarant’anni in Europa.
5. La rottura del quadro geopolitico europeo avviata negli ultimi due mesi del 1989 colse i leader europei
completamente impreparati e rivelò la fragilità costitutiva del
«progetto» comunitario, la vacuità delle sue istituzioni nonché la sua
dipendenza dalla leadership americana. Anziché segnare la fine della
divisione dell’Europa, la caduta del Muro di Berlino portò a galla una
divisione molto più profonda di quella che trent’anni di integrazione
materiale avessero lasciato sperare.
I leader europei pensarono che l’unione monetaria, con l’approfondimento delle logiche
di spoliticizzazione, potesse essere un’ottima idea tanto per
rispondere alla crisi d’identità in cui il progetto era caduto con
l’evaporazione dell’Unione Sovietica, quanto per «europeizzare» la
Germania riunificata 5. Tuttavia, i passi intrapresi a
partire dal trattato di Maastricht e dai successivi (compreso quello di
Lisbona) hanno fatto solo incursioni nominali nel regno dell’alta
politica, aggirando la questione del potere politico. Circostanza
emblematicamente illustrata dal fatto che gli architetti dell’unione
monetaria abbiano previsto una Banca centrale europea, ma nessun
equivalente del cancelliere dello Scacchiere o del ministro delle
Finanze.
I padri dell’euro allora ci assicuravano che l’unione monetaria sarebbe stata l’anticamera
dell’unione politica. Questo nonostante fosse già chiaro dalle regole
di convergenza adottate a Maastricht che in realtà non vi era alcuna
reale disponibilità a procedere sulla strada di una vera integrazione
politica che, come tale, avrebbe richiesto non già l’adozione di mere
regole di convergenza, quanto piuttosto meccanismi automatici di
redistribuzione fiscale per far fronte agli inevitabili shock
asimmetrici.
Il disegno istituzionale dell’euro, insomma, nonostante la natura squisitamente geopolitica
della moneta e i profondi effetti redistributivi che la sua gestione
necessariamente comporta (non per altro, insieme al monopolio della
forza fisica, la moneta definisce l’essenza della sovranità statuale),
eluse completamente il problema del potere politico, del suo locus
e della sua legittimità, trovando nei grossolani dogmi del credo allora
dominante, il monetarismo – secondo cui la gestione della politica
monetaria sarebbe una questione eminentemente tecnica, da tener lontana
dal processo democratico – la cornice teorica che sembrava legittimare
da un punto di vista economico l’avventura dell’euro.
6. Ma un’unione monetaria tra paesi con cicli economici profondamente diversi, gelosi delle proprie
prerogative sovrane in materia di bilancio e non disposti in partenza a
mutualizzare il debito, era una catastrofe annunciata. Saltato per
definizione quel meccanismo automatico volto a frenare gli squilibri
macroeconomici che è il tasso di cambio, l’economia dell’Eurozona
avrebbe sperimentato l’aumento degli squilibri commerciali e
dell’instabilità finanziaria, generando infine una bolla che, una volta
esplosa, avrebbe generato disoccupazione, deflazione e recessione. Una
crisi da cui sarebbe stato molto difficile uscire senza spezzare il
giogo dell’euro.
Ad avvisare inutilmente dei pericolosi esiti di un tale esperimento, negli anni di incubazione di Maastricht,
non furono solo alcuni dei migliori economisti del mondo (Rudiger
Dornbusch, Paul Krugman, Martin Feldstein, Joseph Stiglitz, per fare
alcuni nomi), peraltro completamente ignorati dai leader europei. Un
articolo firmato sotto pseudonimo da un gruppo di dissidenti della
Banque de France, apparso nel settembre del 1993 sul periodico La Revue des Deux Mondes,
aveva denunciato in modo spietato l’analfabetismo economico
dell’apparato di potere francese uscito dalla École Nationale
d’Administration nonché del suo sommo pontefice, l’ineffabile
Jean-Claude Trichet, già presidente della Banca di Francia e primo
presidente della Banca centrale europea 6.
Il monito più significativo sui rischi dell’euro arrivò da chi, più di tutti, aveva seguito dall’interno
la genesi della moneta unica: il capo della divisione Affari monetari
della Commissione europea, Bernard Connolly. In un coraggioso libro che
gli costò il posto e un processo davanti alla Corte di Giustizia,
Connolly, dati alla mano, denunciò pubblicamente la follia del progetto,
avvisando che Maastricht non sarebbe stato il compimento del trattato
di Roma, ma un «manifesto per la divisione e il conflitto in Europa».
Tentare di legare insieme paesi come la Francia e la Germania mediante
una moneta comune non avrebbe forgiato un’unione, al contrario avrebbe
trasformato «questioni monetarie nazionali in conflitti politici
internazionali» 7. Il progetto di unione monetaria, spiegava
il manager dell’allora Sistema monetario europeo, avrebbe creato
«miseria sociale ed economica», e lo avrebbe fatto in un modo «del tutto
prevedibile», distruggendo non solo la prosperità economica e sociale
dei paesi coinvolti, ma anche la legittimità politica, l’amicizia e la
cooperazione tra i popoli d’Europa. Mettendo in gravissimo rischio la
stabilità, la legittimità e la pace.
Gli fece eco qualche anno più tardi Martin Feldstein, insigne economista di Harvard, che scrivendo nel 1997 su Foreign Affairs
mise in guardia i leader veterocontinentali: «Invece di favorire
l’armonia intra-europea e la pace globale, è molto più probabile che il
passaggio all’unione monetaria e all’unione politica che ne conseguirà
conduca a un aumento dei conflitti all’interno dell’Europa. (…)
Contrariamente alle speranze e alle supposizioni di Monnet, la
devastante guerra di secessione americana ci ricorda che un’unione
politica formale non costituisce di per sé una garanzia contro una
guerra intra-europea».
7. Come un sasso su una sottile lastra di ghiaccio, la crisi finanziaria ha messo in luce il vulnus politico
dell’unione monetaria e l’inconsistenza dell’assunto funzionalista
scolpito al cuore del metodo comunitario: l’idea che realizzazioni
concrete (l’euro) avrebbero creato una solidarietà di fatto (l’unione
politica). La scommessa funzionalista, implicante una lezione
sequenziale tra euro ed Europa, si è rivelata una colossale menzogna: la
solidarietà – l’unica moneta di cui l’Ue ha drammaticamente bisogno –
non è infatti il prodotto ma il presupposto di una comunità di destino.
Il processo d’integrazione è giunto oggi a un pericoloso punto di stallo. Ogni soluzione alla crisi strutturale dell’unione monetaria mantenendo l’euro richiederebbe
una maggiore centralizzazione dei poteri politici, essenziale per una
maggiore integrazione della sfera economica e fiscale, condannando
comunque i paesi periferici alla desertificazione economica. Compensata,
si fa per dire, dal costante trasferimento di risorse fiscali da parte
del centro.
Ma ogni passo verso un maggior accentramento dei poteri non solo diminuirebbe
il controllo democratico diretto su decisioni essenziali che attengono
all’autodeterminazione delle comunità politiche che compongono l’unione,
ma avverrebbe in assenza di qualsiasi legittimità politica. Come il caso della trojka in Grecia ci ricorda, il rafforzamento della governance centrale («più Europa») non farebbe altro che generare un monstrum
politico in cui grandi riforme dal lato dell’offerta dell’economia,
regole e decisioni su questioni fondamentali per la vita di una società
sarebbero imposte da parte di un centro di potere privo di
qualsiasi legittimazione politica. Il risultato di tali tentativi di
«forzare la mano» in nome della crisi in direzione di un disegno
imperiale (vestito da federalista) potrebbe essere catastrofico. La
storia indica che azioni di governo che mancano di legittimità
determinano alla lunga rottura dell’ordine pubblico e da ultimo
rivoluzione e cambio di regime politico 8.
8. Possiamo comunque essere sicuri che tali sviluppi – caldeggiati da un manipolo di messianici
fondamentalisti – non avranno mai luogo. Da una parte perché le
tendenze centrifughe già in atto (vedi Brexit) lo impediscono in
partenza, dall’altra perché la determinazione dell’Ue a perseguire
un’unione sempre più stretta è puramente retorica. La totale assenza da
parte della Bundesrepublik di qualsiasi disponibilità politica a dare
vita a un’unione del debito ne è ampia testimonianza. Del resto, la
Corte costituzionale tedesca, in una fondamentale sentenza del 2009, ha
messo la pietra tombale sopra a ogni ulteriore progetto di cessione di
sovranità, affermando con kantiana categoricità che l’integrazione ha
raggiunto con Lisbona il suo «limite estremo»: da qui l’impossibilità
che la Repubblica Federale partecipi a una futura evoluzione in senso
politico del processo di integrazione.
A chi favoleggia di «completare l’unione bancaria» e di «procedere verso un’unione fiscale»
occorrerebbe far leggere quanto la Corte costituzionale tedesca
(Bundesverfassungsgericht) specificava con teutonico rigore dieci anni
fa, ovvero che «la responsabilità complessiva in materia di bilancio»
deve essere assunta dal Bundestag «con sufficienti margini di scelta
politica su entrate e spese» 9, rientrando in uno dei cinque
«settori politici centrali» che riguardano «gli spazi in cui si sviluppa
la persona e in cui avviene la configurazione sociale delle condizioni
di vita» che non potranno mai e in nessun caso essere «ceduti» a qualche
organismo sovranazionale. Con buona pace delle anime belle
dell’europeismo.
9. Se ogni strada verso una soluzione pseudo-federalista è de iure e de facto preclusa,
la pericolante architettura dell’unione monetaria è inevitabilmente
destinata a crollare su sé stessa al primo accenno di tempesta – una
bella recessione in arrivo, ad esempio. Dopo dieci anni di crisi, oggi è
evidente a chiunque osservi le dinamiche in atto che il mantenimento
della moneta unica rappresenta una minaccia politica ed economica per il
futuro del continente. In una paradossale eterogenesi dei fini essa ha
prodotto l’aumento della conflittualità interna e internazionale, e
allontanato, anziché avvicinato, la prospettiva della pacifica
cooperazione tra i popoli d’Europa. Spingendo i paesi l’uno contro
l’altro e fomentando inevitabili dinamiche centrifughe.
Nel frattempo, dettaglio non secondario, l’esperimento ha devastato economicamente i paesi che vi hanno partecipato, senza risparmiare dulcis in fundo nemmeno
il paese che più di ogni altro ne ha in un primo momento beneficiato,
la Germania. Prosciugando in meno di un decennio la domanda aggregata in
Europa, le politiche deflazionistiche varate dai paesi in difficoltà
per tentare di riguadagnare competitività all’interno dell’Eurozona non
solo hanno determinato la maggiore contrazione del pil dal 1929,
aumentando la disoccupazione e la miseria sociale a livelli impensabili,
considerando l’immensa capacità di produrre valore delle società
contemporanee, ma hanno lentamente segato il ramo su cui la «locomotiva
tedesca» era seduta 10.
Il depauperamento industriale, infrastrutturale, sociale e culturale nei paesi dell’Eurozona è evidente – e di certo, non saranno i green new deals a risolvere i problemi strutturali
dell’unione monetaria. Al di là degli squilibri sistemici, la nemesi
del fiore all’occhiello del progetto d’integrazione si chiama infatti
disunione.
L’integrazione funzionale, agendo per spoliticizzazione, poteva solo mascherare le divisioni politiche,
non trascenderle. Anzitutto perché la spoliticizzazione, intesa come
cessione di specifiche e limitate competenze a organismi tecnici
sovranazionali, era essa stessa il prodotto di tali divisioni: serviva
cioè in primo luogo gli interessi politici degli Stati che vi prendevano
parte, e non rappresentava affatto un loro superamento nel presunto
«interesse europeo».
10. In questo contesto, dove si colloca l’Italia? Purtroppo, da nessuna parte.
La classe dirigente del nostro paese non sembra aver sviluppato una
coscienza adeguata della portata e della profondità della crisi in atto.
Né tantomeno è riuscita a sviluppare, a differenza dei nostri
competitori oltre le Alpi e il Reno, una lettura non ideologica del
processo d’integrazione, continuando a riaffermare con vuoto e meccanico
sussiego la propria dedizione a un’unione sempre più stretta che
nessuno in Europa vuole davvero. Nonostante l’evidenza del suo
fallimento, l’euro continua a essere interpretato come il simbolo
dell’imminente unione politica (aspettando Godot) e venerato da larghi
settori della classe dirigente come un fine in sé, da
salvaguardare a ogni costo – anche al costo di varare politiche
economiche altamente recessive e dai destabilizzanti costi politici,
materiali e sociali.
Eppure, mai come oggi sarebbe necessario avviare un esercizio di riflessione volto a ripensare
il senso e lo scopo dell’integrazione europea. Occorre immaginare nuovi
modi di favorire la pacifica e amichevole cooperazione tra i popoli
d’Europa: più intelligenti, più flessibili, più efficaci. E rimodulare i
mezzi alla luce di un nuovo realismo che sappia coniugare idealità e
realtà. Ciò a cui l’Italia dovrebbe aspirare e lavorare non è la
riproposizione di un modello d’integrazione fallimentare, ma un nuovo
concetto operativo cominciando a immaginare l’impossibile (inteso come l’estremo possibile):
smantellare in modo coordinato l’unione monetaria, sistema che si è
rivelato economicamente dannoso e politicamente inadeguato.
Per farlo, occorrerà tuttavia ridefinire il senso e la direzione dell’azione politica europea,
orientandola verso modelli di cooperazione compatibili con la
prismatica ricchezza politica, linguistica e culturale del continente.
Il senso autentico – l’unico possibile – di «integrazione europea» appare infatti non la fusione
né tantomeno lo svuotamento progressivo della sovranità degli Stati,
che ha solo aumentato la frammentazione, la segmentazione e il
deterioramento del processo politico, ma la libera cooperazione tra i
popoli d’Europa fondata sul rispetto delle prerogative sovrane e
democratiche di ciascun paese. La sottomissione «in nome dell’Europa» a
una tecnocrazia centralizzata vagamente pseudo-sovietica, del tutto
inefficiente perché per definizione incapace di tener conto della
pluralità di esigenze di Stati molto eterogenei tra loro, non è stata e
non sarà in grado di creare armonia e pace, ma solo conflittualità e
ribellione.
Non esiste un demos europeo, ma molteplici demoi in Europa, la cui pacifica e amichevole cooperazione deve essere il telos di un nuovo ethos
europeo. Per questo l’integrazione europea ripensata alla luce del XXI
secolo dovrà forse tornare a guardare al XIX, quando l’esistenza di un
«concerto di nazioni» che avvertivano di condividere fondamentali valori
comuni seppe tradursi nella messa in opera di istituzioni leggere e
flessibili, attraverso cui affrontare in spirito di amicizia e rispetto
le più importanti sfide all’ordine internazionale, contemperando alla
luce del sole, e non già nascondendoli sotto mistificanti dispositivi
ideologici, i legittimi interessi nazionali degli Stati.
Note:
1. Cfr. G. Majone, Rethinking the Union of Europe Post-Crisis, Cambridge 2014, Cambridge University Press.
2. «Il
trionfo della Grande Germania, destinata un giorno a dominare tutta
l’Europa, è il solo obiettivo dello scontro in cui siamo impegnati»,
Kaiser Guglielmo II, «ordine del giorno» trovato in possesso di soldati
tedeschi catturati al fronte. Cfr. C. Andler, Pan-Germanisme, Paris 1915, Armand Colin, p. 81.
3. La logica
funzionalista era tesa a «coprire le divisioni politiche con una rete
crescente di attività internazionali e agenzie, nelle quali e attraverso
le quali gli interessi e la vita delle nazioni possano essere
gradualmente integrati», cfr. D. Mitrany, A Working Peace System, London 1943, Royal Institute of International Affairs.
4. H. Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori, Milano 2015, p. 14.
5. Lungi
dall’essere il trionfo dell’idealismo europeista, la moneta unica – come
abbiamo ricordato – fu il risultato di una spietata entente politica tra François Mitterrand e Helmut Kohl, con cui la Germania rinunciava al suo asset strategico (la Deutsche Mark) in cambio dell’assenso francese alla propria riunificazione.
6. La classe
politica tedesca invece di economia se ne intendeva. E sapeva che,
purché la Banca centrale europea fosse stata un clone della Bundesbank,
era nell’interesse dello Stato e della grande industria tedesca cedere
all’insistente proposta di abbraccio francese. Per un motivo molto
semplice: l’ambizione di rimanere un paese con la bilancia dei pagamenti
in attivo era incompatibile con tassi di cambio lasciati liberi di
fluttuare sui mercati finanziari. Gli industriali e i vertici della
Bundesbank sapevano, già dalla fine del sistema di Bretton Woods, che la
Germania non avrebbe potuto permettersi una fluttuazione della sua
moneta. Se la quotazione internazionale del marco tedesco fosse stata
fissata dalla libera contrattazione sui mercati finanziari, i surplus
della Germania avrebbero creato domanda per la sua moneta, e la sua
quotazione sarebbe cresciuta al punto da rendere così costosi i suoi
prodotti sui mercati stranieri da erodere la sua competitività e infine
far sparire i surplus stessi.
7. B. Connolly, The Rotten Heart of Europe, London 1995, Faber & Faber, pp. 390-392.
8. Cfr. D. McKey, «The Political Sustainability of the European Monetary Union», British Journal of Political Science, vol. 29, n. 3, 1999.
9. Una
traduzione della sentenza, a cura della Corte costituzionale italiana, è
disponibile al seguente indirizzo bit.ly/35NPIdi. Si segnala qui il
paragrafo 252, che elenca le materie inalienabili da parte della
Repubblica Federale: «Per la capacità di autodeterminazione propria di
uno Stato costituzionale si considerano da sempre particolarmente
sensibili le decisioni sul diritto penale sostanziale e procedurale 1), la possibilità di disporre del monopolio della forza, della forza di polizia all’interno e della forza militare all’esterno 2), le decisioni fondamentali in materia fiscale su entrate e uscite – motivate anche dalla politica sociale – della mano pubblica 3), la conformazione delle condizioni di vita allo Stato sociale nonché 4) le decisioni di particolare rilievo culturale, ad esempio in materia di diritto di famiglia, sistema scolastico, educazione e rapporti con le comunità religiose 5)».
10. Il
deprezzamento dell’euro sul dollaro del 30% circa negli ultimi anni ha
allontanato per un po’ la recessione; ma sfortunatamente l’America non
apprezza i paesi manipolatori di valuta (tra cui nella lista del
dipartimento del Tesoro figura la Germania, tramite Bce) e Trump ha
deciso di correggere gli eccessivi squilibri macroeconomici autorizzando
dazi per un valore equivalente.
e beh, sembra che anche l'ennesimo tentativo sia fallito.
RispondiEliminaLa parte che mi fa sorridere è che probabilmente coloro che ci tenevano di piu' erano le persone comuni : schiavi di un magnate tedesco o di un borsaiolo francese, che differenza avrebbe fatto per noi ?
lo dico senza enfasi ma dire europa senza londra un pò mi fa male
RispondiEliminaciao caro anonimo
È evidente che dal seme della moneta non è sbocciato l’albero dell’unione politica (probabilmente non ci ha creduto nessuno), ma dire che l’euro è risultato geopoliticamente insostenibile ed economicamente fallimentare è un po’ troppo. La crisi greca, per esempio, è stata in gran parte la crisi di un sistema con un welfare allegro. Stesso discorso per l’Italia, ecc.. L’euro ci ha salvato da un’inflazione che avrebbe avvantaggiato, ma solo sul breve, le nostre esportazioni ma soffocato ancor più il mercato interno.
RispondiEliminaIl resto sono stronzate, considerazioni unilaterali, per esempio quando dice che l’aborto della Comunità Europea di Difesa nel 1954 ne è testimonianza. Gli Usa si sono opposti in tutti i modi, altro che storie. Altro esempio: convertire la Germania «in un paese a vocazione eminentemente agricola e pastorale», fu anzitutto una richiesta di Stalin già a Yalta, quando fece l’esempio della fabbrica di orologi che i tedeschi saprebbero convertire in due mesi in produzione di siluri. Il piano Morgenthau venne pubblicato nell’ottobre 1945, non era altro che aria fritta. Vero che qualcosa di simile fu discusso anche nella conferenza canadese del 1944, ma il ministro degli esteri inglese Anthony Eden, il ministro degli esteri degli Stati Uniti Cordell Hull e il ministro della guerra degli Stati Uniti Henry L. Stimson, protestarono vivacemente. Da qui a trarre certe conclusioni ce ne passa.
Altra frase: “Anche al culmine del loro potere, né la Spagna né la Francia né tantomeno la Germania sono riuscite a stabilire un impero continentale”. E chi è stato sempre l’oppositore tenace? L’inghilterra.
cara Olympe lo sai come sono i geopolitici nostrani: ognuno per sè e USA per tutti
RispondiEliminaper loro il retroterra storico che ha fatto inventare il capitalismo agli europei può ancora essere la sua forza (telo, ethos), quando a mio avviso lo è stato ma non lo è più, è la sua debolezza. a ben guardare l' unico esempio di europa unitaria è stato sotto l' egida dei papi
a me premeva sottolineare il carattere imperialista delle origini come del presente
epperò questa europa che non è più in grado di formarsi se non a due velocità è uno sbaglio che diverrà cocente
i papi, sì hai ragione
Elimina