domenica 15 dicembre 2019

I live by the river


Per quel che ne so, non si è votato sul pessimo programma del Labour ma sul "finiamo questa storia: prima usciamo e poi vediamo". In ogni caso la Gran Bretagna non ne esce bene -la grana scozzese aspetta solo le prossime elezioni 2021 per scoppiare- e persino i Tory, inglobando ora tanto voto working class, ne uscirà totalmente trasformato. Nel loro programma si è preventivamente sorvolato sulla spesa pubblica.

Il progetto EU ne esce anche peggio.

Dalla tradizione di sinistra non solo è opportuno congedarsi ma occorre congedarsi velocemente pure dal congedo stesso. Se il termine di paragone rimane la sinistra borghese, variamente mutaforma e invariabilmente al fianco dello status quo sociale -mentre avversa senza vittorie quello politico, si vivrà oscillando fra "prima era meglio" e "un altro capitalismo è possibile", un opportunismo strutturale insomma, respingendo ciò che è inusitato in questo tempo feroce. 

Questo è un mio commento scritto a proposito della vittoria di Bojo alle elezioni nel Regno Unito e della speculare disfatta dei laburisti. Sotto invece articolo di Limes in cui si ricapitolano le tappe che portarono al progetto europeo, argomento già trattato abbondantemente nel blog, tanto per ribadire quanto poco ci sia da confidare nel futuro del vecchio continente, tra un pò ci sarà anche il tweettarolo a darsi da fare---




Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro della disintegrazione. Potenti tendenze centrifughe scuotono oggi dalle fondamenta l’Unione Europea, oscurando il solare e ingenuo ottimismo di quanti all’alba del nuovo millennio avevano salutato l’introduzione dell’euro e l’allargamento verso est come l’annuncio di un’Europa ormai geopoliticamente e culturalmente unita. L’Unione, questo si diceva, non solo si stava affacciando sulle grandi questioni di sicurezza e difesa, ma con l’affermazione della sovranità monetaria su diversi paesi europei aveva raggiunto un monopolio finora riconosciuto solo agli Stati nazionali. La cultura politica del totale ottimismo, come l’ha definita Majone 1, dominava il dibattito politico, accademico e mediatico. «L’Europa ha garantito cinquant’anni di stabilità, pace e prosperità economica», diventando «un modello di integrazione regionale in tutto il mondo», dichiarava trionfalmente il Libro bianco sulla «governance europea» della Commissione (2001).


Ma si trattava di un’illusione. L’Europa, di cui si disegnavano futuri luminosi, altro non era che l’ombra di un sogno. Come la crisi permanente dell’euro e la decisione senza precedenti del Regno Unito di abbandonare l’Unione dimostrano ampiamente, la fede di molti accademici e uomini politici nelle «magnifiche sorti e progressive» dell’integrazione europea era strutturalmente miope. Tendenze centrifughe in Europa hanno cominciato a emergere dopo il 1989, con il crollo del Muro di Berlino, e si sono manifestate pienamente all’inizio del XXI secolo. Profonde divergenze nella percezione delle priorità strategiche, confliggenti interessi nazionali e la tendenza a ripiegare su una lettura settoriale degli eventi sono apparsi negli stessi anni in cui l’Europa perdeva il suo ruolo geopolitico di bastione antisovietico, originariamente assegnatole dagli Stati Uniti, determinando una profonda e irrisolta crisi di senso del progetto d’integrazione.

2. Lo scoppio delle guerre in Jugoslavia fu il primo, emblematico segnale della contraddizione tra le speranze di unità e la realtà di un’Europa al suo interno profondamente divisa: e questo proprio quando, con la firma del trattato di Maastricht, l’Europa di matrice atlantica si accingeva a varcare (sulla carta) i confini dell’alta politica, con il cambio di nome da Comunità a Unione Europea. Ma nonostante i numerosi tentativi di sottolineare come l’unità finalmente raggiunta non fosse solo un’espressione giuridica – tra cui l’invio nel 1991 di un team ministeriale della Comunità europea nei Balcani, con esiti impalpabili – l’entusiasmo per la neonata Unione fu subito spento dal gelido soffio della realtà.

L’Ue e le sue varie agenzie si dimostrarono del tutto impotenti a fronteggiare la crisi jugoslava, essendo i suoi stessi membri divisi tra coloro che, come la Germania e l’Austria, appoggiavano le repubbliche secessioniste e coloro che, guidati dalla Francia, volevano conservare i confini esistenti e che per questa ragione non erano del tutto insensibili alle posizioni serbe. Come noto, dopo vari massacri in cui le forze di peacekeeping europee stettero a guardare, e dopo che l’impotenza dell’Europa ad agire nel cortile di casa propria risultò non più tollerabile, fu l’America di Clinton a prendere prepotentemente il controllo della situazione, annientando con bombardamenti aerei la capacità serba di compiere ulteriori danni.

Se l’unità che l’Europa ambiva a proiettare esternamente si rivelò fin dal suo primo apparire una tragica farsa, ben più drammatica fu però la divisione che la fine della guerra fredda scongelò all’interno della Comunità, tra gli stessi paesi che dagli anni Cinquanta avevano solennemente proclamato di tendere a un’«unione sempre più stretta» (trattato di Roma, 1957). Rivelando che, a dispetto di decenni di «realizzazioni concrete» e integrazione materiale, diffidenza e ostilità tra i popoli d’Europa erano rimasti dove lo scontro bipolare li aveva congelati.

Sentimenti ampiamente riscontrabili in occasione della prospettiva della riunificazione tedesca. È storia che François Mitterrand e Margaret Thatcher, incapaci di nascondere il loro orrore al pensiero della riunificazione della Germania, fecero del loro meglio per trovare una strategia comune al fine di evitarla, in questo moralmente sostenuti da Andreotti («amo tanto la Germania che ne preferisco due»). È stato lo shock della riunificazione della Germania, e la conseguente minaccia di uno squilibrio nel rapporto franco-tedesco, la scintilla che ha alimentato il processo che avrebbe condotto a quel risultato geopoliticamente insostenibile ed economicamente fallimentare che è stato la moneta unica.

L’euro, presentato come grande successo dell’integrazione, non nasce come il prodotto di disinteressato europeismo, ma come la sintesi, tragicamente incompleta, di sotterranee logiche di potere alimentate da latenti sentimenti di ostilità e sospetto tra gli stessi membri della Comunità («Il trattato di Maastricht è un trattato di Versailles senza guerra», titolava la prima pagina del quotidiano Le Figaro il 18 settembre 1992).

Affetti non proprio fraterni, che sono riemersi violentemente con lo scoppio della crisi finanziaria e dei debiti sovrani, rivelando il grande bluff codificato nel trattato di Maastricht: la virulenza della crisi economica, il riaccendersi di fiammate di inimicizia e conflittualità tra i popoli europei e l’esplosione delle recriminazioni reciproche tra i virtuosi Übermenschen teutonici e le cicale latine non solo hanno messo in luce l’inconsistenza del culmine del processo d’integrazione, che proprio tali conflitti avrebbe dovuto trascendere, ma hanno anche sconfessato alla radice la premessa del metodo comunitario, per decenni contrabbandato come «metodo per la pace»: l’idea secondo cui l’integrazione tecnico-economica si autososterrebbe e condurrebbe da ultimo all’emergere di una comunità politica. Un amaro risveglio per molti sonnambuli profeti del sogno europeo, convinti che dal seme della moneta sarebbe sbocciato l’albero dell’unione politica.

3. Eppure la crisi è tutto fuorché accidentale. Essa è l’esito ultimo di quel processo di disintegrazione europea inaugurato dal crollo del Muro di Berlino e dall’improvvisa evaporazione dello scopo strategico per cui l’integrazione dell’Europa fu, in primo luogo, avviata.

È impossibile, infatti, comprendere perché l’Unione si sia rivelata, all’inizio degli anni Novanta, un guscio vuoto, senza risalire alle origini geopolitiche e alle motivazioni profonde che hanno sostenuto, nel dopoguerra, l’avvio del processo d’integrazione: quale sia la reale natura dell’europeismo lo si può intuire solo immergendosi nelle torbide acque della storia.

A ben vedere, il persistente disaccordo sul significato e sul fine (telos) del processo d’integrazione (o «unione sempre più stretta», a cui i leader europei si professano liturgicamente devoti) trova origine nel fatto che i veri architetti dell’unità dell’Europa non furono affatto gli europei: furono gli americani. È un mito quello secondo cui il progetto europeo sarebbe nato dai «padri dell’Europa» Monnet e Schuman. Il progetto fu avviato dagli americani in larga misura contro la volontà e i desideri degli europei.

Le stremate nazioni europee, che avevano appena scongiurato che si compiesse il disegno imperiale hitleriano, già accarezzato dal Kaiser 2, di cancellare il sistema degli Stati, e con esso il principio di autodeterminazione dei popoli, difficilmente sarebbero state ansiosi di «cedere» la loro residua sovranità, così faticosamente riconquistata, in nome di vaghi e inquietanti progetti di unificazione politica: l’aborto della Comunità Europea di Difesa nel 1954 ne è testimonianza.

Dove però non poteva l’idealismo degli europei, potevano la politica estera americana e i suoi persuasivi mezzi. È noto che dopo il repentino cambiamento di linea verso l’ex alleato sovietico – le cui prosaiche intenzioni erano state illustrate a Washington nel febbraio 1946 dal lungo telegramma proveniente da Mosca, firmato da George Kennan – gli Stati Uniti furono costretti a ripensare l’architettura di sicurezza, d’impianto decisamente wilsoniano, che in tempo di guerra Roosevelt aveva immaginato per la pace. E iniziarono a rivedere la strategia per l’Europa alla luce della necessità di «contenere la Russia sovietica».

I consiglieri di Truman temevano che la mancanza di unità (e prosperità) in Europa avrebbe potuto condurre alla conquista sovietica o alla sovversione interna di matrice comunista. Per questo motivo, il presidente pose come precondizione per gli aiuti del piano Marshall (giugno 1947) che i paesi europei agissero in modo coordinato: esigenza per soddisfare la quale nacque nel 1948 l’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (oggi Ocse). Per usare le parole stesse di George Kennan nel citato telegramma: «Nel lungo periodo ci possono essere solo tre possibilità per il futuro dell’Europa occidentale e centrale. La prima è il dominio tedesco. Un’altra è la dominazione russa. La terza è un’Europa federata».

Con la prospettiva della rinascita economica e militare della Germania entro strutture euro-atlantiche svaniva per la Francia l’illusione di aver trovato nel piano Morgenthau, discusso da Roosevelt e Churchill nella seconda conferenza di Québec (settembre 1944), la soluzione definitiva al problema tedesco: convertire la Germania «in un paese a vocazione eminentemente agricola e pastorale».

Jean Monnet, che de Gaulle nominò nel 1945 capo della Commissione di pianificazione industriale del governo francese (Commissariat du Plan), fu il primo a rendersi conto che, se era impossibile impedire la rinascita economica e industriale tedesca, era nell’interesse nazionale francese stringere la Germania in un abbraccio che avrebbe consentito alla Francia di contenere l’antico rivale, sottraendo ai tedeschi il controllo delle risorse della Ruhr con metodi meno spicciativi di quelli adottati nel 1923. Così diventando la prima fra le nazioni europee e bilanciando al contempo il dominio americano. Per farlo, riadattò la logica funzionalista al servizio del federalismo europeo, nei cui ideali, professati da uno sparuto, iperminoritario gruppo di intellettuali, la Francia vide il manto ideale con cui coprire e legittimare la tutela dei propri interessi nazionali 3.
Fu così che Monnet presentò a Konrad Adenauer, sul piatto della Dichiarazione Schuman (1950), un piano che prevedeva la gestione del carbone e dell’acciaio europeo (leggi: tedesco) da parte di un’alta autorità sovranazionale – plasmata e dominata dalla burocrazia francese, ça va sans dire. Nasceva così, con il trattato di Parigi del 1951, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca). Se gli Stati Uniti avevano bisogno di un’Europa coesa per contenere l’Unione Sovietica – e non è un caso che le teorie neofunzionaliste che hanno accompagnato il processo d’integrazione europea siano nate in America, dove il Dipartimento di Stato agiva come instancabile patrono dell’idea di «Europa» – la Francia usò l’integrazione europea come strumento per contenere la Germania. Al di là del Reno, la Repubblica Federale Germania battezzata nel 1949 come protettorato americano di fatto, intravvide nella prospettiva dell’integrazione un’opportunità per riacquisire legittimità geopolitica e, in prospettiva, sovranità, consapevole che l’unico modo per farlo era la profonda integrazione nell’Europa occidentale, via Alleanza Atlantica, sempre tendendo verso l’America.

4. L’approccio funzionalista, come capirono benissimo Monnet e Schuman, poteva essere usato per mascherare le contraddizioni dell’Europa post-bellica, divisa da rivalità storiche e immersa in profondi vincoli geopolitici. Il funzionalismo, inoltre, lasciava intendere che la cooperazione materiale, affidata a una burocrazia sovranazionale, avrebbe di per sé neutralizzato i conflitti e condotto un giorno all’emergere di una comunità politica. Nelle parole della Dichiarazione Schuman: «L’Europa non si farà tutta in una volta, ma attraverso realizzazioni concrete che creeranno una solidarietà di fatto».

Trova qui origine il credo fondativo dell’europeismo storico, secondo cui l’integrazione tecnico-economica – e quindi la proliferazione di apparati burocratici a essa preposti (le istituzioni «comuni») – rappresenterebbe la via maestra verso il sogno dell’Europa unita. È precisamente a questo livello concettuale che si annida però il fraintendimento più profondo, coltivato da tanta parte della classe dirigente italiana, per cui il «processo» d’integrazione avrebbe come telos la terra promessa dell’unione politica.

Al di là dell’inconsistenza concettuale, ampiamente dimostrata dalla storia, dei presupposti logici e filosofici di un simile approccio, per smentire alla radice decenni di vuoti dibattiti accademici e politici sul tema è sufficiente ricordare ciò che i diplomatici impegnati nei duri negoziati a Bruxelles sperimentano ogni giorno: ovvero che, nonostante le tendenze alla formazione di una società internazionale maggiormente integrata in Europa (questo il senso storico reale del processo d’integrazione), nessun governo europeo si è mai sognato, né mai si sognerà, di mettere in agenda l’abolizione del sistema degli Stati e l’installazione, al suo posto, di una singola autorità politica al cuore dell’Ue.

Se c’è una costante nella storia europea dall’alba della modernità è che il sistema degli Stati, variamente coalizzato, ha sempre respinto ogni tentativo di unificazione politica dell’Europa sotto un unico centro di potere, tale da pregiudicare l’autonomia delle altre parti del sistema. Anche al culmine del loro potere, né la Spagna né la Francia né tantomeno la Germania sono riuscite a stabilire un impero continentale. Benché più volte l’esistenza del sistema degli Stati in Europa sia apparsa prossima alla fine, ogni volta le forze che tendevano a preservarne l’equilibrio hanno prevalso su quelle che volevano rovesciarlo. Ed è indicativo che tale sforzo di resistenza sia stato chiamato «liberazione».

Difatti, benché l’Europa abbia certamente formato per gran parte della sua storia un’unità culturale, economica e in senso lato politica (come Res Publica Christiana), tale unità si è sempre espressa sotto specie dell’irriducibile molteplicità di entità, storie, tradizioni e linguaggi in dialogo e competizione tra loro. Ricchezza e dinamicità che secondo gli storici sono il segreto dello straordinario successo culturale, economico e politico del continente. Per farne ancora oggi lo spazio geopolitico decisivo nel mondo. Come spiega Henry Kissinger: «Differenti dinastie e nazioni in competizione erano percepite non come una forma di “caos” da eliminare ma come un intricato meccanismo tendente a un equilibrio capace di tutelare gli interessi, l’integrità e l’autonomia di ciascun popolo. Per oltre mille anni (…) l’ordine è derivato dall’equilibrio, e l’identità dalla resistenza all’autorità universale» 4.

Per questo, assente in partenza ogni volontà di dare vita a un’autentica unione politica, il concetto di «unione sempre più stretta» evocato dai trattati europei era solo destinato a ingenerare crescente confusione sul senso autentico del processo d’integrazione. Confusione pienamente emersa con la caduta del Muro, che scongelò torrenti geopolitici rimasti ghiacciati per quarant’anni in Europa.

5. La rottura del quadro geopolitico europeo avviata negli ultimi due mesi del 1989 colse i leader europei completamente impreparati e rivelò la fragilità costitutiva del «progetto» comunitario, la vacuità delle sue istituzioni nonché la sua dipendenza dalla leadership americana. Anziché segnare la fine della divisione dell’Europa, la caduta del Muro di Berlino portò a galla una divisione molto più profonda di quella che trent’anni di integrazione materiale avessero lasciato sperare.

I leader europei pensarono che l’unione monetaria, con l’approfondimento delle logiche di spoliticizzazione, potesse essere un’ottima idea tanto per rispondere alla crisi d’identità in cui il progetto era caduto con l’evaporazione dell’Unione Sovietica, quanto per «europeizzare» la Germania riunificata 5. Tuttavia, i passi intrapresi a partire dal trattato di Maastricht e dai successivi (compreso quello di Lisbona) hanno fatto solo incursioni nominali nel regno dell’alta politica, aggirando la questione del potere politico. Circostanza emblematicamente illustrata dal fatto che gli architetti dell’unione monetaria abbiano previsto una Banca centrale europea, ma nessun equivalente del cancelliere dello Scacchiere o del ministro delle Finanze.

I padri dell’euro allora ci assicuravano che l’unione monetaria sarebbe stata l’anticamera dell’unione politica. Questo nonostante fosse già chiaro dalle regole di convergenza adottate a Maastricht che in realtà non vi era alcuna reale disponibilità a procedere sulla strada di una vera integrazione politica che, come tale, avrebbe richiesto non già l’adozione di mere regole di convergenza, quanto piuttosto meccanismi automatici di redistribuzione fiscale per far fronte agli inevitabili shock asimmetrici.

Il disegno istituzionale dell’euro, insomma, nonostante la natura squisitamente geopolitica della moneta e i profondi effetti redistributivi che la sua gestione necessariamente comporta (non per altro, insieme al monopolio della forza fisica, la moneta definisce l’essenza della sovranità statuale), eluse completamente il problema del potere politico, del suo locus e della sua legittimità, trovando nei grossolani dogmi del credo allora dominante, il monetarismo – secondo cui la gestione della politica monetaria sarebbe una questione eminentemente tecnica, da tener lontana dal processo democratico – la cornice teorica che sembrava legittimare da un punto di vista economico l’avventura dell’euro.

6. Ma un’unione monetaria tra paesi con cicli economici profondamente diversi, gelosi delle proprie prerogative sovrane in materia di bilancio e non disposti in partenza a mutualizzare il debito, era una catastrofe annunciata. Saltato per definizione quel meccanismo automatico volto a frenare gli squilibri macroeconomici che è il tasso di cambio, l’economia dell’Eurozona avrebbe sperimentato l’aumento degli squilibri commerciali e dell’instabilità finanziaria, generando infine una bolla che, una volta esplosa, avrebbe generato disoccupazione, deflazione e recessione. Una crisi da cui sarebbe stato molto difficile uscire senza spezzare il giogo dell’euro.
Ad avvisare inutilmente dei pericolosi esiti di un tale esperimento, negli anni di incubazione di Maastricht, non furono solo alcuni dei migliori economisti del mondo (Rudiger Dornbusch, Paul Krugman, Martin Feldstein, Joseph Stiglitz, per fare alcuni nomi), peraltro completamente ignorati dai leader europei. Un articolo firmato sotto pseudonimo da un gruppo di dissidenti della Banque de France, apparso nel settembre del 1993 sul periodico La Revue des Deux Mondes, aveva denunciato in modo spietato l’analfabetismo economico dell’apparato di potere francese uscito dalla École Nationale d’Administration nonché del suo sommo pontefice, l’ineffabile Jean-Claude Trichet, già presidente della Banca di Francia e primo presidente della Banca centrale europea 6.

Il monito più significativo sui rischi dell’euro arrivò da chi, più di tutti, aveva seguito dall’interno la genesi della moneta unica: il capo della divisione Affari monetari della Commissione europea, Bernard Connolly. In un coraggioso libro che gli costò il posto e un processo davanti alla Corte di Giustizia, Connolly, dati alla mano, denunciò pubblicamente la follia del progetto, avvisando che Maastricht non sarebbe stato il compimento del trattato di Roma, ma un «manifesto per la divisione e il conflitto in Europa». Tentare di legare insieme paesi come la Francia e la Germania mediante una moneta comune non avrebbe forgiato un’unione, al contrario avrebbe trasformato «questioni monetarie nazionali in conflitti politici internazionali» 7. Il progetto di unione monetaria, spiegava il manager dell’allora Sistema monetario europeo, avrebbe creato «miseria sociale ed economica», e lo avrebbe fatto in un modo «del tutto prevedibile», distruggendo non solo la prosperità economica e sociale dei paesi coinvolti, ma anche la legittimità politica, l’amicizia e la cooperazione tra i popoli d’Europa. Mettendo in gravissimo rischio la stabilità, la legittimità e la pace.

Gli fece eco qualche anno più tardi Martin Feldstein, insigne economista di Harvard, che scrivendo nel 1997 su Foreign Affairs mise in guardia i leader veterocontinentali: «Invece di favorire l’armonia intra-europea e la pace globale, è molto più probabile che il passaggio all’unione monetaria e all’unione politica che ne conseguirà conduca a un aumento dei conflitti all’interno dell’Europa. (…) Contrariamente alle speranze e alle supposizioni di Monnet, la devastante guerra di secessione americana ci ricorda che un’unione politica formale non costituisce di per sé una garanzia contro una guerra intra-europea».

7. Come un sasso su una sottile lastra di ghiaccio, la crisi finanziaria ha messo in luce il vulnus politico dell’unione monetaria e l’inconsistenza dell’assunto funzionalista scolpito al cuore del metodo comunitario: l’idea che realizzazioni concrete (l’euro) avrebbero creato una solidarietà di fatto (l’unione politica). La scommessa funzionalista, implicante una lezione sequenziale tra euro ed Europa, si è rivelata una colossale menzogna: la solidarietà – l’unica moneta di cui l’Ue ha drammaticamente bisogno – non è infatti il prodotto ma il presupposto di una comunità di destino.

Il processo d’integrazione è giunto oggi a un pericoloso punto di stallo. Ogni soluzione alla crisi strutturale dell’unione monetaria mantenendo l’euro richiederebbe una maggiore centralizzazione dei poteri politici, essenziale per una maggiore integrazione della sfera economica e fiscale, condannando comunque i paesi periferici alla desertificazione economica. Compensata, si fa per dire, dal costante trasferimento di risorse fiscali da parte del centro.

Ma ogni passo verso un maggior accentramento dei poteri non solo diminuirebbe il controllo democratico diretto su decisioni essenziali che attengono all’autodeterminazione delle comunità politiche che compongono l’unione, ma avverrebbe in assenza di qualsiasi legittimità politica. Come il caso della trojka in Grecia ci ricorda, il rafforzamento della governance centrale («più Europa») non farebbe altro che generare un monstrum politico in cui grandi riforme dal lato dell’offerta dell’economia, regole e decisioni su questioni fondamentali per la vita di una società sarebbero imposte da parte di un centro di potere privo di qualsiasi legittimazione politica. Il risultato di tali tentativi di «forzare la mano» in nome della crisi in direzione di un disegno imperiale (vestito da federalista) potrebbe essere catastrofico. La storia indica che azioni di governo che mancano di legittimità determinano alla lunga rottura dell’ordine pubblico e da ultimo rivoluzione e cambio di regime politico 8.

8. Possiamo comunque essere sicuri che tali sviluppi – caldeggiati da un manipolo di messianici fondamentalisti – non avranno mai luogo. Da una parte perché le tendenze centrifughe già in atto (vedi Brexit) lo impediscono in partenza, dall’altra perché la determinazione dell’Ue a perseguire un’unione sempre più stretta è puramente retorica. La totale assenza da parte della Bundesrepublik di qualsiasi disponibilità politica a dare vita a un’unione del debito ne è ampia testimonianza. Del resto, la Corte costituzionale tedesca, in una fondamentale sentenza del 2009, ha messo la pietra tombale sopra a ogni ulteriore progetto di cessione di sovranità, affermando con kantiana categoricità che l’integrazione ha raggiunto con Lisbona il suo «limite estremo»: da qui l’impossibilità che la Repubblica Federale partecipi a una futura evoluzione in senso politico del processo di integrazione.

A chi favoleggia di «completare l’unione bancaria» e di «procedere verso un’unione fiscale» occorrerebbe far leggere quanto la Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht) specificava con teutonico rigore dieci anni fa, ovvero che «la responsabilità complessiva in materia di bilancio» deve essere assunta dal Bundestag «con sufficienti margini di scelta politica su entrate e spese» 9, rientrando in uno dei cinque «settori politici centrali» che riguardano «gli spazi in cui si sviluppa la persona e in cui avviene la configurazione sociale delle condizioni di vita» che non potranno mai e in nessun caso essere «ceduti» a qualche organismo sovranazionale. Con buona pace delle anime belle dell’europeismo.

9. Se ogni strada verso una soluzione pseudo-federalista è de iure e de facto preclusa, la pericolante architettura dell’unione monetaria è inevitabilmente destinata a crollare su sé stessa al primo accenno di tempesta – una bella recessione in arrivo, ad esempio. Dopo dieci anni di crisi, oggi è evidente a chiunque osservi le dinamiche in atto che il mantenimento della moneta unica rappresenta una minaccia politica ed economica per il futuro del continente. In una paradossale eterogenesi dei fini essa ha prodotto l’aumento della conflittualità interna e internazionale, e allontanato, anziché avvicinato, la prospettiva della pacifica cooperazione tra i popoli d’Europa. Spingendo i paesi l’uno contro l’altro e fomentando inevitabili dinamiche centrifughe.

Nel frattempo, dettaglio non secondario, l’esperimento ha devastato economicamente i paesi che vi hanno partecipato, senza risparmiare dulcis in fundo nemmeno il paese che più di ogni altro ne ha in un primo momento beneficiato, la Germania. Prosciugando in meno di un decennio la domanda aggregata in Europa, le politiche deflazionistiche varate dai paesi in difficoltà per tentare di riguadagnare competitività all’interno dell’Eurozona non solo hanno determinato la maggiore contrazione del pil dal 1929, aumentando la disoccupazione e la miseria sociale a livelli impensabili, considerando l’immensa capacità di produrre valore delle società contemporanee, ma hanno lentamente segato il ramo su cui la «locomotiva tedesca» era seduta 10.

Il depauperamento industriale, infrastrutturale, sociale e culturale nei paesi dell’Eurozona è evidente – e di certo, non saranno i green new deals a risolvere i problemi strutturali dell’unione monetaria. Al di là degli squilibri sistemici, la nemesi del fiore all’occhiello del progetto d’integrazione si chiama infatti disunione.

L’integrazione funzionale, agendo per spoliticizzazione, poteva solo mascherare le divisioni politiche, non trascenderle. Anzitutto perché la spoliticizzazione, intesa come cessione di specifiche e limitate competenze a organismi tecnici sovranazionali, era essa stessa il prodotto di tali divisioni: serviva cioè in primo luogo gli interessi politici degli Stati che vi prendevano parte, e non rappresentava affatto un loro superamento nel presunto «interesse europeo».

10. In questo contesto, dove si colloca l’Italia? Purtroppo, da nessuna parte. La classe dirigente del nostro paese non sembra aver sviluppato una coscienza adeguata della portata e della profondità della crisi in atto. Né tantomeno è riuscita a sviluppare, a differenza dei nostri competitori oltre le Alpi e il Reno, una lettura non ideologica del processo d’integrazione, continuando a riaffermare con vuoto e meccanico sussiego la propria dedizione a un’unione sempre più stretta che nessuno in Europa vuole davvero. Nonostante l’evidenza del suo fallimento, l’euro continua a essere interpretato come il simbolo dell’imminente unione politica (aspettando Godot) e venerato da larghi settori della classe dirigente come un fine in sé, da salvaguardare a ogni costo – anche al costo di varare politiche economiche altamente recessive e dai destabilizzanti costi politici, materiali e sociali.

Eppure, mai come oggi sarebbe necessario avviare un esercizio di riflessione volto a ripensare il senso e lo scopo dell’integrazione europea. Occorre immaginare nuovi modi di favorire la pacifica e amichevole cooperazione tra i popoli d’Europa: più intelligenti, più flessibili, più efficaci. E rimodulare i mezzi alla luce di un nuovo realismo che sappia coniugare idealità e realtà. Ciò a cui l’Italia dovrebbe aspirare e lavorare non è la riproposizione di un modello d’integrazione fallimentare, ma un nuovo concetto operativo cominciando a immaginare l’impossibile (inteso come l’estremo possibile): smantellare in modo coordinato l’unione monetaria, sistema che si è rivelato economicamente dannoso e politicamente inadeguato.

Per farlo, occorrerà tuttavia ridefinire il senso e la direzione dell’azione politica europea, orientandola verso modelli di cooperazione compatibili con la prismatica ricchezza politica, linguistica e culturale del continente.

Il senso autentico – l’unico possibile – di «integrazione europea» appare infatti non la fusione né tantomeno lo svuotamento progressivo della sovranità degli Stati, che ha solo aumentato la frammentazione, la segmentazione e il deterioramento del processo politico, ma la libera cooperazione tra i popoli d’Europa fondata sul rispetto delle prerogative sovrane e democratiche di ciascun paese. La sottomissione «in nome dell’Europa» a una tecnocrazia centralizzata vagamente pseudo-sovietica, del tutto inefficiente perché per definizione incapace di tener conto della pluralità di esigenze di Stati molto eterogenei tra loro, non è stata e non sarà in grado di creare armonia e pace, ma solo conflittualità e ribellione.

Non esiste un demos europeo, ma molteplici demoi in Europa, la cui pacifica e amichevole cooperazione deve essere il telos di un nuovo ethos europeo. Per questo l’integrazione europea ripensata alla luce del XXI secolo dovrà forse tornare a guardare al XIX, quando l’esistenza di un «concerto di nazioni» che avvertivano di condividere fondamentali valori comuni seppe tradursi nella messa in opera di istituzioni leggere e flessibili, attraverso cui affrontare in spirito di amicizia e rispetto le più importanti sfide all’ordine internazionale, contemperando alla luce del sole, e non già nascondendoli sotto mistificanti dispositivi ideologici, i legittimi interessi nazionali degli Stati. 


Note:
1. Cfr. G. Majone, Rethinking the Union of Europe Post-Crisis, Cambridge 2014, Cambridge University Press.
2. «Il trionfo della Grande Germania, destinata un giorno a dominare tutta l’Europa, è il solo obiettivo dello scontro in cui siamo impegnati», Kaiser Guglielmo II, «ordine del giorno» trovato in possesso di soldati tedeschi catturati al fronte. Cfr. C. Andler, Pan-Germanisme, Paris 1915, Armand Colin, p. 81.
3. La logica funzionalista era tesa a «coprire le divisioni politiche con una rete crescente di attività internazionali e agenzie, nelle quali e attraverso le quali gli interessi e la vita delle nazioni possano essere gradualmente integrati», cfr. D. Mitrany, A Working Peace System, London 1943, Royal Institute of International Affairs.
4. H. Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori, Milano 2015, p. 14.
5. Lungi dall’essere il trionfo dell’idealismo europeista, la moneta unica – come abbiamo ricordato – fu il risultato di una spietata entente politica tra François Mitterrand e Helmut Kohl, con cui la Germania rinunciava al suo asset strategico (la Deutsche Mark) in cambio dell’assenso francese alla propria riunificazione.
6. La classe politica tedesca invece di economia se ne intendeva. E sapeva che, purché la Banca centrale europea fosse stata un clone della Bundesbank, era nell’interesse dello Stato e della grande industria tedesca cedere all’insistente proposta di abbraccio francese. Per un motivo molto semplice: l’ambizione di rimanere un paese con la bilancia dei pagamenti in attivo era incompatibile con tassi di cambio lasciati liberi di fluttuare sui mercati finanziari. Gli industriali e i vertici della Bundesbank sapevano, già dalla fine del sistema di Bretton Woods, che la Germania non avrebbe potuto permettersi una fluttuazione della sua moneta. Se la quotazione internazionale del marco tedesco fosse stata fissata dalla libera contrattazione sui mercati finanziari, i surplus della Germania avrebbero creato domanda per la sua moneta, e la sua quotazione sarebbe cresciuta al punto da rendere così costosi i suoi prodotti sui mercati stranieri da erodere la sua competitività e infine far sparire i surplus stessi.
7. B. Connolly, The Rotten Heart of Europe, London 1995, Faber & Faber, pp. 390-392.
8. Cfr. D. McKey, «The Political Sustainability of the European Monetary Union», British Journal of Political Science, vol. 29, n. 3, 1999.
9. Una traduzione della sentenza, a cura della Corte costituzionale italiana, è disponibile al seguente indirizzo bit.ly/35NPIdi. Si segnala qui il paragrafo 252, che elenca le materie inalienabili da parte della Repubblica Federale: «Per la capacità di autodeterminazione propria di uno Stato costituzionale si considerano da sempre particolarmente sensibili le decisioni sul diritto penale sostanziale e procedurale 1), la possibilità di disporre del monopolio della forza, della forza di polizia all’interno e della forza militare all’esterno 2), le decisioni fondamentali in materia fiscale su entrate e uscite – motivate anche dalla politica sociale – della mano pubblica 3), la conformazione delle condizioni di vita allo Stato sociale nonché 4) le decisioni di particolare rilievo culturale, ad esempio in materia di diritto di famiglia, sistema scolastico, educazione e rapporti con le comunità religiose 5)».
10. Il deprezzamento dell’euro sul dollaro del 30% circa negli ultimi anni ha allontanato per un po’ la recessione; ma sfortunatamente l’America non apprezza i paesi manipolatori di valuta (tra cui nella lista del dipartimento del Tesoro figura la Germania, tramite Bce) e Trump ha deciso di correggere gli eccessivi squilibri macroeconomici autorizzando dazi per un valore equivalente.

5 commenti:

  1. e beh, sembra che anche l'ennesimo tentativo sia fallito.
    La parte che mi fa sorridere è che probabilmente coloro che ci tenevano di piu' erano le persone comuni : schiavi di un magnate tedesco o di un borsaiolo francese, che differenza avrebbe fatto per noi ?

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  2. lo dico senza enfasi ma dire europa senza londra un pò mi fa male
    ciao caro anonimo

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  3. È evidente che dal seme della moneta non è sbocciato l’albero dell’unione politica (probabilmente non ci ha creduto nessuno), ma dire che l’euro è risultato geopoliticamente insostenibile ed economicamente fallimentare è un po’ troppo. La crisi greca, per esempio, è stata in gran parte la crisi di un sistema con un welfare allegro. Stesso discorso per l’Italia, ecc.. L’euro ci ha salvato da un’inflazione che avrebbe avvantaggiato, ma solo sul breve, le nostre esportazioni ma soffocato ancor più il mercato interno.
    Il resto sono stronzate, considerazioni unilaterali, per esempio quando dice che l’aborto della Comunità Europea di Difesa nel 1954 ne è testimonianza. Gli Usa si sono opposti in tutti i modi, altro che storie. Altro esempio: convertire la Germania «in un paese a vocazione eminentemente agricola e pastorale», fu anzitutto una richiesta di Stalin già a Yalta, quando fece l’esempio della fabbrica di orologi che i tedeschi saprebbero convertire in due mesi in produzione di siluri. Il piano Morgenthau venne pubblicato nell’ottobre 1945, non era altro che aria fritta. Vero che qualcosa di simile fu discusso anche nella conferenza canadese del 1944, ma il ministro degli esteri inglese Anthony Eden, il ministro degli esteri degli Stati Uniti Cordell Hull e il ministro della guerra degli Stati Uniti Henry L. Stimson, protestarono vivacemente. Da qui a trarre certe conclusioni ce ne passa.

    Altra frase: “Anche al culmine del loro potere, né la Spagna né la Francia né tantomeno la Germania sono riuscite a stabilire un impero continentale”. E chi è stato sempre l’oppositore tenace? L’inghilterra.

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  4. cara Olympe lo sai come sono i geopolitici nostrani: ognuno per sè e USA per tutti

    per loro il retroterra storico che ha fatto inventare il capitalismo agli europei può ancora essere la sua forza (telo, ethos), quando a mio avviso lo è stato ma non lo è più, è la sua debolezza. a ben guardare l' unico esempio di europa unitaria è stato sotto l' egida dei papi

    a me premeva sottolineare il carattere imperialista delle origini come del presente

    epperò questa europa che non è più in grado di formarsi se non a due velocità è uno sbaglio che diverrà cocente

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