Interessante articolo, da me sforbiciato delle premesse e conclusioni, del ricercatore sociale Salvatore Cominu apparso su Infoaut che, tralasciando di considerare le persistenti forzature concettuali del filone operaista ( la primazia del piano, nel senso di pianificazione, politico su quella economico, la sottolineatura esagerata dell' influenza delle passate lotte operaie ecc) mi sembra permetta di porsi in un buon angolo per osservare la precedente ascesa e l' odierna crisi del ceto intermedio all' interno di quella presunta dinamica che molti chiamano di polarizzazione sociale.---
[...] Non è che sia molto soddisfatto della categoria di crisi del ceto medio,
mi dice molto poco, anche perché se noi prendessimo documenti degli
anni ‘50, degli anni ‘70, potremmo dedurne che il ceto medio sia da
sempre in crisi; sia sempre descritto come attraversato da processi che,
soprattutto da parte nostra, sono stati letti come proletarizzazione,
impoverimento, processi che in qualche modo lo avvicinavano al nostro
campo. Preferisco fare riferimento, per la lunga stagione che va dagli
anni ‘50 agli anni ‘80 del secolo scorso in Italia, di un grande periodo
di cetomedizzazione, un espressione di De Rita, tra l’altro trovo molto
brutta, però ha anche dei meriti, il primo dei quali è quello di
evidenziare il carattere processuale e in divenire, il “ farsi” del ceto
medio in diversi settori della società italiana.
Questo processo ha
avuto diversi fattori, diversi motori a monte; ne cito alcuni non per
prurito analitico ma per porre in primo piano il fatto che questo
processo non ha prodotto una classe media omogenea e dotata di una
propria ideologia e di una propria rappresentazione unitaria, ma
piuttosto ha prodotto quella che efficacemente è stata definita una
insalata mista di condizioni socio-professionali. Serve anche ad
evidenziare le gerarchie: parlare di ceti medi, nel senso di prima, come
dicevo significa parlare di quell’operaio che riteneva di aver
raggiunto quella condizione di integrazione, e ovviamente delle figure
normalmente associate ai ceti medi: i professionisti, i dirigenti, i
tecnici, impiegati pubblici, come i piccoli imprenditori, la piccola
borghesia tradizionale. Questi motori (produttori di ceto medio) sono
stati diversi. Cominciamo col dirne uno di cui si parla poco, che è
il motore geo-politico. L’Italia ha goduto di una rendita politica
durante la seconda metà del 900, e questo è un aspetto abbastanza
importante; nel campo occidentale innanzitutto era un paese di confine
con il blocco socialista, poi era forse il paese col movimento operaio
più organizzato, certamente con una delle classi operaie più combattive.
Alle classi dirigenti italiane sono state permesse scelte volte proprio
a depotenziare questa specificità. Rendita politica che è finita
evidentemente tra il 1989 e il 1991, quando l’Italia ha potuto usare in
modo anche abbastanza spregiudicato ad esempio la politica monetaria,
per sostenere i redditi di settori importanti della sua economia e delle
società che a questa economia erano correlate, le famose svalutazioni
competitive. C’è stato poi, certamente, un motore economico legato allo
sviluppo dell’industria e dell’urbanizzazione, perché lo sviluppo
dell’industria e delle organizzazioni manageriali e burocratiche ha
moltiplicato le figure dei tecnici, degli impiegati, di capi e anche le
funzioni urbane di gestione del territorio e dei servizi collettivi. E
tutte queste figure andavano rese fedeli al padrone individuale e
collettivo. Qui va detta una cosa, che questa frazione in Italia non è
molto forte, l’Italia è un paese che all’interno della sua
stratificazione sociale ha questa classe media legata al mercato, legata
alla grande impresa, inferiore ad altri paesi. C’è stato un motore
politico in senso stretto perché a produrre cetomedizzazione in Italia
sono state anche e soprattutto le lotte operaie e sociali del lungo ‘68,
che consentivano l’accesso a salari più alti e l’ampliamento di un
salario di riproduzione che poteva essere poi a sua volta reinvestito in
progetti di mobilità sociale, personale e dei figli. Ci sono stati
dei motori regolativi che hanno assunto molte forme. Una di queste è la
progressiva cooptazione del sindacato nei patti neocorporativi a favore
di alcuni settori della forza lavoro a scapito di altri, l’Italia ha
sempre avuto un dualismo strutturale nel mercato del lavoro. Una seconda
forma è l’incentivazione al lavoro autonomo e alla micro-impresa. I
contratti impliciti di incentivazione di questa mobilitazione
individualistica si chiamavano negligenza benevola in materia fiscale,
si chiamavano premio previdenziale, una pensione bassa che era comunque
superiore ai contributi che avevi versato, si chiamavano accesso alle
componenti universali del welfare a cui contribuivi meno di altri.
Questa componente dei ceti autonomi indipendenti, del lavoro autonomo di
prima generazione, e poi come verrà definito in seguito, di seconda
generazione, con delle caratteristiche completamente differenti, è
invece ciò che distingue essenzialmente la cetomedizzazione italiana da
quasi tutti gli altri paesi: tenete conto che il lavoro indipendente in
Italia, dal 1970 agli anni ‘90, passa dal 15% al 25% del totale della
forza lavoro. Queste dimensioni non le ritroviamo in nessun altro paese
industrializzato se non dove abbiamo la sopravvivenza di agricoltori,
coltivatori diretti, ad esempio in Grecia. Terzo contratto esplicito, è
lo sviluppo del welfare e dei settori della riproduzione. Teniamo conto
che in Italia anche queste sono forme sottodimensionate rispetto ad
altri paesi per la specificità del nostro modello sociale – chiamiamolo
regime di welfare – perché il welfare in Italia si è basato più sui
trasferimenti monetari e su benefit categoriali selettivi che non di
tipo universale; molto come sappiamo sulle risorse familiari e sul
lavoro gratuito delle donne. Ciò nonostante però è cresciuto. Negli anni
60 e 70 c’è stata anche la crescita di un settore anche professionale
di tipo riproduttivo, dapprima legato allo Stato e poi sempre meno
legato allo Stato, che ha significato anche creazione di posti
relativamente qualificati, ha significato negli anni settanta anche un
uso politico del concorso pubblico come possibilità di accesso e di
depotenziamento di alcuni strati radicalizzati di lavoratori
intellettuali in formazione dentro il movimento, in un periodo in cui
iniziava a crescere anche la disoccupazione giovanile.
Tutto questo cosa ci dice? Primo, che questa cetomedizzazione era fatta
di tante cose, era un processo complesso che non ha prodotto una classe
media omogenea. In secondo luogo, e per me è la cosa più importante, che
ha riguardato larghe componenti delle classi popolari e della stessa
classe operaia. In terzo luogo: se non guardassimo solo al tipo di
contratti, ai fattori che hanno portato alla crescita di ceto medio ma
guardassimo alle pratiche, ai valori, ai comportamenti, ciò che
concretamente ratificava anche simbolicamente questa ascesa sociale,
vedremmo che queste cose sono state cose molto importanti e che dopo
hanno iniziato ad essere sotto attacco. Prima di tutto l’accesso di
massa alla proprietà immobiliare, alla casa; nessun altro paese
occidentale ha una percentuale di popolazione proprietaria di casa come
in Italia. Poi il finanziamento del risparmio attraverso il debito
pubblico: i bot, che negli anni ‘80 erano un classico strumento di
accumulazione diffusa di questo nuovo ceto medio. E poi certamente ha
voluto dire anche la possibilità di qualificarsi nei consumi, la
possibilità di poter dare un’istruzione, almeno di livello medio (ma
sempre più di livello universitario) alle generazioni entranti anche di
origine operaia. Se non guardassimo all’insieme di questi processi, alla
loro complessità e a quali aspetti rischiano di venir meno e a quali
che effettivamente sono venuti meno, si faticherebbe a cogliere il
processo inverso che per simmetria preferisco chiamare
de-cetomedizzazione piuttosto che declassamento tout court. (Magari dirò
dopo perché preferisco chiamarlo così, non per fare gli originali ma
per mettere in evidenza questo carattere processuale). Diciamo una cosa
fondamentale, che in Italia questo processo diffuso di cetomedizzazione è
partito dopo e si è prolungato fino agli anni 80/90. Anche perché gli
effetti espansivi del reddito e la possibilità di accedere a quei
benefit sociali, prodotti dal ciclo di lotte del lungo ‘68, vengono
ratificati alla fine degli anni ‘70 e durante gli anni ‘80. Gli anni ‘80
sono stati gli anni di corsa all’acquisto della casa, la corsa al bot, e
nonostante i rapporti di forza si fossero già invertiti, si faticava
ancora a rendersene conto, si vedeva l’indebolimento strutturale, la
disarticolazione e la riduzione quantitativa e numerica del soggetto che
era stato al centro del ciclo di lotte precedenti, ma non si vedeva
ancora fino in fondo questa inversione di tendenza. Certamente da un
certo punto in poi il costo della riproduzione politica di questo ceto
medio, il costo di questi contratti, ha iniziato a diventare superfluo
perché non c’era più bisogno di disinnescare alcun assalto al cielo,
alcuna minaccia operaia. Esso ha finito per diventare in qualche modo
insostenibile, quindi si apre un lungo ciclo che appunto chiamo di
de-cetomedizzazione, nel senso del venire meno di quegli stessi fattori
che avevano prodotto un ceto medio così ampio e diffuso che, secondo
alcuni analisti, per quello che valgono questi ragionamenti, includeva
oltre la metà della popolazione italiana. Anche in Italia si era
arrivati ad una grande pancia mediana relativamente consensuale rispetto
allo status quo.
Anche la decetomedizzazione ha avuto i suoi motori, alcuni sono
speculari, altri sono di tipo nuovo. Ora quelli geopolitici mi sembra
che sia inutile richiamarli. L’89 e il ‘91 hanno cambiato completamente
la scena. La rendita politica dell’Italia si è chiusa con gli anni ‘90.
Da allora non è stato neanche più possibile, soprattutto dopo l’ingresso
nell’euro dieci anni dopo, usare lo strumento della politica monetaria
per sostenere l’industria italiana, la sua capacità competitiva sui
mercati internazionali. Ovviamente mi sembra inutile parlare anche dei
motori di de-cetomedizzazione politici, con l’arretramento
dell’iniziativa di classe e anche delle condizioni sociali,
l’indebolimento strutturale della grande parte proletaria rispetto
all’altra parte. Penso ci sia un altro fattore importante di cui
parliamo molto poco che è il motore tecnologico, non voglio dilungarmi
ma ci sarebbe un campo sconfinato di riflessioni da fare su questo tema.
Noi amiamo molto parlare del contro-uso delle nuove tecnologie, sentivo
che si citava anche prima l’“uso proletario di internet”. Io sono molto
d’accordo, i movimenti, i soggetti quando si riappropriano di
protagonismo, trovano la capacità di utilizzare l’apparato
tecnologico che viene messo a disposizione dalla controparte per i
propri scopi, però la rivoluzione tecnologica, che è partita già prima
negli anni 70 con i grandi investimenti in ricerca e sviluppo, e poi
sviluppatasi negli anni 80 e 90, ha avuto come scopo anche la
disarticolazione del potere della nostra parte, del potere dei
lavoratori, ed è stato anche un importante fattore di disarticolazione
del processo di cetomedizzazione. Non mi dilungo ma ci sono tantissimi
documenti, anche analisi di ricercatori assolutamente mainstream che
mostrano molto chiaramente come gli effetti della diffusione delle nuove
tecnologie colpiscano soprattutto gli strati dei gruppi professionali
di livello intermedio e iniziano a colpire anche quelli di livello molto
alto. Credo che questo sia un fattore fondamentale su cui dovremmo
tornare, anche perché soprattutto quei gruppi che vanno a bloccare le
strade in Francia molto spesso sono gruppi intimoriti dalla nuova
configurazione dei modelli di produzione che vengono portati avanti,
hanno paura di essere spiazzati, spiazzati professionalmente, spiazzati
perché resi superflui dalle nuove tecnologie nel senso di
disintermediazione e di ridislocazione. Son fattori molto importanti. Io
mi rendo conto che in questo modo si rischia di avvalorare uno dei
sentimenti più reazionari che la storia ci abbia consegnato, la
tecnofobia; non sto parlando di questo, però non possiamo non renderci
conto che questo è stato un fattore importante di disarticolazione,
destrutturazione di quel processo di cetomedizzazione. Poi abbiamo avuto
tante altre cose, è stato un processo molto lungo,
la finanziarizzazione del risparmio, del mattone, in Italia è stato un
fenomenale processo di rimessa in discussione, di destabilizzazione di
quelle strategie di risparmio, di accumulazione diffusa. E questa è una
cosa da tenere in conto nel dibattito sull’eccessivo debito pubblico
italiano, che è un dato, dal punto di vista della contabilità nazionale,
assolutamente reale ma che fa da contraltare al fatto che proprio
questa specifica composizione di ceto medio è una delle meno indebitate
del mondo, noi parliamo spesso dell’uomo indebitato e facciamo bene,
però è una delle popolazioni con la ricchezza privata più alta. Qui c’è
molto da spolpare, e questa è una delle grandi questioni che ci troviamo
di fronte oggi ed è anche una delle contraddizioni che oppone quei
signori che bloccano le strade o che votano quelli che hanno votato
anche in Italia, per esempio all’Unione Europea. Ci sono dei processi
complessivi per cui la gestione del debito pubblico, le politiche che
vengono considerate giuste, coerenti, sono quelle che in qualche misura
tendono a minacciare questo senso di stabilità, questi beni-rifugio che
hanno fornito e dato riparo nel processo oggettivo di perdita della
capacità di riprodurre in forma espansiva la propria ascesa sociale,
ecc. E poi c’ è la perdita di stabilità, di protezione politica, ce n’è
uno, che forse per noi è il più importante di tutti, che è la rottura
certamente selettiva, che non vale per tutti, del nesso tra investimento
educativo eaccesso a posizioni sociali congrue. Uno dei grandi fattori
di questo declassamento è stato, a mio modo di vedere, l’inflazione e la
svalorizzazione delle credenziali educative. Il titolo di studio che
vale sempre meno. E questo ha voluto dire anche un’inversione delle
aspettative legate agli stessi investimenti educativi. Riprendendo la
famosa canzone, l’operaio finalmente avrà il figlio dottore, peccato che
s guadagnerà meno di lui e sarà costretto a “meritarsi” quotidianamente
l’inclusione lavorativa e professionale. L’altro dato di fondo, e qua
ritorna l’uso politico delle tecnologie, è che siamo tutti messi al
lavoro, con tante forme, tanti livelli di produttività, livelli di
fatica e di alienazione molto superiori a quelli sperimentati dalle
generazioni passate.
Questo quindi per sottolineare che la
de-cetomedizzazione è stato un processo con tanti fattori, è un processo
in cui siamo tuttora immersi, personalmente credo che non abbiamo visto
ancora molto, tutto sommato.
La
ragione per cui preferisco parlare di decetomedizzazione anziché di
crisi di ceto medio (o di proletarizzazione o di declassamento) è per
dare innanzitutto un senso processuale, per indicare un ciclo lungo, e
perché mi sembra di dover mettere in evidenza alcuni aspetti soggettivi.
Quello che chiamiamo declassamento attiene molto più alla dimensione
delle aspettative, di quanto attiene ai processi materiali. Se il
processo di cetomedizzazione era produzione del sentirsi inclusi e
integrati, inseriti in una traiettoria stabile, il processo di
decetomedizzazione è anzitutto la rottura di questo aspetto. Per esempio
(non è che sia appassionato di queste cose ma serve per darci una
misura), c’è un centro studi che realizza periodicamente un’indagine
sulla popolazione italiana in cui chiede alle persone a quale gruppo
sociale ritengano di appartenere, fino al 2007 il 60% riteneva di
appartenere al ceto medio, oggi invece questa percentuale è scesa al
40%. Io credo che a rompersi siano stati soprattutto quei dispositivi di
integrazione e di aspettative crescenti, però attenzione – e penso che
questo per noi sia un fattore importante – mi sembra si possa dire che
si sia rotto un altro aspetto determinante della costruzione del ceto
medio, quella che prima ho chiamato la co-appartenenza con le classi
dominanti e con i gruppi al potere. Il progetto democristiano che ha
governato tutta la prima repubblica e che Renzi, secondo me anche
intelligentemente, ha provato a riprodurre nella sua breve stagione, era
nient’altro che un progetto di distribuzione selettiva mirata, volta a
creare questa co-appartenenza tra il partito degli affari e questa
cetomedizzazione diffusa. Io credo che questa cosa sia entrata
profondamente in crisi, e questo (scusate il gioco di parole) credo sia
il principale lascito che la crisi apertasi nel 2008 ci consegna anche
ai nostri giorni. Detto ciò il decetomedizzato non è necessariamente un
declassato, perché spesso i suoi risparmi li ha mantenuti, anche se
sovente li sta usando per finanziare il proprio tenore di vita o
finanziare la riproduzione delle generazioni entranti, per i suoi figli,
sostenere le strategie del restare ceto medio in riferimento ai figli.
Le case le ha ancora, hanno perso valore però le ha ancora, dunque non è
sempre un impoverito, non è sempre un declassato, con questo sillogismo
comunicheremmo immagini fittizie e descriveremmo scenari
pre-apocalittici che non sono nelle cose, almeno questa è la mia
opinione. Dopo di che, delle parti si sono impoverite sul serio, e
allora perché parlare comunque di decetomedizzazione? Perché pur essendo
declassato, pur essendo impoverito, i suoi valori e le
sue aspettative rimangono quelle del ceto medio. Intendo dire che tutti
gli sforzi che compie questo declassato, i suoi investimenti o le sue
scelte professionali, sono permeati dalla volontà di restare ceto medio,
va giù ma rimane con la testa rivolta verso l’alto, da dove proviene.
Dunque pensiamo a che cosa significhi o cosa ha significato restare ceto
medio per esempio in termini di soggettivazione delle componenti
istruite, in crescita, nei settori del lavoro della conoscenza:
accettazione di condizioni sgradevoli e tutt’altro che desiderabili,
spesso lavoro gratuito e volontario. Magari hanno la possibilità di
percepire redditi migliori e condizioni più stabili, però preferiscono
per questioni di status non opporsi. Tutti questi aspetti, questi cicli,
vanno inquadrati nei grandi cambiamenti e nelle grandi trasformazioni
di fondo del capitalismo, dal mio punto di vista questo ceto medio è
pienamente parte integrante di una nuova condizione proletaria, è parte
di quello che il nostro maestro [Romano Alquati] chiamava l’iper-proletariato del nuovo
capitalismo, che da tempo non è fatto più dal solo lavoro esecutivo, dal
lavoro manuale dell’industria e dei servizi. Intendo dire che dentro
questo processo abbiamo quella che è la condizione baricentrica,
proletaria, dei paesi a capitalismo avanzato. E’ difficile avere un
progetto di trasformazione sociale, un progetto di cambiamento, anche di
rilancio della prospettiva di classe, senza tener conto di queste
specifiche connotazioni assunte dalla macro-classe proletaria nei paesi a
capitalismo dispiegato e maturo. Quindi è importante rimarcare la
questione del ceto medio ma sapendo che stiamo parlando di un pezzo
determinante della nostra parte. [...]
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