domenica 3 marzo 2019

De ceto medio




Interessante articolo, da me sforbiciato delle premesse e conclusioni, del ricercatore sociale Salvatore Cominu apparso su Infoaut che, tralasciando di considerare le persistenti forzature concettuali del filone operaista ( la primazia del piano, nel senso di pianificazione, politico su quella economico, la sottolineatura esagerata dell' influenza delle passate lotte operaie ecc) mi sembra permetta di porsi in un buon angolo per osservare la precedente ascesa e l' odierna crisi del ceto intermedio all' interno di quella  presunta dinamica che molti chiamano di polarizzazione sociale.---

[...] Non è che sia molto soddisfatto della categoria di crisi del ceto medio, mi dice molto poco, anche perché se noi prendessimo documenti degli anni ‘50, degli anni ‘70, potremmo dedurne che il ceto medio sia da sempre in crisi; sia sempre descritto come attraversato da processi che, soprattutto da parte nostra, sono stati letti come proletarizzazione, impoverimento, processi che in qualche modo lo avvicinavano al nostro campo. Preferisco fare riferimento, per la lunga stagione che va dagli anni ‘50 agli anni ‘80 del secolo scorso in Italia, di un grande periodo di cetomedizzazione, un espressione di De Rita, tra l’altro trovo molto brutta, però ha anche dei meriti, il primo dei quali è quello di evidenziare il carattere processuale e in divenire, il “ farsi” del ceto medio in diversi settori della società italiana.

Questo processo ha avuto diversi fattori, diversi motori a monte; ne cito alcuni non per prurito analitico ma per porre in primo piano il fatto che questo processo non ha prodotto una classe media omogenea e dotata di una propria ideologia e di una propria rappresentazione unitaria, ma piuttosto ha prodotto quella che efficacemente è stata definita una insalata mista di condizioni socio-professionali. Serve anche ad evidenziare le gerarchie: parlare di ceti medi, nel senso di prima, come dicevo significa parlare di quell’operaio che riteneva di aver raggiunto quella condizione di integrazione, e ovviamente delle figure normalmente associate ai ceti medi: i professionisti, i dirigenti, i tecnici, impiegati pubblici, come i piccoli imprenditori, la piccola borghesia tradizionale. Questi motori (produttori di ceto medio) sono stati diversi. Cominciamo col dirne uno di cui si parla poco, che è il motore geo-politico. L’Italia ha goduto di una rendita politica durante la seconda metà del 900, e questo è un aspetto abbastanza importante; nel campo occidentale innanzitutto era un paese di confine con il blocco socialista, poi era forse il paese col movimento operaio più organizzato, certamente con una delle classi operaie più combattive. Alle classi dirigenti italiane sono state permesse scelte volte proprio a depotenziare questa specificità. Rendita politica che è finita evidentemente tra il 1989 e il 1991, quando l’Italia ha potuto usare in modo anche abbastanza spregiudicato ad esempio la politica monetaria, per sostenere i redditi di settori importanti della sua economia e delle società che a questa economia erano correlate, le famose svalutazioni competitive. C’è stato poi, certamente, un motore economico legato allo sviluppo dell’industria e dell’urbanizzazione, perché lo sviluppo dell’industria e delle organizzazioni manageriali e burocratiche ha moltiplicato le figure dei tecnici, degli impiegati, di capi e anche le funzioni urbane di gestione del territorio e dei servizi collettivi. E tutte queste figure andavano rese fedeli al padrone individuale e collettivo. Qui va detta una cosa, che questa frazione in Italia non è molto forte, l’Italia è un paese che all’interno della sua stratificazione sociale ha questa classe media legata al mercato, legata alla grande impresa, inferiore ad altri paesi. C’è stato un motore politico in senso stretto perché a produrre cetomedizzazione in Italia sono state anche e soprattutto le lotte operaie e sociali del lungo ‘68, che consentivano l’accesso a salari più alti e l’ampliamento di un salario di riproduzione che poteva essere poi a sua volta reinvestito in progetti di mobilità sociale, personale e dei figli. Ci sono stati dei motori regolativi che hanno assunto molte forme. Una di queste è la progressiva cooptazione del sindacato nei patti neocorporativi a favore di alcuni settori della forza lavoro a scapito di altri, l’Italia ha sempre avuto un dualismo strutturale nel mercato del lavoro. Una seconda forma è l’incentivazione al lavoro autonomo e alla micro-impresa. I contratti impliciti di incentivazione di questa mobilitazione individualistica si chiamavano negligenza benevola in materia fiscale, si chiamavano premio previdenziale, una pensione bassa che era comunque superiore ai contributi che avevi versato, si chiamavano accesso alle componenti universali del welfare a cui contribuivi meno di altri. Questa componente dei ceti autonomi indipendenti, del lavoro autonomo di prima generazione, e poi come verrà definito in seguito, di seconda generazione, con delle caratteristiche completamente differenti, è invece ciò che distingue essenzialmente la cetomedizzazione italiana da quasi tutti gli altri paesi: tenete conto che il lavoro indipendente in Italia, dal 1970 agli anni ‘90, passa dal 15% al 25% del totale della forza lavoro. Queste dimensioni non le ritroviamo in nessun altro paese industrializzato se non dove abbiamo la sopravvivenza di agricoltori, coltivatori diretti, ad esempio in Grecia. Terzo contratto esplicito, è lo sviluppo del welfare e dei settori della riproduzione. Teniamo conto che in Italia anche queste sono forme sottodimensionate rispetto ad altri paesi per la specificità del nostro modello sociale – chiamiamolo regime di welfare – perché il welfare in Italia si è basato più sui trasferimenti monetari e su benefit categoriali selettivi che non di tipo universale; molto come sappiamo sulle risorse familiari e sul lavoro gratuito delle donne. Ciò nonostante però è cresciuto. Negli anni 60 e 70 c’è stata anche la crescita di un settore anche professionale di tipo riproduttivo, dapprima legato allo Stato e poi sempre meno legato allo Stato, che ha significato anche creazione di posti relativamente qualificati, ha significato negli anni settanta anche un uso politico del concorso pubblico come possibilità di accesso e di depotenziamento di alcuni strati radicalizzati di lavoratori intellettuali in formazione dentro il movimento, in un periodo in cui iniziava a crescere anche la disoccupazione giovanile.

 Tutto questo cosa ci dice? Primo, che questa cetomedizzazione era fatta di tante cose, era un processo complesso che non ha prodotto una classe media omogenea. In secondo luogo, e per me è la cosa più importante, che ha riguardato larghe componenti delle classi popolari e della stessa classe operaia. In terzo luogo: se non guardassimo solo al tipo di contratti, ai fattori che hanno portato alla crescita di ceto medio ma guardassimo alle pratiche, ai valori, ai comportamenti, ciò che concretamente ratificava anche simbolicamente questa ascesa sociale, vedremmo che queste cose sono state cose molto importanti e che dopo hanno iniziato ad essere sotto attacco. Prima di tutto l’accesso di massa alla proprietà immobiliare, alla casa; nessun altro paese occidentale ha una percentuale di popolazione proprietaria di casa come in Italia. Poi il finanziamento del risparmio attraverso il debito pubblico: i bot, che negli anni ‘80 erano un classico strumento di accumulazione diffusa di questo nuovo ceto medio. E poi certamente ha voluto dire anche la possibilità di qualificarsi nei consumi, la possibilità di poter dare un’istruzione, almeno di livello medio (ma sempre più di livello universitario) alle generazioni entranti anche di origine operaia. Se non guardassimo all’insieme di questi processi, alla loro complessità e a quali aspetti rischiano di venir meno e a quali che effettivamente sono venuti meno, si faticherebbe a cogliere il processo inverso che per simmetria preferisco chiamare de-cetomedizzazione piuttosto che declassamento tout court. (Magari dirò dopo perché preferisco chiamarlo così, non per fare gli originali ma per mettere in evidenza questo carattere processuale). Diciamo una cosa fondamentale, che in Italia questo processo diffuso di cetomedizzazione è partito dopo e si è prolungato fino agli anni 80/90. Anche perché gli effetti espansivi del reddito e la possibilità di accedere a quei benefit sociali, prodotti dal ciclo di lotte del lungo ‘68, vengono ratificati alla fine degli anni ‘70 e durante gli anni ‘80. Gli anni ‘80 sono stati gli anni di corsa all’acquisto della casa, la corsa al bot, e nonostante i rapporti di forza si fossero già invertiti, si faticava ancora a rendersene conto, si vedeva l’indebolimento strutturale, la disarticolazione e la riduzione quantitativa e numerica del soggetto che era stato al centro del ciclo di lotte precedenti, ma non si vedeva ancora fino in fondo questa inversione di tendenza. Certamente da un certo punto in poi il costo della riproduzione politica di questo ceto medio, il costo di questi contratti, ha iniziato a diventare superfluo perché non c’era più bisogno di disinnescare alcun assalto al cielo, alcuna minaccia operaia. Esso ha finito per diventare in qualche modo insostenibile, quindi si apre un lungo ciclo che appunto chiamo di de-cetomedizzazione, nel senso del venire meno di quegli stessi fattori che avevano prodotto un ceto medio così ampio e diffuso che, secondo alcuni analisti, per quello che valgono questi ragionamenti, includeva oltre la metà della popolazione italiana. Anche in Italia si era arrivati ad una grande pancia mediana relativamente consensuale rispetto allo status quo.

 Anche la decetomedizzazione ha avuto i suoi motori, alcuni sono speculari, altri sono di tipo nuovo. Ora quelli geopolitici mi sembra che sia inutile richiamarli. L’89 e il ‘91 hanno cambiato completamente la scena. La rendita politica dell’Italia si è chiusa con gli anni ‘90. Da allora non è stato neanche più possibile, soprattutto dopo l’ingresso nell’euro dieci anni dopo, usare lo strumento della politica monetaria per sostenere l’industria italiana, la sua capacità competitiva sui mercati internazionali. Ovviamente mi sembra inutile parlare anche dei motori di de-cetomedizzazione politici, con l’arretramento dell’iniziativa di classe e anche delle condizioni sociali, l’indebolimento strutturale della grande parte proletaria rispetto all’altra parte. Penso ci sia un altro fattore importante di cui parliamo molto poco che è il motore tecnologico, non voglio dilungarmi ma ci sarebbe un campo sconfinato di riflessioni da fare su questo tema. Noi amiamo molto parlare del contro-uso delle nuove tecnologie, sentivo che si citava anche prima l’“uso proletario di internet”. Io sono molto d’accordo, i movimenti, i soggetti quando si riappropriano di protagonismo, trovano la capacità di utilizzare l’apparato tecnologico che viene messo a disposizione dalla controparte per i propri scopi, però la rivoluzione tecnologica, che è partita già prima negli anni 70 con i grandi investimenti in ricerca e sviluppo, e poi sviluppatasi negli anni 80 e 90, ha avuto come scopo anche la disarticolazione del potere della nostra parte, del potere dei lavoratori, ed è stato anche un importante fattore di disarticolazione del processo di cetomedizzazione. Non mi dilungo ma ci sono tantissimi documenti, anche analisi di ricercatori assolutamente mainstream che mostrano molto chiaramente come gli effetti della diffusione delle nuove tecnologie colpiscano soprattutto gli strati dei gruppi professionali di livello intermedio e iniziano a colpire anche quelli di livello molto alto. Credo che questo sia un fattore fondamentale su cui dovremmo tornare, anche perché soprattutto quei gruppi che vanno a bloccare le strade in Francia molto spesso sono gruppi intimoriti dalla nuova configurazione dei modelli di produzione che vengono portati avanti, hanno paura di essere spiazzati, spiazzati professionalmente, spiazzati perché resi superflui dalle nuove tecnologie nel senso di disintermediazione e di ridislocazione. Son fattori molto importanti. Io mi rendo conto che in questo modo si rischia di avvalorare uno dei sentimenti più reazionari che la storia ci abbia consegnato, la tecnofobia; non sto parlando di questo, però non possiamo non renderci conto che questo è stato un fattore importante di disarticolazione, destrutturazione di quel processo di cetomedizzazione. Poi abbiamo avuto tante altre cose, è stato un processo molto lungo, la finanziarizzazione del risparmio, del mattone, in Italia è stato un fenomenale processo di rimessa in discussione, di destabilizzazione di quelle strategie di risparmio, di accumulazione diffusa. E questa è una cosa da tenere in conto nel dibattito sull’eccessivo debito pubblico italiano, che è un dato, dal punto di vista della contabilità nazionale, assolutamente reale ma che fa da contraltare al fatto che proprio questa specifica composizione di ceto medio è una delle meno indebitate del mondo, noi parliamo spesso dell’uomo indebitato e facciamo bene, però è una delle popolazioni con la ricchezza privata più alta. Qui c’è molto da spolpare, e questa è una delle grandi questioni che ci troviamo di fronte oggi ed è anche una delle contraddizioni che oppone quei signori che bloccano le strade o che votano quelli che hanno votato anche in Italia, per esempio all’Unione Europea. Ci sono dei processi complessivi per cui la gestione del debito pubblico, le politiche che vengono considerate giuste, coerenti, sono quelle che in qualche misura tendono a minacciare questo senso di stabilità, questi beni-rifugio che hanno fornito e dato riparo nel processo oggettivo di perdita della capacità di riprodurre in forma espansiva la propria ascesa sociale, ecc. E poi c’ è la perdita di stabilità, di protezione politica, ce n’è uno, che forse per noi è il più importante di tutti, che è la rottura certamente selettiva, che non vale per tutti, del nesso tra investimento educativo eaccesso a posizioni sociali congrue. Uno dei grandi fattori di questo declassamento è stato, a mio modo di vedere, l’inflazione e la svalorizzazione delle credenziali educative. Il titolo di studio che vale sempre meno. E questo ha voluto dire anche un’inversione delle aspettative legate agli stessi investimenti educativi. Riprendendo la famosa canzone, l’operaio finalmente avrà il figlio dottore, peccato che s guadagnerà meno di lui e sarà costretto a “meritarsi” quotidianamente l’inclusione lavorativa e professionale. L’altro dato di fondo, e qua ritorna l’uso politico delle tecnologie, è che siamo tutti messi al lavoro, con tante forme, tanti livelli di produttività, livelli di fatica e di alienazione molto superiori a quelli sperimentati dalle generazioni passate.

Questo quindi per sottolineare che la de-cetomedizzazione è stato un processo con tanti fattori, è un processo in cui siamo tuttora immersi, personalmente credo che non abbiamo visto ancora molto, tutto sommato.

La ragione per cui preferisco parlare di decetomedizzazione anziché di crisi di ceto medio (o di proletarizzazione o di declassamento) è per dare innanzitutto un senso processuale, per indicare un ciclo lungo, e perché mi sembra di dover mettere in evidenza alcuni aspetti soggettivi. Quello che chiamiamo declassamento attiene molto più alla dimensione delle aspettative, di quanto attiene ai processi materiali. Se il processo di cetomedizzazione era produzione del sentirsi inclusi e integrati, inseriti in una traiettoria stabile, il processo di decetomedizzazione è anzitutto la rottura di questo aspetto. Per esempio (non è che sia appassionato di queste cose ma serve per darci una misura), c’è un centro studi che realizza periodicamente un’indagine sulla popolazione italiana in cui chiede alle persone a quale gruppo sociale ritengano di appartenere, fino al 2007 il 60% riteneva di appartenere al ceto medio, oggi invece questa percentuale è scesa al 40%. Io credo che a rompersi siano stati soprattutto quei dispositivi di integrazione e di aspettative crescenti, però attenzione – e penso che questo per noi sia un fattore importante – mi sembra si possa dire che si sia rotto un altro aspetto determinante della costruzione del ceto medio, quella che prima ho chiamato la co-appartenenza con le classi dominanti e con i gruppi al potere. Il progetto democristiano che ha governato tutta la prima repubblica e che Renzi, secondo me anche intelligentemente, ha provato a riprodurre nella sua breve stagione, era nient’altro che un progetto di distribuzione selettiva mirata, volta a creare questa co-appartenenza tra il partito degli affari e questa cetomedizzazione diffusa. Io credo che questa cosa sia entrata profondamente in crisi, e questo (scusate il gioco di parole) credo sia il principale lascito che la crisi apertasi nel 2008 ci consegna anche ai nostri giorni. Detto ciò il decetomedizzato non è necessariamente un declassato, perché spesso i suoi risparmi li ha mantenuti, anche se sovente li sta usando per finanziare il proprio tenore di vita o finanziare la riproduzione delle generazioni entranti, per i suoi figli, sostenere le strategie del restare ceto medio in riferimento ai figli. Le case le ha ancora, hanno perso valore però le ha ancora, dunque non è sempre un impoverito, non è sempre un declassato, con questo sillogismo comunicheremmo immagini fittizie e descriveremmo scenari pre-apocalittici che non sono nelle cose, almeno questa è la mia opinione. Dopo di che, delle parti si sono impoverite sul serio, e allora perché parlare comunque di decetomedizzazione? Perché pur essendo declassato, pur essendo impoverito, i suoi valori e le sue aspettative rimangono quelle del ceto medio. Intendo dire che tutti gli sforzi che compie questo declassato, i suoi investimenti o le sue scelte professionali, sono permeati dalla volontà di restare ceto medio, va giù ma rimane con la testa rivolta verso l’alto, da dove proviene. Dunque pensiamo a che cosa significhi o cosa ha significato restare ceto medio per esempio in termini di soggettivazione delle componenti istruite, in crescita, nei settori del lavoro della conoscenza: accettazione di condizioni sgradevoli e tutt’altro che desiderabili, spesso lavoro gratuito e volontario. Magari hanno la possibilità di percepire redditi migliori e condizioni più stabili, però preferiscono per questioni di status non opporsi. Tutti questi aspetti, questi cicli, vanno inquadrati nei grandi cambiamenti e nelle grandi trasformazioni di fondo del capitalismo, dal mio punto di vista questo ceto medio è pienamente parte integrante di una nuova condizione proletaria, è parte di quello che il nostro maestro [Romano Alquati] chiamava l’iper-proletariato del nuovo capitalismo, che da tempo non è fatto più dal solo lavoro esecutivo, dal lavoro manuale dell’industria e dei servizi. Intendo dire che dentro questo processo abbiamo quella che è la condizione baricentrica, proletaria, dei paesi a capitalismo avanzato. E’ difficile avere un progetto di trasformazione sociale, un progetto di cambiamento, anche di rilancio della prospettiva di classe, senza tener conto di queste specifiche connotazioni assunte dalla macro-classe proletaria nei paesi a capitalismo dispiegato e maturo. Quindi è importante rimarcare la questione del ceto medio ma sapendo che stiamo parlando di un pezzo determinante della nostra parte. [...]



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