E' da stamattina presto che leggo riviste e quotidiani e non trovo neanche un articolo di mio interesse, nè di quelli improntati a una retrospettiva e bilancio del 2018 e neppure tra quelli che ambirebbero a dare anticipazioni su "l' anno che verrà". Sotto traccia, il tema è unico: la valutazione della profondità della crisi del capitalismo globale. Si possono leggere considerazioni sul DEF italiano, sulla trade war o sul rallentamento globale, oppure sul prosciugamento della liquidità sui mercati finanziari, sulla brexit (che pasticcio !) o quelle di Gramsci sul capodanno, ma l' ansia è una sola. In tutto questo considerare e valutare sempre c'è un motivo scatenante, un capro espiatorio da additare, una vittima da compatire. A nessuno viene in mente che non è la musica ad essere stonata, è il pianista che è preso via, seguendo il suo cuore.
L' articolo sotto, di tono leggero e brillante -ed è per questo che lo pubblico, è intitolato " Viaggio nelle fabbriche cinesi di Babbo Natale" a firma di Gabriele Battaglia; il mercato mondiale visto dalla più grande rivendita all’ingrosso di merci a basso costo del mondo. Stupenda la signora Yu, colei che " si sacrifica per la felicità del genere umano".---
I Babbi Natale sono decine, di tutti i tipi: alcuni sono dei
manichini di dimensioni umane che si muovono a scatti diffondendo
canzoncine natalizie, altri sono invece gonfiabili e più imponenti. Un
pupazzo meccanico indossa una giacca di tartan scozzese invece della
solita giubba rossa, ma a ipnotizzarmi è soprattutto una composizione
corale: da un grande uovo esce Shengdan Lao (Babbo Natale in
cinese) e abbraccia un pupazzo di neve con bombetta e mantello che lo
aspetta lì fuori. Il tutto grande come un paio di frigoriferi, il tutto
gonfiabile, il tutto in loop.
Una cacofonia di Jingle bells si contende lo spazio sonoro con altrettanti adattamenti di Feliz Navidad;
sullo sfondo, l’ininterrotto ronzio dei motorini elettrici che gonfiano
i Santa Claus pneumatici. Insomma, un baccano pazzesco. Nel negozio
della signora Yu Qiaofang non c’è che l’imbarazzo della scelta. Le
chiedo come mai tutti i pupazzi abbiano gli occhiali: “Babbo Natale è
vecchio e deve indossarli”, mi risponde.
Alla fine ne scelgo uno gonfiabile che, attaccato alla presa di
corrente, cresce in pochi secondi fino a un’altezza di due metri e
dieci: è come avere in casa Dino Meneghin, largo però come due Bud
Spencer. Il mio non ha gli occhiali, ma due occhi sgranati da manga
giapponese. Qui tutto si contamina, ma il tocco creativo resta
invariabilmente cinese.
Yu Qiaofang descrive la filiera di Babbo Natale: “I vestiti li
facciamo produrre in sartoria, proprio come per gli esseri umani. E
anche Babbo Natale ha un cuore, ma elettrico: i chip, le cinghie, gli
ingranaggi, sono tutti molto piccoli. Poi c’è il corpo, simile a quello
delle persone normali. Noi facciamo gli stampi e poi ci sono delle
fabbriche che producono gli accessori”.
Siamo a Yiwu, nella provincia del Zhejiang, 350 chilometri a sudest
di Shanghai. In estesi mercati coperti, che secondo le autorità locali
ospitano complessivamente 50mila negozi per 300mila articoli dei più
diversi generi, si trova la più grande rivendita all’ingrosso di merci a
basso costo del mondo. Al terzo e quarto piano del mercato di Futian –
ribattezzato “Città internazionale del commercio” – si vendono gli
articoli natalizi.
Non è così originale scrivere una storia su “Yiwu e il Natale”
proprio nei giorni di Natale. Ogni anno qualcuno lo fa. Ma questa volta,
i grossisti della città si trovano per la prima volta ad affrontare
qualcosa più grande di loro: la guerra commerciale tra Stati Uniti e
Cina.
Se Yiwu esporta nel mondo il 70 per cento dei gingilli natalizi, ben
il 30 per cento prende la direzione degli Stati Uniti, il paese dove
anche il Natale diventa occasione per competere. Fatevi un giro in
qualche “America profonda” di villette monofamiliari, se non ci credete.
Percepirete alla svelta quanto sia importante decorare la propria casa
più sfarzosamente di quella del vicino e avrete la sensazione netta che,
in un certo momento dell’anno, le renne luminose degli stand di Yiwu
migrino tutte in California, come anguille del mar dei Sargassi. Se il
mercato statunitense si chiude, che faranno nella città cinese?
Zhao Futao e suo padre hanno una fabbrica che produce decorazioni
natalizie. Lui è un ragazzone poco più che trentenne. “Quando ero
giovane, mi piaceva un po’ troppo fare a botte. Allora papà mi ha
spedito per due anni in Xinjiang: vai, vai – mi ha detto – chissà che
non metti la testa a posto”, racconta. “La guerra commerciale non ha un
grande impatto sui miei affari, ma comunque influisce sulla mia vita.
Sappiamo tutti che è cominciata e questo ci provoca ansia. Ci chiediamo
se avrà conseguenze. Apri il computer e guardi gli ordini dei clienti
statunitensi, pensi che con i dazi i costi d’esportazione e i prezzi
delle materie prime saranno sempre più alti”.
Negli ultimi anni, per lui gli affari non sono andati più tanto bene:
“Prima i clienti erano soprattutto russi, ma più o meno dal 2014 il
rublo si è svalutato e quel mercato si è dimezzato”. A Zhao poco importa
che la causa sia stata il calo del prezzo del petrolio o le sanzioni
della comunità internazionale contro Mosca; per lui si tratta molto
semplicemente di rimpiazzare un cliente con un altro. Prima il problema
con i russi, adesso forse con gli americani. “Per ora teniamo bene in
America Latina e in Europa meridionale”.
Le difficoltà hanno costretto lui e suo padre a innovare: la
fabbrica, che cumuli multicolorati di festoni natalizi fanno sembrare
un’installazione diffusa, pulsa al ritmo delle macchine. “Sono tutte
nuove e tutte made in China”, assicura Zhao. Ricerca di nuovi mercati,
ridefinizione continua del prodotto e riduzione dei costi di lavoro
attraverso l’automazione. Adesso nell’impianto ci saranno una decina di
operai, che a seconda dei periodi possono diventare di più. “Sono tutti
in regola e guadagnano tra i quattromila e i cinquemila yuan al mese
(500-630 euro): guarda che non è poco per dei migranti rurali”, assicura
Zhao. Tra non molto ci sarà la lunga pausa del capodanno cinese.
Potranno tornare a casa, nei villaggi, e fare bella figura portando
regali ai parenti.
Bisogna mantenere i volumi di vendita. A complicare le cose ci si è
messo di recente anche il governo: “Il mercato domestico rappresenta per
noi solo il 10 per cento – spiega Zhao Futao – ma dall’anno scorso le
autorità scoraggiano la celebrazione pubblica di feste non
autenticamente cinesi”. Proprio come il Natale. E parlando sempre di
governo, sono aumentati i controlli anti inquinamento. “Per avere le
montagne verdi e i fiumi puliti, le materie prime devono essere a norma e
i costi sono aumentati di parecchio”. Quest’anno, i rossi, i blu, i
fucsia dei festoni natalizi sono un po’ più smorti. Non è cambiato il
gusto del pubblico, ma si usano coloranti meno nocivi.
Pur di mantenere quote di mercato, i commercianti di Yiwu
preferiscono ridurre al massimo i margini di profitto. “Se l’anno scorso
guadagnavo cinque, quest’anno guadagno tre, ma comunque continuo a
vendere”, racconta la signora Yu, immersa come una regina nella sua
corte di Babbi Natale. “Mi sacrifico per la felicità del genere umano. E
non faccio altro per 365 giorni l’anno”, dice ridendo Zhao Futao. E
ride anche suo padre, Zhao Guoqiang. Fuori, nel cortile del complesso
industriale, qualcuno ha steso il cavolo cinese a essiccare di fronte
all’ingresso della palazzina che ospita gli uffici.
Bisogna vendere, punto.
In Cina si dice che la gente del nord – come a Pechino – produce
automobili inservibili; quella del sud – come a Yiwu – cerniere e
bottoni utili, anzi indispensabili. Il senso è che quelli del nord fanno
solo ciò che dà mianzi – “faccia”, prestigio – o soddisfazione
personale; a sud, invece, producono ciò che chiede il mercato, senza
particolari investimenti emotivi personali, basta che si venda.
Così è per i festoni natalizi di Zhao Futao e anche per i Babbi
Natale di Yu Qiaofang, nonostante l’indubbia creatività ruspante che
trasmette il negozio della donna. Abbiamo parlato tante volte di “resilienza”,
nel caso degli imprenditori cinesi: è quella capacità di diventare
flessibili fin quasi a spezzarsi, assottigliare i profitti fin quasi ad
annullarli; purché si veda la luce in fondo al tunnel; solo in questo
caso ne vale la pena.
Per riuscire in questo processo di adattamento, ci vogliono risorse
ben precise, che a Yiwu appaiono chiare. La prima, imprescindibile, è la
famiglia. I grossisti di Yiwu sono in realtà sia produttori sia
commercianti. Le due funzioni sono incorporate nelle loro piccole
imprese a gestione familiare. Della loro attività si dice che sia 30 per
cento manifattura, 30 per cento prova campioni e 30 per cento
rivendita: davanti il negozio, dietro l’officina, una filiera corta che è
garanzia di flessibilità, prezzi bassi e personalizzazione del
prodotto.
Il sistema è forse ancora più chiaro in un altro settore: quello dei
fiori finti. Perché osservare una merce così sottovalutata, sinonimo di
cattivo gusto? Perché dietro ai fiori artificiali – attenzione, non sono
solo “di plastica” – c’è intelligenza applicata. La loro banalità è
solo apparente. Basti dire che, nel 2017, la Cina ne ha esportati in
tutto il mondo circa 263mila tonnellate, per un valore di oltre tre
miliardi di dollari, secondo dati delle dogane.
Sheng Jiyuan è nel business con suo marito, Wang Baoying. Lei sta nel negozio alla Shangcheng (“città del commercio”), giusto due piani sotto i prodotti natalizi; lui si occupa del magazzino e della distribuzione.
Davanti a un camion dove alcuni magazzinieri caricano una partita
diretta nelle Filippine, lui ci spiega la geografia della
filiera:“Abbiamo una fabbrica a Tianjin, dove venti-trenta operai
costruiscono il modello, applicano la tintura e producono i pezzi. Poi
spediamo tutto nelle montagne dello Shandong per l’assemblaggio, che
coinvolge centinaia di lavoratori intermittenti. Lì, la manodopera costa
meno”. Quindi i fiori artificiali arrivano a Yiwu, dove ci sono la
showroom e il magazzino, e da lì partono per il porto di Ningbo. La
signora Sheng aggiunge una pre-tappa al tour de Chine dei suoi fiori: “Il design migliore viene da Guangzhou”.
Guangzhou, Tianjin, Shandong, Yiwu, Ningbo, mondo: una filiera
apparentemente lunga che però diventa corta grazie ai legami familiari.
“Dal mio negozio dove passano i compratori, io capisco se in un certo
paese piace di più un certo tipo di fiore”, spiega Sheng Jiyuan. “Quindi
mando il disegno a mia nipote a Tianjin, lo produciamo in breve tempo e
così abbiamo un vantaggio competitivo”. La diffusione geografica permette di localizzare ogni anello della
catena dove il rapporto qualità-prezzo è più vantaggioso; la famiglia
permette di capirsi al volo e offre quella fedeltà assoluta data dai
destini comuni.
Questa macchina è in grado di rispondere in tempo reale alle
richieste del mercato. Intorno allo stand di Shen Jiyuan, altre piccole
imprese replicano all’infinito lo stesso schema. Una famiglia di Yiwu –
gli autoctoni non sembrano essere la maggioranza – produce alberi e di
fronte al loro stand spicca un meraviglioso ciliegio in fiore; un’altra
viene dallo Hebei ed è specializzata in foglie ed erba, la commessa
indossa un pellicciotto rosa su sfondo completamente verde; quelli del
Guangdong fanno invece fiori in vaso, finti i primi e finto anche il
secondo. Tutte specializzate in un prodotto, tutte con una filiera che
hanno personalizzato negli anni.
Di fronte allo showroom di una famiglia dello Shandong specializzata
in “fiori natalizi”, una giovane commessa di Chongqing stende il
prodotto sul pavimento a beneficio di alcuni compratori indiani. Sono
fiori ostentatamente innaturali, petali enormi corredati di perline.
Chiedo al signor Shubham Hans perché importi in India proprio quel
manufatto: “Piacciono molto, soprattutto nelle grandi occasioni, come i
matrimoni”. Il suo intermediario, Brighu Dhall, vive a Yiwu da diversi
anni e ha un’idea piuttosto precisa del perché l’India non riesca ancora
a competere con la Cina in questo settore: “Solo i cinesi riescono a
produrre questa qualità a questo prezzo”, dice. “Ci vorranno almeno
altri cinque-dieci anni prima che la produzione vada altrove, perché la
Cina ha una economia di scala che è ancora vincente”. Il signor Hans lo
guarda un po’ storto e lo corregge: “Ma anche noi ci stiamo arrivando.
Il nostro governo sta facendo molti investimenti”. “Ah sì sì, sta
facendo investimenti”, si affretta a rettificare Dhall.
Yiwu appare come un sistema integrato estremamente reattivo.
Comprende piccole imprese familiari molto flessibili, la logistica,
trasporti, l’accoglienza per i compratori. Nell’hotel dove alloggio, il
saluto ricorrente è assalamu alaikum. Qui tutto il mondo viene a
rifornirsi di tutto. In giro si vedono soprattutto mediorientali,
centroasiatici, qualche russo. E la città si plasma a loro beneficio, in
un proliferare di ristoranti halal. Vedi all’opera il decoupling
[il termine è usato male, nota mia] – l’idea di scambi che prescindano dall’occidente – che ti fa pensare
come, tutto sommato, gli Stati Uniti non siano il centro del mondo. Il
lavoro vivo di Yiwu troverà una propria soluzione anche alla guerra
commerciale; o chissà, forse l’ha già trovata.
La signora Shen conosce il mondo attraverso i fiori: “Questi colori
autunnali vanno molto in Europa, in Brasile è più o meno dai Mondiali
che il giallo ha sostituito il viola”, dice mostrando le sue ultime
creazioni. “Puoi star certo che se in Brasile va un certo colore, nel
giro di poco tempo fa tendenza anche nel resto del mondo”. La sua
felicità è un girasole: “Questo è il fiore di cui sono più orgogliosa.
L’ho fatto io su disegno di un cliente e l’ho sempre venduto benissimo”.
Obiettivamente, rispetto a trent'anni fa, non ci sono muri (anzi: si erigono) e i nemici sono soltanto competitori produttivi e commerciali. Il nudo interesse, senza coperture ideologiche, potrà essere casus belli?
RispondiEliminaIntanto ti auguro un buon anno (e, nei limiti del tuo avatar) di essere un po' più loquace :-)
Il pianista suona malgrado le opinioni dei presenti
RispondiEliminapiù che loquace rognoso
Tanti auguri Luca !!
ehehe ...se non conoscessi la proverbiale voracità degli abitanti dello zhejiang, la storia avrebbe un non so che di commovente.
RispondiEliminaPiù vado avanti e più tutta questa storia mi ricorda Saturno che mangia i suoi figli: se ne sarà scordato qualcuno anche questa volta?
in ogni caso grazie per gli spunti di lettura.