martedì 17 luglio 2018

Noi contro noi ?

Dialogando con una compagna, che usava la successione in fasi da keynesiana a neo-liberista,  obbiettavo che " i paesi leader del capitalismo mondiale hanno sempre proceduto con il doppio passo".  Dicendo questo non intendevo contestare la periodizzazione storica dal novecento fino a noi in keynesismo di guerra-di pace-neoliberismo ma intendevo contestare quel che di ideologico, a mio avviso, vi è contenuto. E' vero che: " lo Stato ha perso ruolo quale regolatore del meccanismo della riproduzione sociale, di garante e interprete dei principi costituzionali e della loro estrinsecazione nella sfera della legislazione, lasciando esposto il lavoro alla condizione darwiniana del mercato"; è altrettanto vero che la statalizzazione dell'economia ha preso sempre più spazio quantitativo e in progressione geometrica proprio a partire dal palesarsi della fine della fase keynesiana. Insomma la profondità della dialettica Capitale-Stato è tutta da capire e non ci si può accontentare -come vuole l' opinione comune e non della compagna in questione- di assegnare una  posizione ancillare ad uno o all' altro [ ironicamente, il grafico di Bloomberg ne illustra un singolo aspetto].

A questo proposito articolo del 2012 di Quinterna.org che guarda alla unità dinamica dello  Stato e del Capitale, al loro rapporto contraddittorio -e proprio in virtù di questo- di rivitalizzazione reciproca,  al fatto che la crisi degli Stati esprime sempre più chiaramente la mutata distribuzione dell' interesse generale borghese che ha assunto forme compatte a livello planetario e sempre più particolari e puntiformi a livello locale. La asfittica vicenda europea oppure le provocazioni "avanguardistiche" di Trump  di questo parlano: i tanti personaggetti in scena si affannano a cercare di strutturare e trattenere a livello nazionale il fugace momento espansivo dell'  economia, forse già al suo epilogo.---


La tesi che sta alla base della presente esposizione è semplice: più Stato non vuol dire meno capitalismo bensì il contrario; nello stesso tempo vuol dire capitalismo vecchio e decrepito, che ha bisogno di medicine salva-vita per evitare il collasso. Quali sono i sintomi? C'è una cura? I sintomi cercheremo di descriverli, la cura semplicemente non c'è più.


L'importanza economica crescente dello Stato è immediatamente visibile nella tabella riprodotta qui di seguito. La media storica della spesa pubblica nei paesi ivi considerati è passata dal 10,4% del prodotto interno lordo nel 1870, al 47,7% nel 2009. E la suddetta spesa solo in parte è coperta da una pressione fiscale anch'essa crescente: il resto è coperto dal debito pubblico, che per alcuni paesi è già un multiplo del PIL. È dunque di per sé evidente che nel prossimo futuro la curva non potrà continuare a crescere con quel ritmo: si giungerebbe paradossalmente ad una economia statalizzata al 100% entro il 2070. Oltretutto saremmo in presenza di una contraddizione stridente: mentre la curva storica della spesa pubblica mostra un andamento crescente in modo quasi lineare per un secolo e mezzo, con un tempo di raddoppio di 60-70 anni, la curva della produzione industriale, cioè degli incrementi relativi anno per anno, quella che ci mostra la vitalità del sistema, è di tipo asintotico, cioè tende ad appiattirsi con il passare del tempo.

Ciò significa che il processo in corso oggi, per quanto non ancora visibile nei suoi effetti dirompenti, esploderà molto prima di quanto possa far immaginare la tabella. Già oggi l'importanza politica dello Stato, cioè la necessità di un intervento qualitativo per condizionare pesantemente le scelte, la vita stessa dei cittadini e delle loro rappresentanze parlamentari, sindacali, esecutive, militari, aumenta di pari passo con l'importanza economica puramente quantitativa. Il capitalismo lasciato a sé stesso, infatti, tende prima alla concentrazione dei capitali e poi alla loro centralizzazione, quindi al monopolio sempre più generalizzato a livello globale. Ma quando lo Stato è costretto a intervenire affinché il sistema dei monopoli non uccida il tessuto economico, lo fa imponendo il liberismo, pagandolo profumatamente, come s'è visto in questi ultimi trent'anni, cavando sangue dai cittadini (ovviamente soprattutto dai proletari) affinché l'eterno gioco del guadagno privato e della perdita socializzata possa continuare.

Perciò ogni tabella sulla spesa pubblica dovrebbe essere letta insieme a quella del debito pubblico e della pressione fiscale, tutti parametri che non possono crescere in eterno e che quindi provocano una pressione sociale che va controllata politicamente, come quella economica. Lo Stato si fa sempre più esattore e quindi sbirro, le due cose sono concatenate. Ma anche questa tendenza ha dei limiti: già oggi, avvicinandoci a una media di "statalizzazione" dell'economia del 50%, lo Stato non è più l'elemento rivitalizzante del capitalismo, il regolatore delle sue funzioni, ma un mostro elefantiaco la cui attività è in gran parte finalizzata alla propria perpetuazione. Il suo modo di essere ricade completamente sotto gli effetti della legge dei rendimenti decrescenti.

Oggi il sistema delle relazioni fra gli Stati nazionali, così come si è venuto strutturando nel corso di secoli, riflette la decadenza del modo di produzione capitalistico anche se – o proprio perché – quest'ultimo è stato capace di estendere al massimo il lavoro sociale, base un tempo della sua rivoluzionaria nascita e domani della sua scomparsa. La classe che custodisce gli attuali rapporti sociali non ha più vitalità, può solo approntare soluzioni temporanee, per nulla risolutive, anzi, spesso causa di peggioramenti macroscopici. Anche il capo dell'esecutivo "tecnico" italiano ha riconosciuto che l'intervento statale ha contribuito a peggiorare la situazione economica e sociale, benché abbia cercato di salvare la faccia affermando che i "sacrifici" servono per la ripresa futura. Ma intanto il sistema capitalistico fa acqua da tutte le parti e il "progresso" produce miseria relativa crescente fra milioni di persone. Non c'è Stato che si sottragga a queste determinazioni.

Man mano che il capitalismo matura e lo Stato perde la funzione di rappresentante dell'interesse generale, si rende sempre più evidente l'inutilità storica della classe borghese e del suo sistema economico. Tra la vecchia società che muore e quella nuova che emerge, rimane soltanto una sottile, per quanto potente barriera: la forza armata e organizzata, una violenza di classe generalizzata potenziale e nello stesso tempo attuale, reale. La borghesia strilla sempre più forte che il comunismo è morto, che il capitalismo ha un futuro eterno e che nessuno vuole in realtà il cambiamento. Ma, come faceva già notare il giovane Marx, "la polizia aiuta". Quando la frontiera che separa il passato dal futuro, un sistema sociale da un altro, è fatta solo di sbirraglia (in senso stretto e in senso lato) al servizio del Capitale, vuol dire che il sistema morente ha già abdicato, firmando una resa di fronte al futuro.

In una situazione che tende a sfuggire di mano alle borghesie nazionali per effetto dell'internazionalizzazione e autonomizzazione del Capitale, il sistema avrebbe bisogno vitale di un controllo economico e sociale planetario. Quello che sta succedendo in Europa con la folle e suicida competizione per la salvaguardia dell'interesse nazionale è lo specchio di quello che succede nel mondo, solo che fuori d'Europa non si teorizza alcuna unità sovranazionale. Perciò si aggiunge un ulteriore livello di contraddizione: sarebbe appunto necessario un controllo planetario, ma quando si tenta di realizzarne almeno dei surrogati, il nazionalismo ha il sopravvento. Nel momento in cui si rischia il collasso dell'economia e del sistema monetario basato sul dollaro, i vari vertici mondiali, G7, G8, G20 o altro che siano, non si rivelano altro che arene di chiacchiere che coprono la continua ridefinizione dei rapporti di forza tra paesi non disposti a mollare un millimetro di terreno per quanto riguarda gli interessi nazionali in contrasto. In tale quadro gli Stati Uniti esercitano un ruolo, peraltro spasmodicamente cercato e difeso, di gendarme planetario, l'unico in grado (per ora) di garantire la stabilità dell'intero sistema capitalistico. Che poi questa aspirazione sbocchi nei risultati voluti è un altro discorso, dato che una serie di interventi locali, diretti o per procura, in molti casi aggravano la situazione invece di risolvere problemi. Il caso del Pakistan, del quale parleremo più avanti, è emblematico: oggetto di pesanti interventi americani sul suo assetto interno, con il cambiare della situazione locale dopo l'11 Settembre, è stato oggetto di altrettanto pesanti interferenze di segno opposto, tali da rendere la situazione interna ambigua e incontrollabile.

In Europa, l'impossibilità di varare una politica economica unitaria, di cui abbiamo parlato su altri numeri della rivista, evidenzia il decadimento della culla del capitalismo, iniziato al tempo della successione degli Stati Uniti all'Inghilterra. Ma non ci sarà un nuovo cambio della guardia. Anche i paesi cosiddetti emergenti come la Cina e l'India, soffrono di invecchiamento precoce: presentano un esubero di Capitali e di merci che devono trovare spazio al di là dei confini nazionali, e devono affrontare sommosse interne per tutta una serie di problemi che vanno dallo scontro etnico alla ribellione anti-statale, dalla lotta per il pane (o riso) alla classica lotta sindacale (come a Shenzhen, dove milioni di operai ormai da anni mostrano una combattività irrefrenabile).

Sul piano dello scontro mondiale fra il morente modo di produzione capitalistico e la nascente società comunista è abbondantemente dimostrato che, all'impossibilità delle borghesie locali di agire unitariamente sul piano globale, corrisponde una ormai collaudatissima capacità di coalizzarsi contro il proletariato, che è per definizione senza patria. E questo almeno dalla Comune di Parigi in poi. Tuttavia ciò non basta, di fronte alla progressiva disgregazione del tessuto sociale che si riflette nello Stato nazionale, a far sorgere un super-Stato sovranazionale. Il Leviatano politico ha i proverbiali piedi d'argilla.


3 commenti:

  1. ti ringrazio del post e della segnalazione dell'articolo e pure della Rivista sul movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Quasi quasi mi abbono.

    RispondiElimina
  2. mi lascia perplesso. più spesa pubblica (e più debito) non significa più stato nell'economia ma solo più stato nell'ambito della riproduzione dei soggetti sociali. sulla "morente modo di produzione capitalistico e la nascente società comunista", soprattutto su quest'ultima, c'è solo da disperarsi.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. scusate il ritardo ma in questi giorni sono impicciato

      non c'è dubbio che nel capitalismo è la profittabilità dei capitali privati che segna lo stato di salute di una singola economia, la misura della qualità capitalistica di questo o quel paese

      ovvio che dipende dai contenuti che si mettono nel concetto di "pubblico" ma, per stare all'Italia, 800 miliardi di spesa mi pare difficile non considerarli economia, anche pensioni e sanità lo sono e neanche loro sono un pasto gratis

      nel titolo ho concentrato tutti i miei dubbi sul articolo di quinterna, facendovi echeggiare il Lenin che si chiedeva " ma che succede quando lo Stato siamo noi? "

      Elimina

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.