sabato 18 novembre 2017

Breaking bad Mr Trump

Articolo di un anno fa su una serie tv che ho amato molto e scritto da un blogger che ho frequentato in rete e di cui sto leggendo il primo libro, i cui temi e tesi sono stati sviluppati lungamente sul blog in questione: eschaton.---

Per cinque stagioni, dal 2008 al 2013, una serie televisiva ha raccontato quell’America disperata che si preparava a votare Donald Trump:​ si tratta di B​reaking Bad. Ovvero la storia di un insegnante scolastico di chimica che, non potendosi pagare le cure per il cancro, inizia a produrre e spacciare droga. Ma è proprio in questo stringatissimo riassunto — e nel rapporto di causa ed effetto che suggerisce — che sta tutta l’ambiguità della serie, nonché il suo contributo alla comprensione del fenomeno-Trump. Perché in realtà Walter White, il protagonista, quelle cure potrebbe benissimo pagarsele. Potrebbe se accettasse di rivolgersi a un medico convenzionato con la sua assicurazione, potrebbe se per puro orgoglio non avesse rifiutato una certa offerta di lavoro, e soprattutto potrebbe se il suo stile di vita non prevedesse una villa con piscina (come quindici milioni di famiglie negli Stati Uniti) e una moglie casalinga da mantenere. Uno stile di vita, la​ cosiddetta a​merican way of life, che sulla scala delle disuguaglianze mondiali costituisce un irraggiungibile modello di benessere. Di fatto la pove​rtà di Walt è una povertà r​elativa. Proprio come quella di molti americani che hanno votato Trump.


Che sia stato “il Popolo” a votare massicciamente il candidato repubblicano alle presidenziali americane, come sostenuto in un primo momento da giornalisti pigri al traino della moda gentista, è stato ormai ampiamente smentito dai dati socio-demografici.​ Non soltanto Trump ha ​perso contro Hillary Clinton nel cosiddetto “voto popolare” (e vinto invece sulla base del sistema del collegio elettorale) ma inoltre il suo elettorato non è assolutamente costituito dalla fascia più povera della popolazione. La maggioranza degli elettori che guadagnano meno di cinquantamila dollari all’anno, tra cui ovviamente molti neri, ha votato Clinton, che da parte sua rispetto a Obama ha perso sei milioni di voti. Ma in fondo tutti quanti gli americani, bianchi e neri, per quanto poveri sono in qualche modo “azionisti” della supremazia commerciale, militare e monetaria della loro nazione. La rabbia che sale dal cuore dell’America, insomma, non è precisamente la rabbia degli ultimi. È una rabbia molto più violenta e distruttiva: è la rabbia dei declassati. Bisogna ricordarlo a tutti coloro che vorrebbero arruolare Trump alla causa dell’anticapitalismo (peraltro in aperta contraddizione con il suo programma) quando invece quella che hanno di fronte è la rivolta del 10 per cento più ricco del pianeta che fa i conti con la crisi del suo modello di sviluppo.

Il male che affligge Walter White, ovvero l’americano medio, è tutto sociale. Lui si sente un fallito in una società di «cacciatori di prestigio», come li chiamava il sociologo Vance Packard negli anni Sessanta. La sua discesa negli inferi del narcotraffico non è altro che il prodotto di una rivalità mimetica con il cognato poliziotto, con i colleghi, con i vicini. Quando la signora White propone al marito di mettersi a lavorare per aiutarlo a pagarsi le cure, lui scaccia via l’assurda ipotesi senza nemmeno discutere. Ma insomma cos’è questo, un film di Alberto Sordi? ​ Proprio così​ : una specie di remake del ​Maestro di Vigevano o del B​oom, film che raccontavano le patologie della cosiddetta società affluente. «Mia moglie non deve lavorare!» è precisamente quello che esclama Antonio Mombelli, insegnante elementare in una scuola di Vigevano, quando per arrotondare le entrate la moglie propone di farsi impiegare in fabbrica. Nel ​Boom, invece, il protagonista Giovanni Alberti decide addirittura di vendere un occhio pur di continuare a ​garantire il proprio dispendioso stile di vita. Quella di Walter White, come quella di Mombelli e Alberti, è una tragedia borghese.

Non c’è da ironizzare sul malessere sociale che può portare un individuo a vendere un organo, spacciare droga o votare un politico che promette cose impossibili. D’altronde è un destino che noi, classe disagiata presa nella spirale del declassamento,​ conosciamo bene. Con calcolato buonsenso politici d’ogni sponda invitano ora a tenere in considerazione quel disagio, la “m​ucca nel corridoio”​ come direbbe Pierluigi Bersani. Ma invece di alimentare il risentimento della classe media, che gioverà soltanto ai partiti populisti, sarebbe più onesto ricordare che questo disagio si fonda innanzitutto su un doloroso malinteso. Bisognerebbe cioè avere il coraggio di dire agli elettori, come ha fatto Michael Land su Politico.com​: «Sorry, Trump, America Can’t Be Great Again». Perché, come ha mostrato l’economista Robert Gordon nel suo recente libro The Rise and Fall of American Growth, il grandioso ciclo industriale inaugurato nella seconda metà dell’Ottocento è semplicemente concluso​. Perché, come predica da qualche anno l’ex-segretario del Tesoro Larry Summers, potrebbe essere iniziata una ​stagnazione secolare​ delle economie avanzate. Perché, come insegna persino la dottrina marxista, i cicli del capitalismo sono minati da contraddizioni insanabili che presto o tardi arrivano a maturazione.

La grande menzogna dei politici populisti è di lasciar credere ai loro elettori che a essere perdenti nella divisione del lavoro internazionale siano i Paesi occidentali. In realtà se davvero Donald Trump chiuderà le frontiere sarà proprio l’attività del povero Walter White la prima a farne le spese. Perché l’immensa ricchezza che l’ex insegnante di chimica ha accumulato cucinando metanfetamine non dipende soltanto dalle sue competenze e dal suo lavoro, né dal design e dal branding come direbbero quelli di Apple, ma da un fattore di produzione di cui in ​Breaking Bad si parla poco: la materia prima. L’ingrediente principale della ricetta di White si chiama ​ pseudoefedrina,​ un alcaloide usato in medicina come decongestionante delle mucose nasali. Nel 2012, gli Stati Uniti ne importavano 180.000 kg soprattutto dalla Germania, dalla Cina e dall’India. Arrivando in coda della catena del valore, lo Steve Jobs della droga è in grado di decuplicare, anzi centuplicare il r​eturn on investment sulle sue materie prime. Perché il benessere delle economie avanzate, come mostrò l’economista sudafricano Hosea Jaffe,​ regge sullo sfruttamento della forza-lavoro mondiale. L’attuale crisi sorge insomma dall’incapacità di spremere ulteriormente un plusvalore che si assottiglia al ritmo delle contrazioni del capitalismo, dell’evoluzione tecnologica e della concorrenza internazionale. ​In questo senso l’Occidente non ha vissuto sopra le p​roprie possibilità; semmai sopra quelle degli altri.

Che cosa può dunque portare una potenza imperiale come gli Stati Uniti a sognare con Trump la strada dell’isolazionismo? Accade in America la stessa cosa che sta accadendo in Italia, Francia, Inghilterra: la classe transnazionale che per decenni, spesso senza nemmeno accorgersene, ha indirettamente goduto dei benefici della globalizzazione, di fronte ai rendimenti decrescenti del sistema ha elaborato un vigoroso risentimento e partorito un’ideologia sovranista che mima grottescamente il socialismo. Ma si tratta del socialismo allucinatorio della borghesia declassata. Nella sua precedente incarnazione storica, lo si era chiamato ​fascismo. Una droga molto più pesante della meth.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.